Tu me diciste: «Sì» 'na sera 'e maggio
La notte dei festeggiamenti del Napoli vissuta da Largo Maradona.
«Come la spieghi una notte del genere? Come si racconta a chi non c'è quello che sta succedendo davanti ai nostri occhi? Impossibile...»
Lo dice tra sé e sé Francesco: lo guardo e penso che, in fondo, abbia ragione lui: sono passate da poco le 22:37, quando Abisso ha posto fine alla gara della Dacia Arena tra Udinese e Napoli e dato il via al delirio tra le strade di Napoli, e Largo Maradona - l'angolo nel cuore della città in cui abbiamo deciso di attendere che il destino si compisse - sta bruciando di passione più del solito, e il murale di Maradona, nume tutelare dello sport cittadino (e probabilmente non solo), è illuminato da una luce diversa. Qualcuno dice addirittura (va' a capire l'euforia cosa ti fa vedere) che il gioco di luci ed ombre, tra fuochi d'artificio, fumogeni, torce e lampioni che si mescolano selvaggi nella notte di questo 4 maggio, sembra dare all'immagine del diez un inconsueto "solco lungo il viso, come una specie di sorriso".
Quella che mi si presenta davanti agli occhi è la manifestazione di una passione infinita: un'euforia sconfinata, inafferrabile, incapace di controllarsi o di contenersi, troppo grande per il singolo Largo Maradona, ma anche per la più estesa Piazza del Plebiscito, o per lo Stadio Diego Armando Maradona, cuore pulsante del tifo che anche in questa notte, nonostante gli azzurri non siano in campo, ribolle di corpi, di canti, di passione.
Una passione che, si potrebbe dire, erutta: intorno a me è tutta un'invocazione al Vesuvio, «Vesuvio erutta / Tutta Napoli è distrutta», un coro nato per sfottere Napoli e dai partenopei invece adottato secondo una forma di appropriazione dell'insulto. Ad ogni modo, il vulcano resta l'unico, in tutta la città, a continuare a dormire placidamente, come se nulla stesse succedendo ai suoi piedi. E magari è così: cosa sarà mai un evento atteso per trentatré anni da un'entità che misura il tempo in ere geologiche?
Per noi altri, comuni mortali, trentatré anni sono un'enormità: una vita intera, forse anche di più: la maggior parte delle persone che mi circondano sono miei coetanei, che i trenta li lambiscono appena, o addirittura gli manca un po' per arrivarci. Ventenni pieni di speranze e di sogni vogliosi di urlarle al mondo con rabbia e convinzione, e perché non farlo attraverso le gesta di altri loro coetanei, baciati dalla fortuna di avere un enorme talento col pallone tra i piedi? Giovani istintivi, vogliosi di spaccare il mondo con la loro forza di volontà, che a volte diviene uno spirito distruttivo che va tenuto a bada, perché non finisca col spazzare tutto via indiscriminatamente, senza lasciare neppure un germoglio lungo il loro cammino.
Per i ragazzi in maglia azzurra il grillo parlante è stato Luciano Spalletti, vecchio saggio (il più "anziano" di tutti a laurearsi campione d'Italia) che ha saputo guidare i suoi all'obiettivo con l'intelligenza e l'umiltà dei grandi, quelli che non si arroccano nel castello della loro conoscenza del mondo maturata negli anni, ma che sanno mettere costantemente in discussione sé stessi e il loro mondo, che sanno farsi giovani e chissà, magari imparare qualcosa da loro, stupendosi della loro applicazione alla causa che supera qualunque aspettativa.
Comunque nella piazza ci sono anche tanti tifosi della "vecchia guardia": uomini coi capelli ormai ingrigiti dal tempo; i volti solcati da rughe che non parlano ma che se potessero racconterebbero di trionfi e tonfi, di batoste e successi, di discese mozzafiato e salite vertiginose; gli occhi stanchi per la tanta vita già attraversata eppure pronti, ancora una volta, a lasciarsi andare all'euforia che, ormai mi è chiaro, è il vero sentimento del mondo, la meta da raggiungere almeno una volta nella vita per non giungere sul letto di morte col rimpianto di non aver vissuto.
A Largo Maradona, ma in realtà in tutte le strade, Napoli è questo infinito, enorme e coloratissimo caleidoscopio di persone, diverse tra loro per età, obiettivi di vita, pensieri, opinioni sul mondo, modi di vivere il momento corrente, uniti dall'unica, grande passione per il calcio che li ha spinti, nonostante l'ora tarda e la giornata infrasettimanale (sì, anche a Napoli si lavora; anzi si lavora di più che altrove: dove il lavoro è poco controllato, i diritti dei lavoratori sono calpestati e questi devono mandare giù bocconi amari per guadagnarsi, in qualche modo, da vivere), ad affollare la notte, a respirare a pieni polmoni l'odore del mare e il fetore acre dei fumogeni insieme. Tutto, pur di dire "Io c'ero". Lo hanno cantato per anni dagli spalti: "Sarò con te"; e ogni promessa è debito.
La marea (e visto l'azzurro che veste ciascuno delle migliaia di persone, mai definizione fu più azzeccata) di persone proveniente da tutti gli angoli della città si sposta verso Piazza del Plebiscito, luogo simbolo di Napoli, e abbastanza grande da accogliere tutto il fiume in piena di tifosi: più che una piazza, sembra una diga, posta probabilmente non a caso a pochi passi dal mare di via Partenope dominato dal Castel dell'Ovo, sotto il quale secondo la leggenda sarebbe custodito un uovo dalla cui integrità dipenderebbe il destino della città, e chissà che al minuto 52' della gara della Dacia Arena, quando il destro di Victor Osimhen ha ribadito in porta una respinta di Silvestri, qualche crepa non abbia iniziato a formarsi per davvero sul guscio.
È qui che vite, storie, racconti, miti ed episodi che sembrano usciti dalla penna di Gabriel Garcia Marquez si mescolano in un crogiolo che restituisce un contenuto dove il reale e il verosimile sono talmente concatenati l'uno con l'altro che non sai dove finisce l'uno e inizi l'altro. Qui dove un cult come Fever Pitch di Nick Hornby ti entra definitivamente sotto la pelle, e riesci finalmente a capire che "Non è facile diventare tifosi di calcio, ci vogliono anni. Ma se ti applichi ore ed ore entri a far parte di una nuova famiglia. Solo che in questa famiglia tutti si preoccupano delle stesse persone e sperano le stesse cose".
Un ingresso in famiglia lungo come è stato quello di Lorenzo, 18 anni: «Ho iniziato a frequentare il Maradona dallo scorso anno, da allora ho visto praticamente solo vittorie: sono una specie di portafortuna», mi dice adesso, con indosso una maglia azzurra numero 9 di Denis, uno che al Napoli ci giocava quando probabilmente Lorenzo non sapeva neanche cosa fosse il gioco del calcio.
Una famiglia però affiatatissima, nonostante sia composta da perfetti sconosciuti. Persone con cui adesso, nell'atmosfera festosa che si è venuta a creare, condividere un'enorme frittata di pasta fatta in casa è la cosa più naturale del mondo – si è pur sempre fatta una certa ora e la fame inizia a sentirsi. In un clima del genere, figurarsi se qualcuno si fa problemi a cantare, ballare, abbracciare, prendere in braccio e lanciare in aria degli sconosciuti, quasi a voler toccare la luna piena che risplende su Napoli, che sembra quasi venuta anche lei a vedere perché stanotte nessuno dorme.
Una famiglia in cui ci si può ritrovare nonostante la vita, per motivi diversi, abbia deciso di separare le strade: nella notte di Largo Maradona mi viene incontro Salvatore, che mi saluta con un entusiasmo inconsueto, considerando i sette anni trascorsi dall'ultima volta che ci siamo visti. Una notte, per lui, speciale: «Sono nato il 10 febbraio, nove mesi esatti dopo quel 10 maggio 1987 del primo scudetto. Adesso che ho vissuto finalmente il terzo sulla mia pelle, posso pure morire». Nessuno è morto, ma qualcuno che, al fischio finale, si è accasciato a terra stremato l'ho visto, in un clamoroso remake di Zielinski nell'attimo subito dopo il gol di Raspadori contro la Juventus.
Una famiglia fatta di sconosciuti con cui ti ritrovi a condividere uno di quei momenti di cui ricorderai per sempre ogni dettaglio, ogni sguardo, ogni grido, ogni abbraccio, ogni smorfia. Come si fa, in questi casi, a non entrare in una comunione unica per quanto estemporanea? Questo mi ha portato da Matteo, Federico, Alessandro, Marco, Emmanuel e Luca, meno di 150 anni in sei, azzurri come tutto ciò che li circonda, le sciarpe ormai usate come bandane, gli occhi spiritati eppure brillanti di una gioia incontenibile, le voci che ormai faticano a sostenere i pensieri.
«Questo scudetto è tutto per noi, a godere più di così si muore!» è il pensiero più diffuso, c'è però anche chi non perde lo spirito goliardico e non rinuncia a omaggiare un tifoso divenuto virale sui social col suo «E per motivi tecnici, e per motivi tattici», e chi, con la rabbia dei giovani vogliosi di cambiare il mondo persino con la forza se necessario, non rinuncia a togliersi qualche sassolino dalla scarpa: «Contro tutto e tutti, contro tutte le critiche di agosto... quelli che dicevano "ma chi siamo? 'Sta squadra è da Serie B... 'sto Kvaratskhelia chi è?"»; «Finalmente torna uno scudetto al Sud, 'ste squadre di Milano e Torino c'hanno scassato 'o cazz»; chi invece guarda già al futuro: «Questo scudetto rappresenta tante cose, lo stiamo vedendo adesso che in strada c'è tutta Napoli e il suo hinterland: è il primo scudetto "vero" della nostra generazione e quella precedente, dopo quelli che ci hanno raccontato. È la nostra prima volta e speriamo la prima di tante: c'è la possibilità di aprire un ciclo, specialmente se compriamo calciatori in grado di migliorare qualche piccola lacuna di questa squadra come un esterno destro di livello».
Sono però voci che si perdono molto velocemente, per mescolarsi in quest'unico coro frenetico di canti, sventolii di bandiere, salti e balli degno di un rito di baccanti. Un rito pagano dai retrogusti quasi orgiastici nel quale io e i miei compagni di viaggio di questa notte ci tuffiamo senza esitazione, ignari di tutto ciò che ci ci sarà l'indomani. Ciro e le sue già consuete poche parole che in questa notte sono del tutto sparite, incapace di tradurre quel fiume di serotonina che gli esplodeva in corpo, Francesco che ancora si chiedeva come avrebbe raccontato tutto questo a chi non c'era. Lo guardo e penso a mio padre, ai suoi occhi appesantiti dagli anni ma che gli brillano come ad un bambino al solo raccontarmi dei suoi anni in gradinata, quando in campo c'era Maradona e gli scudetti da chimera diventavano realtà. Ci penso perché, tra pochi anni, sarà il turno proprio di Francesco col suo di figlio, ancora troppo piccolo per essere per strada con noi, per capire cosa lo circonda, per ricordare...
Questo flusso di coscienza nasce proprio da questa esigenza: quella di raccontare l'infinito. Infinito come il turbinio di emozioni e sentimenti che ci hanno travolti, sembrerà assurdo, all'improvviso, nonostante i trentatré anni di attesa, nonostante la cavalcata trionfale di questa stagione ci abbia addirittura permesso, come detto da Spalletti, di attenderlo mentre «C'ô stammo trezzianno chiano chiano». Una missione in cui ci si sono avventurati in pochissimi nella letteratura italiana, e solo geni come Giacomo Leopardi - il cui primo manoscritto della lirica in questione è conservato (casualità?) nella Biblioteca Nazionale di Napoli, sita proprio in Piazza Plebiscito, all'interno del Palazzo Reale - sono riusciti nell'impresa.
E sono giunto alla conclusione che, proprio come Leopardi è partito da un ostacolo, da "... questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude" per immaginare e descrivere l'infinito al di là di essa, forse anche noi che ci siamo stanotte dovremmo partire dagli ostacoli: dalla retrocessione in Serie B con soli 14 punti; da Saber che dopo 45 minuti buoni contro la Juventus lo immaginavamo meglio di Cafu; da quei pochi calciatori buoni a cui non potevi affezionarti perché andavano immediatamente venduti, che non c'era una lira per iscriversi al prossimo campionato; dai vari Dionigi, Rastelli, Sesa e Calderon accolti come salvatori della patria e puntualmente deludenti; dal fallimento e quindi la C1 e Gela, Acireale, Martina Franca e Chieti come avversarie; da Biancolino in finale play-off che prolunga di un anno l'inferno, dai primi passi con Lavezzi, Cavani e Hamsik con Mazzarri in panchina; dal 4-1 in Supercoppa Italiana; dal Dnipro in Europa League; dal 2018 che siamo andati a tanto così, perché 91 punti non sono bastati; dall'ammutinamento, da Napoli-Verona con Gattuso, da Empoli-Napoli 3-2 dello scorso anno.
Da chi, tutto questo, lo ha condiviso con voi: chi con voi ha coltivato questo sogno, che con Pazienza e Gargano in campo avevi vergogna a confessare; chi con voi ha diviso gli spalti del San Paolo prima e Maradona poi oppure una seduta, sempre la stessa, su un divano "che l'altra volta ha portato bene"; chi ha condiviso gioie, dolori, pianti, bestemmie, litigi con chi diceva che stavamo buttando tempo e soldi appresso a una stronzata come il pallone, chi all'apice della delusione diceva: «Basta, stavolta mi hanno rotto il cazzo, quest'anno non vedrò più nulla» ma che, dopo una settimana, vedevi l'anteprima del messaggio su whatsapp che diceva: «Domenica prossima Curva B?».
«Come la spieghi una notte del genere? Come si racconta a chi non c'è quello che sta succedendo davanti ai nostri occhi?» quindi? Non so ancora se, dopo tutto questo viaggio, sappia dare una risposta: so solo che si sono fatte le 5 del mattino, io e i miei compagni di viaggio siamo appena tornati a casa dopo una notte in cui un sogno che era persino impronunciabile si è realizzato. Una notte che abbiamo vissuto con quella vecchia canzone fissata nella mente: "Tu me diciste: «Sì!» 'na sera 'e maggio". Finalmente è successo.
Ti potrebbe interessare
Dallo stesso autore
Associati
Newsletter
Iscriviti e la riceverai ogni sabato mattina direttamente alla tua email.