Amore senza fine
Napoli in marcia da Fuorigrotta al Plebiscito la sera del 4 maggio.
Quando venni iniziata allo studio della filosofia, tenuta lontana dall’educazione scolastica durante la scuola primaria e secondaria, mi sorprese l’irruzione della geometria. Ricordo ancora la sorpresa nel ritrovare Pitagora in un posto diverso da dove l’avevo lasciato, senza calcoli ed esercizi che dovessero necessariamente avere un risultato preciso.
Quell’impressione era l’inizio di un sospetto. Dopo aver studiato i filosofi greci, non riuscivo più a guardare una retta senza pensare all’infinito, ad un segmento senza immaginare i punti che si accalcavano l’uno sull’altro come una folla di teste litiganti davanti allo sportello della posta. “Da un punto A ad un punto B”, ci avevano insegnato sui segmenti, per convenzione, per facilitare i calcoli, per arrivare da qualche parte e “trovarsi” col risultato. Ma durante gli esercizi di geometria non riuscivo a mettere da parte quel che avevo imparato in filosofia, non mi sembrava che dovesse funzionare così. Dimenticare per imparare. Svolgevo la prova come richiesto ma, nel frattempo, una voce nella mia testa piena di sospetto, pur svolgendo la prova, si ripeteva, come un mantra per autodifendersi: “Non è vero, che AB? Infiniti punti, è infinito”.
È questo il monito da tener presente leggendo l’ennesimo reportage della giornata del 4 maggio a Fuorigrotta e di quello che, secondo chi scrive, ha significato per la città di Napoli. Anche questo racconto presenterà un inizio e una fine che sono convenzioni fittizie, che non riusciranno minimamente a racchiudere tutti i momenti nel mezzo – teste davanti allo sportello della posta accalcati per avere la meglio sugli altri – i punti infiniti ed irrappresentabili che restituirebbero un’immagine fedele di quella giornata.
“Faccio succedere nu quatt’ ‘e maggio” afferma spesso Rita de Crescenzo nei suoi video. La seguitissima tiktoker napoletana, spesso salita alla ribalta delle cronache nazionali filtrata da racconti abbastanza infamanti, si riferisce all’uso partenopeo di concentrare in quella giornata gli sfratti e i traslochi per evitare disordini in città. L’attività evidentemente richiedeva un certo trambusto. Da qui la possibilità di rilanciarla come una minaccia. E questo 4 maggio si è presentato, direbbe Eduardo, “Come comanda Iddio”.
L’aria era carica di un’elettricità esasperata. Non era più quella di prima mano della domenica precedente, pronta ad avvolgere lo scontro con la Salernitana e a trascinare come inebetiti tutti i tifosi del Napoli verso le rispettive postazioni per seguirla. Chi, emigrante, sugli aerei, sui treni, sulle auto, per ritornare a casa-quella vera. Chi a caricarsi di altra energia intorno al Diego Armando Maradona. I più fortunati, dentro. Tutti insieme, dopo la partita, in pellegrinaggio di ritorno verso il Centro Storico o casa. Cortei spontanei, cori, supporto vivo mai estinti. L’amarezza del pareggio durata pochissimo, l’esaltazione solo destinata ad aumentare.
Giovedì quell’elettricità era usata, ma non dismessa. Era rimasta come un incantesimo a tenere per il colletto della camicia lo spettro emotivo di ogni tifoso, rendendolo incapace di portare a termine qualsiasi esercizio richiedente razionalità.
Camminare per strada mercoledì mattina, il giorno della partita Lazio-Sassuolo che avrebbe potuto rendere il Napoli campione, significava assistere alla seduta di un parlamento anarchico in cui ognuno declamava la propria arringa centrandola sulla sua specificissima posizione. Un esempio (anche qui, tenere presente la premessa. Piccoli, personali, davanti allo sportello della posta, punti che dicono poco e niente dell’interezza di un segmento): “Secondo me, noi questa partita della Lazio non dobbiamo proprio guardarla. Siamo il Napoli, pensiamo a noi, non sono fatti nostri”, ho sentito dire da un rivenditore di cartine ad almeno cinque persone in punti diversi del centro storico. Sembrava voler convincere tutta la città.
Niente, non deve esserci riuscito, perché alla sera eravamo tutti col fiato sospeso davanti al televisore. I ragazzi di Sarri, lo sappiamo, erano in piena forma e i napoletani, come hanno scritto sul gruppo Facebook “Piazza del Plebiscito” – distinti in Chi In Pigiama/Chi Col Giubbotto – sono andati a dormire senza che l’incantesimo svanisse. “Se avessimo vinto ieri notte, avrei dovuto portare mio figlio in giro a festeggiare. Ero stanchissimo. Appena l’arbitro ha fischiato tre volte, ho chiuso gli occhi e sono crollato”, ha raccontato il salumiere a mia madre.
E, zoomando sugli occhi di questo lavoratore che si riaprono, due di infiniti, sull’aspettativa del figlio che si riaccende sicura, confidando in un padre che, pur stanchissimo, la notte prima lo avrebbe comunque accompagnato per strada, una di infinite, ricominciamo da giovedì.
Chi scrive non ha idea di come gli altri abbiano portato avanti la propria giornata, perché rimasta a letto incapace ad elaborare emozioni/azioni, a causa di uno stress accumulatosi nelle gambe divenute pesanti come pezzi di piombo, pronte a reinterpretare il loro mestiere di arti solo allo scoccare dell’orario giusto per recarsi allo stadio.
Alle 18:00 il Maradona era già pronto di nuovo alla festa. Tra i tanti cori avvolti dal fumo dei fumogeni e moltiplicati dall’elettricità di cui prima, uno, in un suo tratto specifico, esaltava tutti in maniera particolare. Recitava: “Il mio sogno esaudirò” e poi “Vesuvio, erutta/ Tutta Napoli è distrutta/ Vesuvio, erutta/ Tutta Napoli è distrutta”, un verso vocalico meraviglioso e appartenente, pronunciato guardandosi tutti negli occhi, come complici di una grande cospirazione. Quella di chi si riappropria della subalternità di uno sfottò, di chi capovolge il senso dell’irrisione con la sapienza dell’irrazionalità. Collettiva.
Cantando, una fotografia, come strappata ad un sogno lontano e premonitore, mi riappare. Qualche mese fa, passavo per Piazza Carità. Una frazione di via Toledo che sembra ancora vera, infatti discontinua. Nonostante il Burger King, bar che espongono babà nei bicchieri su tutti i lati, il chiosco per le informazioni ai turisti che sfida e schiaccia l’edicola di fronte, ci sono circa 50 mt quadrati di piazza Carità che, percorsi, non sembrano in vendita, né vendibili. Ci giocano a calcetto bambini vestiti poveramente, c’è quasi sempre sporco e l’ombra della città rimossa dal suo centro si proietta sulle sensazioni di chi li attraversa.
Lì, una mattina prestissimo, un bambino vestito di grigio, nero di occhi e di capelli, non altoatesino per carnagione, giocava da solo. Lanciava la palla in aria, la stoppava di petto, la palleggiava sulla coscia aggiustandosela e la calciava forte davanti a sé. Non c’era l’assist di Kvara, ma quello stesso movimento lo avremmo visto compiere poco dopo da Victor Osimhen durante il magnifico goal contro la Roma. Affannato, compagno di gioco e pubblico di se stesso, il ragazzino, muovendosi, scandiva così: “Ve-suvio erutta/ *respiro* /Tutta Na- /*respiro*/ poli è distrutta, Ve- /*respiro*/ -suvio erutta”. Il sussurro cadenzato di un bambino, giovedì, è diventato un canto di guerra senza età, di festa, di rito e di liberazione collettiva, intonato a pieni polmoni da migliaia di persone.
La partita in sé, proiettata sui maxi-schermo a bordocampo, era solo un altro punto in questo infinito non rappresentabile, come ci hanno spiegato da bambini quando dovevamo disegnare le rette che “non hanno un inizio né una fine”. Ed un punto, effettivamente, dovevamo trarre da quello scontro non privo di sofferenze.
La cornice spettacolare, scritta e diretta da Paolo Sorrentino, era piena d’assurdo. Uno stadio stracolmo, cori urlati a pieni polmoni, sbandierate continue, fumo, emozione alle stelle, per guardarci tutti insieme la televisione. È mai successo così uno scudetto? No.
I calciatori non c’erano, eppure nei momenti più difficili della partita partivano i cori per risollevarli. Se Kim si lanciava in avanti, la Curva A era tutta un compatto “Kim, Kim, Kim, Kim, Kim”. Il destinatario apparentemente assente, l’automatismo di rivolgergli canti fortissimi che attraversino lo spazio, il timore misto alla speranza della gioia suprema, Decibel Bellini che sembra mediare con l’istanza lontana: non era streaming, non era televisione, era una messa.
La grazia da sofferenza per l’attesa deflagra al goal di Osimhen ed esplode lo stadio e si diffonde il senso: siamo tutti qui per guardarci emozionare, per essere partecipi della gioia di decine di migliaia di persone tutte insieme. Chi ci è seduto accanto e non conosciamo e piange e ci stringe le mani è il vero motivo per cui siamo qui.
Quando la partita finisce e il Terzo Scudetto non è più un sogno, ma patrimonio di felicità vissuta di ogni napoletano, lo stadio canta e sembra non voler smettere mai. All’esterno, il rito continua.
All’uscita della Curva A, si prepara quel che non si può definire diversamente da “fucarazzo”, una sorta di falò che si prepara, ad esempio, per Sant’Antonio, fatto di fumogeni rossi. Pian piano intorno a questo di dispongono decine di persone che invocano: “Diego, Diego, Diego…”. Sulla folla, passa, fulmineo, un carro che porta in trionfo Maradona su un trono trainato da un asino con le ali e accompagnato dal cartonato di Victor Osimhen. È un momento rapidissimo. Non ero sicura neanche di averlo visto, finché altre persone non me ne hanno confermato il passaggio.
L’omaggio a chi non c’è più continua. Era già successo in passato, con lo striscione affisso al cimitero dopo lo scudetto del 1987: “E che ve site perso!”. È il contenuto dell’invito diramato dalla curva B la settimana scorsa, quando si chiedeva ai tifosi di portare due bandiere: una per sé, una a nome di qualcuno morto senza vederlo, questo traguardo.
Napoli continua a rivendicare il suo varco aperto verso la dimensione di chi è stato sottratto all’apparenza del presente e della carne. Il portale per eccellenza di questo rapporto, il Cimitero delle Fontanelle nel Rione Sanità, era fino a pochi anni fa aperto al pubblico gratuitamente, fruibile e collocabile nella quotidianità della cittadinanza. Adesso sembra destinato alla privatizzazione e al lucro a fini turistici. Un posto pieno di ossa, di teschi estratti dalle fosse comuni, accumulatisi nei secoli, che i napoletani adottavano, chiedendo loro favori e, in cambio, pregando per le loro anime. Chi ha ben salde Le Mani sulla Città potrà togliere Napoli dal suo Centro, brandizzarla e continuare a venderne il racconto parodistico, umiliandola quotidianamente. Non riuscirà a rimuovere però quello che accade quando migliaia di napoletani vivono una gioia collettiva e simultanea e scatenano la propria essenza liberatrice. Pericolosa solo quando raccontata dall’esterno, da chi quelle Mani è abituato a baciarle ed omaggiarle quotidianamente.
Nulla di rivendibile è per esempio, secondo me, la decorazione più bella vista in tutti questi mesi: la gigantografia di un compagno di scuola di mio padre morto di recente. È sulla fiancata di un palazzo del mio paese, Villaricca, dimensioni da murale di Maradona. “Questo scudetto è anche tuo. Sei sempre con noi”, recita la scritta posta sotto il viso di questo sconosciuto.
Oltre il Fucarazzo, parte la processione verso il Plebiscito. Ogni dieci metri cantiamo “Vesuvio erutta”, chiediamo di distruggerci tutto, tutti insieme. All’apice. La strada percorsa per arrivarci è inutilmente lunga. Inutile come il calcio nelle palle all’avversario durante la tranquillissima partita con l’Empoli di Mário Rui. Magnifica per questo. La strada più lunga, la più larga, quella che passa vicino al mare su cui si affaccia, quella notte, una puttanissima luna piena che sovverte i sentimenti e vanifica la destinazione. Che si fa, una volta arrivati al Plebiscito? Che si fa, una volta vinto? Camminiamo, camminiamo di più, anche trentatré anni.
Per un momento, ho sognato che il Napoli questo scudetto non lo vincesse mai. Capite il senso di festeggiare per due mesi qualcosa che non succede? Paralizzare una città, renderne improduttivi gli abitanti (per davvero, non come su “Libero”), scrivere ad ogni partita nuove regole del traffico e della circolazione dei trasporti con la postilla “Se il Napoli vince”. Lasciare la mia amica commessa a domandarsi gli orari di lavoro del giorno seguente, dal momento che, in caso di vittoria, il suo collega potrebbe essere troppo impegnato a festeggiare fino all’alba e lei si renderebbe disponibile a sostituirlo al turno, perché gli vuole bene. Così, per due mesi. Uno strappo al senso, l’irruzione dell’inutile, una marcia senza fine suonata da un pifferaio magico, probabilmente argentino, e che nessuno vuole smettere di ballare.
Poi è successo, sono arrivata a Piazza del Plebiscito. E addosso, a partire da quel momento e per tutto il giorno seguente, ho vissuto una sorta di crollo emotivo per la fine di quella gioia.
Venerdì sera ho passeggiato per via Toledo. Prima di arrivare al mare, attraversando il flusso senza fine di turisti, ho lanciato uno sguardo su piazza Carità. Il bambino non c’era, ma ce n’erano tanti. E ho capito il senso di un amore senza Fine. Non solo privo della finalizzazione che si raggiunge centrando un obiettivo. Ma anche fatto di puntini sospensivi prima e dopo, come quando da piccoli disegnavamo le rette. E, in mezzo, infiniti, infiniti punti che si accalcano uno sull’altro, anche in questo mio segmento che ho provato a raccontare, che sono i ricordi, le emozioni, i punti di vista di tutti quelli che c’erano. Non solo a Napoli, ma ovunque sia un napoletano.
E ho pensato che è proprio vero che non può funzionare così. Non si può mettere da parte quel che si è imparato e fare finta che non esista. Separare la geometria dalla filosofia. Guardare un segmento e scordarsi dei punti infiniti. Pensare che milioni di napoletani in tutto il mondo abbiano partecipato alla lezione del 4 maggio 2023 – quando hanno fatto esperienza della gioia pura, della marcia collettiva, dell’unico senso di stare insieme a guardarsi essere felici – e che la dimentichino. Al di là della retorica su un riscatto sociale che non deriverà certo dal successo sportivo, voglio pensare che ne avranno memoria, che sentiranno di avere in comune questo infinito capitale sociale: quella notte, questi mesi, questo anno. E che si trattino un poco meglio fra loro anche per questo. Che, anche per questo, pretendano più momenti così, più gioia, sempre di più. Tutto.
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