Simone Inzaghi, Re di Coppe
Contro la Fiorentina ha vinto la sua settima finale su 8 disputate in carriera.
Simone Inzaghi vince la sua quarta coppa in due anni da allenatore dell’Inter: la seconda Coppa Italia consecutiva, dopo quella vinta l’anno scorso contro la Juventus, e dopo le due Supercoppe Italiane consecutive vinte nel 2022 e nel 2023. Il tecnico dell’Inter è ormai entrato in una bolla dorata in cui da ogni parte viene omaggiato come “Re di Coppe”, una reputazione rafforzata dall’insperata qualificazione alla finale di Champions League del prossimo 10 giugno. Simone Inzaghi non ha mai vinto il campionato, ma con questa Coppa Italia ha vinto la sua settima finale su 8 disputate in carriera da professionista e questo lo rende l’allenatore più vincente nell’ultimo decennio di calcio italiano dopo Massimiliano Allegri.
A inizio stagione in un momento difficile dell’Inter Inzaghi aveva detto che «Dove lavoro io aumentano i ricavi, dimezzano le perdite e arrivano i trofei», ed è difficile dargli torto vista la crescita che la Lazio ha avuto sotto la sua gestione, alla sua prima esperienza da allenatore. Una Lazio che tra il 2016 e il 2019 ha vinto 3 trofei, di fatto la seconda squadra più vincente in Italia negli anni del massimo dominio della Juventus di Max Allegri. Nel 2021 Inzaghi si è seduto sulla panchina dell’Inter campione d’Italia, e da allora la magia che circondava la Lazio nelle coppe italiane si è trasferita all’Inter, che ha vinto tutte le Coppe Italia e le Supercoppe di questi due anni.
Ieri dopo la partita con la Fiorentina hanno chiesto a Inzaghi come faccia a vincere tutte le finali, e lui ha risposto sottolineando come i suoi giocatori siano «Rimasti calmi, lucidi» anche dopo lo svantaggio subìto dopo 2’. Spesso si parla con molta leggerezza della capacità di una squadra di mantenere la calma e di non disunirsi nei momenti negativi di una partita: sembra uno di quegli argomenti un po’ stereotipati che i professionisti tirano fuori nelle interviste port partita, un topos che vuol dire tutto e non vuol dire niente. Nella finale di ieri, però, la chiave della vittoria dell’Inter è stata davvero, al di là dei luoghi comuni, la capacità di mantenere la concentrazione e di continuare a credere nel proprio piano gara nonostante il gol preso quasi subito.
L’Inter ha giocato la partita che la Fiorentina temeva: facendo valere il rango superiore dei suoi giocatori, vincendo grazie alla loro migliore capacità di svoltare gli episodi della partita col loro talento. In questo senso l’Inter è una squadra piuttosto camaleontica: una squadra di sistema e una di individui al contempo. Può vincere una partita grazie all’imposizione di un contesto tattico chiaro e codificato, in cui nessun giocatore emerge sul collettivo; e quella dopo svoltarla grazie a un’intuizione estemporanea di Barella o di Lautaro. Sa anche mescolare questi due registri: creare i presupposti, attraverso la pianificazione meticolosa dell’azione, perché la creatività un po’ caotica dei suoi rifinitori possa esprimersi al massimo potenziale. Quella di ieri è stata una partita di questo tipo. Dopo lo svantaggio l’Inter ha mantenuto la calma e invece di abbandonarsi alla frenesia e all’improvvisazione ha ripreso in mano l’inerzia della partita con razionalità, affidandosi alle vecchie certezze del suo sistema tattico. Alle rotazioni fluide della sua struttura posizionale, alla fede nella costruzione dal basso, alla volontà di attirare la pressione della Fiorentina fin dentro la propria area per poi giocargli alle spalle. Una volta impadronitasi delle redini della partita con la forza della propria rodata strategia tattica, ha colpito con l’estro individuale. Quello di Lautaro Martinez specialmente, che sta vivendo la migliore stagione realizzativa da quando è in Italia; che con la doppietta di ieri ha segnato il 100° e 101° gol con la maglia dell’Inter. A fine primo tempo l’Inter aveva già rovesciato il risultato, e tanto gli è bastato per amministrare la partita nel secondo tempo.
Lautaro incarna forse meglio di tutti la natura duplice dell’Inter: sa disciogliere la propria qualità nel sistema e poi improvvisamente elevarsi sopra a esso con un guizzo inatteso. Sa essere associativo e caotico, disciplinato e geniale. Per tutto il primo tempo ha partecipato alla complessa cucitura dell’azione dell’Inter con un importantissimo lavoro di raccordo. Prendiamo ad esempio questa azione al 5’. L’Inter ha subìto il gol dello 0-1 due minuti prima, e ancora non si è mai affacciata in area avversaria. Sull’impostazione da dietro la Fiorentina alza un pressing uomo su uomo, che Handanovic e i difensori incoraggiano scambiandosi il pallone in area e invitando i giocatori della Fiorentina fin dentro l’area piccola. Nel frattempo sono cominciate le famigerate rotazioni della struttura dell’Inter: Acerbi si alza sulla linea dei centrocampisti, Brozovic e Calhanoglu si abbassano a turno su quella dei difensori. Poi Bastoni calcia lungo per sfruttare lo spazio che si è liberato dietro la pressione della Fiorentina, verso Lautaro, che è bravo a tenere la posizione contro Martinez Quarta e a mettere giù un pallone difficile. Lautaro si gira e appoggia ad Acerbi, che ha spazio per condurre fin quasi a centrocampo e la tecnica buona per imbeccare la corsa di Barella.
Al suo arrivo in Italia erano nati molti fraintendimenti intorno a Lautaro. La sua statura e la maglia numero 10 avevano convinto molti di trovarsi davanti a un enganche argentino tutto tecnica e creatività. Le cose però stavano diversamente. Lautaro è sempre stato una prima punta, una che peraltro dà il meglio di sé negli spazi ampi in cui può scatenare tutta la sua energia. In questi anni è riuscito però ad arricchire il suo gioco migliorando nel lavoro spalle alla porta, in questi palloni che riceve con l’uomo addosso e che deve ripulire e restituire ai suoi compagni. Prendiamo un’altra azione di ieri, quella al 12’. Dalla difesa Bastoni trova una bella traccia verticale per Lautaro, quello controlla orientato col sinistro aprendosi il campo – sempre accorto a difendere la sfera da Martinez Quarta che gli sta attaccato – poi ha la lucidità per servire un filtrante in profondità sulla corsa di Dumfries.
È in questo modo che l’Inter ha recuperato l’inerzia del match nel primo tempo, con queste azioni costruite con lucidità dal basso. E pensare che il gol di Nico Gonzalez era nato proprio da una situazione di questo tipo: una verticalizzazione di Acerbi verso Lautaro, che stavolta non era stato bravo a controllare spalle alla porta e si era fatto anticipare da Dodò che aveva poi avviato la transizione della Fiorentina. Una circostanza che avrebbe potuto distruggere le certezze dell’Inter, ma così non è stato. I nerazzurri dopo il gol hanno insistito su quella stessa trama, hanno avuto fiducia nel loro piano di disordinare la Fiorentina con il possesso palla da dietro e di imbucare velocemente nello spazio libero, in verticale verso Lautaro. È questa fiducia nella forza del proprio gioco la «calma» che Simone Inzaghi ha riconosciuto a fine partita ai suoi giocatori.
Una volta inclinato il contesto tattico a proprio favore, l’Inter ha segnato con la spietatezza dei suoi campioni. Al 28’ ha punito con cinismo le illusioni infantili, naif della Fiorentina, che durante un attacco portato con molti uomini si è spezzata in due tronconi e non è riuscita ad assorbire la successiva transizione dell’Inter. Al 36’ un pallone lanciato in area senza troppe aspettative da Barella ha incontrato un guizzo altrettanto geniale – un tiro di destro in acrobazia – di Lautaro che ha fissato il risultato su 2-1 che avrebbe poi resistito fino alla fine. D’altra parte la differenza tra la vittoria dell’Inter e la sconfitta della Fiorentina è passata soprattutto dalla diversa capacità di far fruttare gli episodi favorevoli. Dalla precisione di Lautaro da una parte, dall’imprecisione di Jovic dall’altra, che tra il 78’ e l’81’ ha avuto due grosse occasioni per segnare a tu per tu con Handanovic.
Le squadre molto competitive nelle partite decisive sono quelle che possono contare sui calciatori a loro volta più talentuosi, più capaci cioè di risolvere le partite con la pura imposizione del loro talento. Anche questo aspetto ha citato Simone Inzaghi a fine partita tra le chiavi del suo successo: «Ho la fortuna di avere ottimi giocatori che in certe partite non mollano. Gran parte del merito è che ho una squadra molto concentrata, che determinate partite non le sbaglia». Eppure il modo in cui questo “spirito da coppa” si è trasfuso dalla Lazio all’Inter contestualmente al cambio di panchina di Inzaghi, è indicativo di quanto il principale artefice di questi successi sia proprio Inzaghi.
La sua capacità di infondere calma alla squadra e di gestire sapientemente i momenti decisivi di certe partite è quasi in contraddizione con la reputazione che Inzaghi si è costruito in Serie A. È vero, ai tempi della Lazio la sua squadra era molto affilata negli scontri diretti in campionato, ma nei due campionati disputati con l’Inter Inzaghi non si è distinto sempre per una gestione eccellente dei singoli momenti. A volte le sue scelte non sono state espressione di calma ma di nevrosi: la fissa per sostituire i giocatori ammoniti, le scelte a volte poco lucide nei cambi a gara in corso. Come fa lo stesso allenatore a trasformarsi in un mago nelle coppe? Uno specialista cioè di quelle partite in cui è assolutamente necessario non sbagliare la gestione dei più piccoli dettagli?
È una domanda a cui non esiste una risposta razionale. Inzaghi sembra però aver fatto passi avanti nella gestione della rosa. In questa stagione la rosa dell’Inter è stata sconvolta da molti imprevisti – la cattiva forma del rientrante Lukaku, l’infortunio di Brozovic, il calo di De Vrij e poi di Dumfries post-mondiale, la cessione di Skriniar, le difficoltà di Gosens, la necessità improvvisa di mettere da parte Handanovic – eppure davanti a tutti questi episodi negativi Inzaghi ha trovato soluzioni costruttive e consolidato proprio attorno a queste difficoltà l’identità di una nuova Inter. L’11 tipo di questo finale di stagione è molto diverso da quello che Inzaghi, probabilmente, aveva in mente a inizio stagione: Onana è diventato il portiere titolare indiscusso, Darmian si è riscoperto un eccellente braccetto di difesa, Dimarco è diventato titolare della corsia sinistra lungo la stagione, Calhanoglu ha giocato la maggior parte delle sue partite da regista, Dzeko si è preso il posto da titolare di Lukaku. Tutte scelte impronosticabili a inizio anno, e che sono diventate scelte di Inzaghi. Scelte attorno a cui l’Inter ha fatto quadrato e che hanno definito una gerarchia all’interno della rosa.
Inzaghi ha finito per trarre vantaggio da questo sistema divenuto improvvisamente chiuso di possibilità; Inzaghi ha deciso di affidarsi a questo nuovo nucleo dell’Inter come un marinaio si lascia guidare dalla stella polare nel mare di notte, e in questo modo ha ridotto le possibilità di scivolare nelle scelte troppo caotiche del passato.
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