Logo sportellate
I tifosi del Napoli festeggiano fuori dallo Stadio Maradona.
, 5 Maggio 2023

Ricomincio da tre


Racconto del primo scudetto vinto dal Napoli dopo 33 anni.

«Questo Scudetto non è mio, è di tutti»
- Giovanni Di Lorenzo, 4 maggio 2023

A Napoli il calcio è sempre una questione esistenziale, che tesse un intreccio irrisolvibile tra la vita e la morte. Nel 1987, dopo la vittoria del primo Scudetto, i tifosi del Napoli esposero uno striscione sulle mura del cimitero. Recitava: "E che vi siete persi". I vivi che pensano ai morti, quindi, che banchettano in loro onore come se il calcio potesse trasformarsi in uno strumento di redenzione collettiva. Un momento di contemplazione meditativa. La natura della scritta è controversa, forse è sacerdotale e profana insieme; è la prova che in questa città il monoteismo esiste e la religione ufficiale è quella del cardinale Voiello in The Young Pope.

Il 25 novembre di tre anni fa, la scomparsa di Maradona ha marchiato per sempre il culto dei napoletani per il calcio. Gli ha dato una sfumatura diversa, mettendoli di nuovo di fronte alla morte, intesa come la fine di tutte le cose. Ha aperto gli occhi ai tifosi che avevano visto il Napoli vincere nei sette anni leggendari a cavallo tra gli anni '80 e '90 – periodo che una buona parte di tifoseria ancora chiama «l'età dell'oro» – rivelando loro una verità dolorosa: il tempo passa e gli idoli muoiono. È proprio nelle onde di disperazione, però, che ci si aggrappa all'amore. Da questa consapevolezza nasce uno dei motivi più sentiti in città da qualche anno: «Sarò con te / E tu non devi mollare / Abbiamo un sogno nel cuore / Napoli torna campione». Una preghiera che Luciano Spalletti ha fatto stampare sulle casacche dell'allenamento, come monito per i calciatori. «Sono venuto qui per vincere, non per prendere lo stipendio», aveva detto il tecnico in conferenza stampa qualche giorno fa.

Per festeggiare lo Scudetto, i tifosi del Napoli hanno riempito lo stadio che porta il nome dell'unico Dio riconosciuto dalla città, Diego Armando Maradona. Uno stadio che è presto diventato un'arena traballante di corpi; un teatro dell'umanità in cui tutti hanno riversato il proprio stato d'animo anche se lo spettacolo, in effetti, non c'era. I corpi erano ammassati in una fusione felice – di una felicità disperata e folle – nonostante in campo non c'erano calciatori veri. I gol e le azioni di Udinese-Napoli erano proiettati da schermi piccoli e lontani, in cui a malapena si poteva distinguere il pallone. Se i tifosi hanno scelto di stare vicini, di ricomporsi in un abbraccio stretto attorno alla squadra, non è stato per ammirare il calcio che il Napoli ha elargito durante tutto il campionato. Per la prima volta in 33 anni, si sono riuniti per sé stessi, per celebrare il loro amore e sentirsi vivi l'uno accanto all'altro, parte di una collettività. Il Maradona come un Carnevale infinito, altare di una città imbandita a festa come mai nella sua storia. La partita come evento sportivo è finita al gol scippato da Osimhen nel cuore dell'area, dopodiché i tifosi del Napoli hanno guardato solo i minuti scorrere. Il tempo che li separava dalla festa, una festa che, a dire il vero, andava avanti già da settimane; una festa interminabile, che ha svuotato il calcio di qualsiasi cenno di spettacolarità. Dopo il gol di Osimhen a nessuno importava più dei dribbling metafisici di Kvaratskhelia, dell'intelligenza di Di Lorenzo e Anguissa, della calma zen di Lobotka. Il triplice fischio di Abisso non ha semplicemente decretato il Napoli campione d'Italia. Ha liberato il sentimento di milioni di persone, ricordato loro il senso profondamente emozionale che hanno certi eventi della vita.

Per una notte, tutto sembrava essere nel posto giusto.

In una famosa intervista a Gianni Minà nello speciale di Blitz sul primo Scudetto del Napoli, Massimo Troisi finge di accogliere con stupore la notizia della vittoria. «Questo è l'anno buono, Gianni, je veco 'a squadra affiatata, è forte chist'anno» esordisce Troisi. Poi, quando Minà gli fa notare che il Napoli ha già vinto il campionato, e che l'intervista si sta svolgendo una settimana dopo, Troisi risponde con ironia e sagacia insieme: «È passata 'na settimana, e tu mo' vieni?». È un monologo stilisticamente semplice, niente di elaborato, che intrattiene i calciatori del Napoli presenti in studio insieme alle mogli, ma anche i tifosi a casa davanti all tv. Eppure contiene in sé un messaggio che rovescia il modo di vivere la napoletanità: nella sua sottile potenza comunicativa, Troisi riflette la scaramanzia dei napoletani per la vittoria, per la felicità, per l'estasi. «Ma è vero, Gianni?» ripete continuamente Troisi, capace di tradurre a schermo la difficoltà dei napoletani di accettare una realtà finalmente vincente. «Me piacesse stà dinto 'a cosa, sapè chello che ha dett' Maradona alla squadra».

È il quadro di una scaramanzia futile: una città che non abbandona i suoi costumi nemmeno di fronte all'evidenza. Quest'anno le cose sono andate in modo diverso: i festeggiamenti sono iniziati già a febbraio perché il Napoli ha distrutto il campionato, restituendo un senso di bellezza e supremazia che in Italia non siamo abituati a vedere da vicino. La vera novità, però, è che stavolta i successi del Napoli sembrano espressione dei successi di Napoli. Un club qualificato da 14 anni consecutivi alle competizioni europee, e che negli ultimi 10 anni ha vinto tutti i trofei nazionali, è espressione di una città che sta vivendo un profondo fermento culturale. A Napoli sono gli anni di Kvaratskhelia e Osimhen, di Higuain e Insigne, ma soprattutto dell'innovazione nei costumi portata da Liberato, dei murales di Jorit, dalle rime di Geolier.

È surreale che uno Scudetto dalla carica amorosa così eccezionale sia arrivato nemmeno un anno dopo una contestazione estiva altrettanto disperata. Dopo l'ennesima estate in cui si è parlato del Napoli per le cessioni illustri – Insigne, Koulibaly, Fabian Ruiz, Mertens, Ospina – e per lo sciopero continuo delle curve allo stadio. Uno stillicidio emotivo inarrestabile, culminato nella sconfitta di Empoli del 24 aprile 2022. Un altro campionato perso, altre incertezze legate al futuro dei giocatori migliori. Quanto costa essere tifosi del Napoli? Crogiolarsi nell'illusione che tutto stia per cambiare e poi ripartire con la frustrazione di sempre.

Eppure qualcosa sembrava essere cambiato già nella prima partita casalinga dal Napoli. Era la seconda giornata di campionato, e già intorno ai tocchi di Kvaratskhelia c'era il silenzio riservato ai giocatori più grandi. Come se l'attesa per una sterzata o un tunnel contenessero già una parte del godimento per quello spettacolo. A 21 anni avevamo già indicato Kvaratskhelia come il normale prosecutore del deismo di Maradona, e lui ha ricompensato i napoletani elevandosi oltre ogni limite. Ci ricorderemo dei gol all'Atalanta e al Sassuolo come ci ricordiamo un'opera d'arte che ci ha turbato, un fugace contatto con il sublime che solo la violenza del talento del georgiano poteva risvegliare nei napoletani.

Poi il Napoli ha iniziato a vincere le partite una dopo l'altra, con la facilità con cui scrolliamo tra un Tik Tok e l'altro. Che fosse Serie A o Champions League non aveva alcuna importanza. I tifosi del Napoli hanno iniziato a riunirsi allo stadio per entusiasmarsi, per dare ogni volta un pezzetto di sé alla squadra, o banalmente per cantare: «Sarò con te / E tu non devi mollare / Abbiamo un sogno nel cuore / Napoli torna campione». A settembre sono arrivati gli scalpi di Liverpool, Lazio, Milan e Ajax; a ottobre quelli di Roma e Atalanta. La pausa invernale per i Mondiali in Qatar si temeva potesse riaprire un campionato che non era mai stato in discussione, e in effetti la sconfitta contro l'Inter del 4 gennaio aveva tutti i requisiti per compromettere i sogni di una squadra inesperta. Ma se c'è una cosa che il Napoli di questa stagione ha dimostrato nel corso di tutte le partite è di essere diverso dal Napoli degli anni passati.

Per la prima volta il Napoli non si è bloccato sulla soglia del panico. «Non teme che questa squadra abbia un po' di ansia?» aveva chiesto un giornalista a Spalletti a gennaio, dopo Sampdoria-Napoli. «L'ansia la faremo venire a lei nelle prossime partite», aveva risposto, piccato, Spalletti, che sei giorni dopo avrebbe guidato il Napoli nella più grande vittoria della storia recente: il 5-1 casalingo contro la Juventus.

È fin troppo facile parlare delle sotto-trame che si sono chiuse in questa stagione. Il Mondiale vinto dall'Argentina come prima della stagione 1986-87, con la presenza spirituale di Maradona a guidare i dribbling di Messi; i tre gol decisivi segnati da Giovanni Simeone, gli stessi che aveva segnato, contro il Napoli, nel 2018 – quando giocava per la Fiorentina.

È stato lo Scudetto del destino, ma anche di un Napoli dominante in campo come poche volte era stato. Un Napoli che chiuderà la Serie A a novanta punti, forse di più, forse di meno, ma non ha importanza. Un Napoli che vincerà il campionato avendo tenuto la maggiore percentuale di possesso palla, avendo segnato più gol di tutti, calciato più volte in porta, subito meno tiri pericolosi. La stagione del Napoli proseguirà in un lungo concerto di corpi ammassati e di voci rotte dalla disperazione.

Quanti sono trentatré anni? Pochi? Tanti? Credo di non sbagliare se dico che per la vita di un tifoso di una squadra di calcio sono un numero cospicuo. E se in questi trentatré anni l'oggetto dell'amore, la squadra di calcio appunto, affronta due retrocessioni in Serie B che fanno da preludio a un fallimento? Quegli anni restano una parentesi ordinaria nella storia di un club, oppure la loro percezione risulta amplificata dal carico di agonia che hanno portato?

Ogni tifoso ha sognato il terzo Scudetto a modo suo. In pochi però avrebbero scelto una partita migliore di Juventus-Napoli per festeggiare.

Al 92' il Napoli è ancora in attacco. Gli basterebbe un pareggio per allungare sulla Lazio seconda in classifica e avvicinare il sogno del terzo Scudetto. È da tutta la stagione, però, che il Napoli punta al dominio delle partite, degli avversari, del pallone. La palla arriva a Di Lorenzo qualche metro oltre la riga del centrocampo, nella posizione ormai riconosciuta di mezzala aggiunta, e quello verticalizza per Zielinski. Pochi secondi prima c'era stata un'altra ripartenza micidiale, in cui Osimhen si era trovato a pochi passi dalla porta di Szczesny, che in uscita aveva chiuso lo specchio. Come se pattinasse su una lastra invisibile, Piotr Zielinski aggancia il pallone e si gira verso la porta. Si ferma accarezzando il pallone con i soliti tocchi sensuali. Nel momento in cui Locatelli cerca il contrasto, Zielinski sterza sul posto e decide di allargare su Elmas, libero di crossare.

Da qualche minuto sull'Allianz Stadium si sta abbattendo un diluvio biblico. La pioggia ha esasperato il colore del prato, sempre più vivido, e l'ambiente in cui si muovono i calciatori ha qualcosa di bucolico. Per i napoletani a un certo punto la partita si è trasformata in un film di David Lynch, dove reale e onirico sono entità inestricabili. Cinque anni e un giorno prima, il Napoli aveva vinto a Torino contro la Juventus all'ultimo minuto e quella notte i tifosi avevano accolto la squadra all'aeroporto di Capodichino con striscioni e bandiere. Non potevano ancora sapere che sette giorni dopo, a Firenze, un Napoli svuotato avrebbe vissuto uno dei drammi più violenti della propria storia. È strano riguardare i festeggiamenti di quel 22 aprile 2018, la timidezza con cui Hamsik e Insigne provano a intrattenere la folla sembra già contenere un seme di quell'aria funerea che avrebbe accompagnato il Napoli negli anni successivi.

Tutto il campionato del Napoli è stato una lunga marcia trionfale. Il lampo e l'epicità del gol al volo di Raspadori hanno solo accelerato l'avvicinarsi di un traguardo che la città ha degustato lentamente, per tutto l'anno. Era più o meno l'80esimo quando il Napoli manovrava sulla trequarti della Juve e nei microfoni di DAZN ha cominciato a stagliarsi un coro assordante. «Sarò con te / E tu non devi mollare / Abbiamo un sogno nel cuore / Napoli torna campione». Tutte le partite del Napoli hanno risuonato di quest'eco sotterranea, ripetuta come un mantra in casa e in trasferta. A Torino o a Reggio Emilia, a Milano o ad Amsterdam, i tifosi del Napoli si sono allungati in un abbraccio sconfinato intorno alla squadra. Si sono ammassati negli stadi per trasmettere il loro amore per una squadra sfavorita, mutilata dei suoi giocatori migliori, e col tempo diventata "indelebile" – come il Napoli stesso ha scritto su Twitter.

Poi c'è il gesto più iconico. Appena il pallone calciato da Raspadori si incunea tra le gambe di Szczesny, vediamo il peso dell'anima di Zielinski evadere dalla propria carne, dalla materia, dal mondo. È entrato da venti minuti scarsi, eppure sente disperatamente il bisogno di accasciarsi, stremato, sul campo dell'Allianz. Nessuno avrebbe immaginato un destino simile, tantomeno l'unico reduce – insieme a Mario Rui infortunato – del trauma vissuto nel 2018. Quell'evento che aveva cronicizzato la paura nel DNA del Napoli, rafforzato la voce interiore che suggeriva che non ce l'avremmo mai fatta. In questo senso l'esultanza di Zielinski è una performance artistica a sé che racconta bene il peso storico della vittoria del Napoli: la disperazione con cui accoglie il gol di Raspadori è un gesto che suggerisce liberazione, ma anche riscatto.

E in effetti è andata così. Il Napoli 2022/23 ha appagato in una certa forma il desiderio latente che ogni tifoso ha tenuto sotto il cuscino: la voglia di dominare sugli avversari, sentendosi finalmente superiori nel paragone con le grandi squadre del Nord – nel gioco in campo, nella forza mentale, nell'organizzazione societaria. Quest'anno il Napoli ci è riuscito per la prima volta nella sua storia senza l'influsso magico di Diego Maradona, senza la sua caparbietà nel caricare il calcio di significati sociali e politici. Il Napoli ha giocato a calcio benissimo, meglio di chiunque in Italia, e ha vinto innanzitutto per questo. È una sensazione nuova per i tifosi del Napoli, abituati sinora a vedere nel calcio un riscatto sociale. L'unica arma per rivelare se stessi al mondo esterno.

C'è un video del momento del gol di Raspadori in cui, al Palapartenope, il pubblico trattiene il fiato. Era lì per vivere da vicino l'artista più dirompente del 2023, il primo napoletano ad arrivare al primo posto della classifica mondiale di Spotify. Geolier rientra sul palco e non crede a se stesso: «Ha segnato il Napoli!». Poche settimane prima, Geolier stesso aveva parlato di Napoli, cavalcando il topos della vittoria della squadra come metafora della vittoria della città, ma facendolo in un modo diverso rispetto alla narrazione media (pigra) della napoletanità. Geolier aveva parlato nell'unica lingua che conosce, il napoletano, ma si era fatto capire facilmente: «Sembra che andiamo bene solo se siamo una storia già scritta, nel bene e nel male». In questo senso è emblematico come il Napoli abbia vinto contro gli stereotipi, issandosi nell'alta classifica attraverso la sagacia di Spalletti e le idee gestionali del club. Il Napoli ha vinto come siamo abituati a vedere vincere i top club, e proprio nell'anno in cui aveva deciso di rinnovare una rosa eccezionale e bolsa allo stesso tempo.

Il primo e l'ultimo ricordo che ho di mio padre hanno a che fare con il calcio.

No, non è vero. Il primo e l'ultimo ricordo che ho di mio padre hanno a che fare con il Napoli.

Con il silenzio devoto che accompagnava le partite vinte e quelle perse. I momenti in cui rimuginavo sui racconti di lui, che aveva visto Maradona e i due Scudetti, e poi pensavo a me che ero nato in un'epoca sfortunata. In cui il Napoli giocava bene e non vinceva. Tifo per una squadra che non ha quasi mai vinto niente, e forse è anche questa la natura del calcio. Tifare non tanto per vincere, ma per amare qualcuno o qualcosa. Per riuscire a dirsi ti voglio bene, per sentirsi connessi a uno sconosciuto di cui non si conosce neanche il nome. Tifo per una squadra che non vince mai, e forse oggi mi rendo conto di amarla soprattutto per questo. Per poter dire di aver vissuto un momento preciso.

Da qualche mese nelle timeline dei tifosi del Napoli circola un video straziante. Un vecchio tifoso del Napoli, che ha vissuto i due Scudetti, chiama in diretta a Kiss Kiss Napoli, una delle tante emittenti che soffocano il proprio palinsesto quotidiano discutendo dei risultati del Napoli. Dice di chiamarsi Cesare, le sue prime parole sono: «Io muoio per il Napoli». Racconta dei ripetuti infarti che ha avuto e a cui è sopravvissuto, quando a un certo punto la sua voce si rompe. Siamo a novembre, il Napoli è già primo a sette punti sul Milan campione in carica. «Io non me ne posso andare senza vedere un altro Scudetto» dice Cesare e in quel momento ogni napoletano riesce a dare a quella voce un volto, degli occhi, un altro nome. I tifosi del Napoli riconoscono in lui un familiare o un amico, una di quelle persone che esiste in funzione della sua squadra di calcio. A Napoli ognuno conosce almeno una persona come Cesare.

«Per chi ci ha sempre creduto, per chi aveva smesso di crederci» ha scritto il Napoli in un tweet dopo la partita di Torino contro la Juventus. Ora che possiamo dire di averci creduto tutti – la realtà è spesso più banale delle nostre sovrastrutture, e forse molti che oggi si emozionano per il Napoli avevano smesso di farlo anche solo sei mesi fa – sappiamo che l'emotività che proiettiamo sulle partite di calcio non ha eguali. «È il momento di perdersi dentro l'amore per il Napoli» aveva detto Spalletti qualche settimana fa. Per raccontare il significato emotivo di questa vittoria, io preferirei usare le parole che ho sentito gridare a un ragazzo seduto nella fila dietro la mia appena dopo il fischio finale, nello spettacolo infernale del Maradona: «Mo' simm' liberi».

La vittoria del Napoli in fondo sta tutta qui. Nel tramando orale che le persone faranno di questi giorni di festeggiamenti, nelle leggende che alimenteranno la narrazione futura di Kim Min-jae o di Osimhen. L'estasi per il terzo Scudetto, per un Napoli finalmente campione, si nutre del bisogno fisico ed esistenziale che i tifosi hanno di sentirsi vivi in questo momento, tutti insieme. Per ricordare chi c'era, per abbracciare chi c'è, per raccontare a chi ci sarà il fascino inquietante di questa volta. Di questa prima volta, cioè, in cui il Napoli è tornato campione.

Ogni volta che sento la telefonata di Cesare penso a mio padre.


  • Nato a Giugliano (NA) nel 2000. Appassionato di film, di tennis e delle cose più disparate. Scrive di calcio perché crede nella santità di Diego Maradona. Nel tempo libero studia per diventare ingegnere.

Ti potrebbe interessare

Roma-Juventus femminile: il film della gara

Gaga Slonina, la pazienza sarà premiata

Khvicha Kvaratskhelia, un fulmine a ciel sereno

Inter: Frattesì o Fratteno?

Dallo stesso autore

Khvicha Kvaratskhelia, un fulmine a ciel sereno

Carlos Alcaraz, una specie di Prometeo

Dani Olmo agente del caos

Lettera d'amore a Fabián Ruiz

Turchia-Georgia: gioia, difetti e spettacolo

Two Barella is megl che one

La lezione che ci ha dato Gian Piero Gasperini

Attenti a Saelemaekers

Le squadre di calcio hanno un DNA?

Toni Kroos, lo stratega

Newsletter

pencilcrossmenu