Lo Scudetto di Cristiano Giuntoli
La vittoria del Napoli è merito anche del lavoro del suo direttore sportivo.
Un’ovazione interminabile dei tifosi, accorsi in massa al Maradona per la festa dei campioni d’Italia. Un giro di campo, un abbraccio ai suoi collaboratori e poche parole, al retrogusto d’addio, al microfono. Sarà senz’altro un addio dolce – se addio sarà – quello di Cristiano Giuntoli al Napoli di De Laurentiis. Un addio da vincente.
Sarà un addio dolce perché il terzo scudetto del Napoli non passerà alla storia soltanto come lo scudetto di Kvaratskhelia e Osimhen. Certo, loro sono andati in campo, ma sui libri di storia sarà scritto anche qualcos’altro. È impossibile non far caso a quanto questo successo appartenga – fin dentro le sue radici più profonde – a Spalletti, a De Laurentiis e soprattutto a Cristiano Giuntoli.
Secondo una larghissima fetta dell’opinione pubblica, proprio l’ex ds del Carpi è forse l'artefice più influente del ritorno del tricolore a Napoli. Al punto che verrebbe da dire che è alquanto strana, almeno rispetto agli ultimi anni di Serie A, una tale identificazione tra il successo di una squadra e il suo direttore sportivo: nessuno ricorda l’Inter del triplete come l’Inter di Lele Oriali e di Branca, né la Juve dei nove scudetti consecutivi come la Juve di Marotta. Questo Napoli invece rischia di passare alla storia anche come il Napoli di Giuntoli, vista la straordinaria campagna acquisti estiva che ha condotto il club a una vittoria difficilmente pronosticabile all’inizio della stagione.
Per Giuntoli, a dire il vero, non deve essere stato facile prendersi almeno un pezzettino della scena. È un direttore sportivo taciturno, ed è finito a contendersi il palco (e le standing ovation) con l’istrionico De Laurentiis e l’enfatico Spalletti. Questo risultato però l'ha conseguito coi fatti: Giuntoli è il capo del team che con un budget tutto sommato modesto, specie se rapportato ai risultati, è riuscito persino a migliorare il Napoli in un momento di rifondazione storica, coinciso con l’addio dei senatori “belli e perdenti” Mertens, Insigne e Koulibaly.
L’ha fatto – ed è forse il più grande merito – muovendosi su mercati non tradizionali e su profili non mainstream. Coi ricavi della cessione di Koulibaly al Chelsea, ad esempio, ha portato a Napoli sia Kim sia Kvaratskhelia, probabilmente i due calciatori che assieme a Osimhen e Lobotka (acquisti che ora magnificano in tanti, ma che qualche anno fa erano stati usati per criticare il ds) hanno deciso la stagione.
Giuntoli insieme a Kvaratskhelia, premiato Calciatore del mese AIC di agosto, il suo primo mese in assoluto in Serie A (Lapresse).
Per quanto riguarda Kim, si dice che Giuntoli lo avesse sul taccuino dai tempi in cui giocava in Cina, nel Bejing Guoan. Poi l’ha preso al momento giusto, prima che il prezzo lievitasse ulteriormente, dal Fenerbahche. Una squadra e un campionato, quello turco, che di solito accolgono le vecchie glorie dei campionati europei più che produrre talenti. Un posto un-conventional, dove Giuntoli aveva pescato qualche anno prima pure Elmas, che appena arrivato Carlo Ancelotti paragonò addirittura a Marek Hamsik.
Su Kvaratskheila, in realtà, si è detto tutto quello che c’era da dire. I più informati giurano che Giuntoli ne parlasse ai suoi fedelissimi da più di qualche anno. Il prezzo, finché è stato al Rubin, era però considerato altino. Scoppiata la guerra in Ucraina e rientrato in Georgia, Giuntoli come un falco ha colto l'occasione al volo, assicurando al Napoli uno dei talenti più cristallini del calcio europeo per una decina di milioni appena. Oggi il talento di Tbilisi vale dieci o quindici volte tanto. Al di là della vittoria, anche le prospettive di una corposa plusvalenza sono da tributare all'intuito del ds.
Col senno di poi è facile riconoscere la qualità dei nuovi acquisti, ma va detto che decidere di fare all-in su un semisconosciuto difensore coreano che giocava in Turchia (dopo aver giocato in Cina) e un giovane georgiano dal nome impronunciabile che faceva il fenomeno nel modesto campionato casalingo (dopo essere scappato dalla Russia) vuol dire grossomodo due cose: o sei un pazzo furioso o sei uno che di calcio ne capisce, circondato da persone competenti. Visti i risultati, l'ipotesi più corretta sembra la seconda: il modello “pane e scouting” di Giuntoli, fatto di prezzi normali, bilanci a posto e resa eccezionale è oggi d’esempio per l’intero mondo del calcio, europeo e mondiale.
Non a caso, pare che se ne sia accorta pure la Juventus, che avrebbe messo nel mirino l’architetto dello scudetto azzurro. Eppure, a scanso di equivoci, bisognerebbe chiarire una cosa: il “modello Giuntoli” è anche e soprattutto il “modello Napoli” – o “modello De Laurentiis”, se preferite. Ovvero un modello d’impresa sostenibile, forse l'unico esempio imprenditoriale efficiente in una città che fa ancora fatica – al di là di ogni stereotipo – a garantire ai cittadini anche solo un normale servizio di trasporto pubblico. È un modello che nell'attuale contesto del calcio italiano, dove regnano spese pazze o conservazione arraffona dell’esistente, ha contrapposto evoluzione, idee, programmazione, coraggio, lavoro, rischio calcolato. Che piuttosto che pagare una maxi-commissione all’agente di una vecchia gloria a fine carriera ha preferito scommettere su calciatori con un appeal tutto da costruire ma dall’innegabile talento e dalla spasmodica fame di vittorie.
C'è un dato molto indicativo: il Napoli è la prima squadra dal 1953 a vincere un campionato senza avere in rosa neanche un calciatore che l’aveva già vinto. E non è un caso che l’abbia fatto con una squadra di giocatori proveniente – come ha scritto Elmas su Instagram – da posti tanto periferici quanto complicati: Kosovo, Nigeria, Macedonia, Georgia, Slovacchia, Camerun. Calciatori, insomma, con radici lontane dalla tradizione europea e sudamericana che costituisce il nocciolo del calcio mondiale.
Il “modello Giuntoli”, insomma, è oggi sulla bocca di tutti: è stra-pubblicizzato, definito “la migliore strada possibile”. Ma gli osservatori più attenti sanno che non è sempre stato così. Per molti anni a Napoli si è raccontata la leggenda metropolitana secondo cui Giuntoli sapesse solo vendere bene, rimpolpando come un servo sciocco la saccoccia dell’odiato (sic!) presidente. E di fatto Giuntoli ha venduto bene, anche in situazioni complicate – si ripensi a Verdi, acquisto toppato ma rivenduto praticamente alla stessa cifra, o a Carlos Vinicius. La verità è che anche molti vecchi acquisti sono stati rinfacciati al direttore sportivo del Napoli: in tanti ritenevano (o ritengono) che Lozano sia stato strapagato, che quella di Manolas sia stata un’operazione sbagliata, che perfino Osimhen (così come Lobotka, come già accennato) fosse stato pagato troppo. E d'altra parte una fetta dell'opinione pubblica, anche a buona ragione probabilmente, gli ha contestato il ruolo da protagonista avuto nel far saltare la panchina di Ancelotti e nell'impedire l'approdo di Ibrahimovic.
Ovviamente, tutti commettono degli errori. Specie in una militanza lunga come quella di Giuntoli. E questo non toglie nulla alla capacità intuitiva sua e del suo staff. Su tutti, Micheli e Mantovani, osservatori del Napoli di lunga data (dal 2010 al 2015) ritornati nel 2018 con l’attuale direttore sportivo dopo aver già lavorato con Bigon. Si tratta degli scopritori di Hamsik e di Koulibaly, che oggi si candidano fortemente anche alla successione di Giuntoli stesso. Sempre se la Juve – o un altro club, forse inglese – decidesse di portare Giuntoli via da Napoli.
Attenzione, però: scegliere il modello Giuntoli implica la possibilità di compiere, e poi di dover difendere, scelte che potrebbero risultare assai impopolari: un rischio grosso specie per un grande club. Giuntoli a Napoli non ha avuto paura di rischiare. A settembre, in un clima di grossa contestazione verso la società futura Campione d’Italia, si espose con parole forti: «Il popolino può non riconoscerti delle cose, ma a noi interessa rendere il Napoli competitivo». Quasi un anno dopo, resta la storia.
Non è dato sapere se quello che sta passando come il “modello Giuntoli” possa essere riproposto pari pari da un’altra parte. Il passato del Napoli di De Laurentiis, tra l’altro, insegna che non sempre chi è diventato grande in azzurro è riuscito a ripetersi altrove. Forse andrebbe considerata la possibilità che è il Napoli, questa unica combinazione di contesto ambientale e di identità tattica, a rendere grandi. Sarebbe significativo se Giuntoli lo tenesse a mente. L’ha detto lui stesso, d’altronde: “sono otto anni che sono qua e sento sempre parlare di chi va via e di chi rimane. Nelle mani di Aurelio De Laurentiis non ci sarà mai un problema e ci sarà sempre un grande Napoli”. Chissà se ci sarà pure un grande Giuntoli.
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