Vlahovic dopo un gol sbagliato
, 4 Maggio 2023
8 minuti

Cosa è successo a Dusan Vlahovic?


Il serbo sembra prigioniero della Juventus.

Quando Dusan Vlahovic è diventato un giocatore della Juventus era il capocannoniere della Serie A: aveva segnato 20 gol nella prima metà di stagione con la Fiorentina; 33 nell'anno solare 2021; 47 da quando Cesare Prandelli, subentrato a novembre 2020, lo aveva messo al centro dell'attacco gigliato. Il serbo, nemmeno ventunenne, già aveva fatto vedere più di qualcosa di interessante – i gol contro Napoli e Inter, per esempio – ma non era ancora sbocciato. Era ancora un diamante grezzo, ancora privo di continuità, i cui colpi erano qualcosa che rimaneva isolato. Esattamente la sua condizione attuale.

Sulla bilancia dell'anno e mezzo di Vlahovic alla Juventus ci sono, da un lato, i 70 milioni spesi dal club per acquistarlo e, dall'altro, il modesto numero di gol segnati – 21 in quasi 60 partite. A lasciare esterrefatti, tuttavia, non sono i pochi gol quanto la parabola evolutiva – o, meglio, involutiva – che ha tracciato sia sul piano tecnico che su quello caratteriale. Parabola che, negli ultimi tre anni di carriera, disegna un perfetto arco, la cui pietra di volta è proprio quel trasferimento a gennaio, punto più alto prima di una discesa che, senza un cambio di variabili, sembra irreversibile.

L'impressione è che Vlahovic, dopo aver avviato un percorso di crescita che pareva inarrestabile, si sia fermato e per poi tornare indietro, a quel livello dov'era prima di Prandelli ma con tre anni di più. Peggio ancora, sembra quasi che il serbo a Torino abbia perso tempo prezioso in un momento focale della sua crescita come calciatore. E forse se ne è reso conto anche lui. E, sempre forse, questo tempo teme di non poterlo più recuperare.

Un giocatore umorale, forse troppo

Vlahovic a inizio aprile ha chiuso il suo account Instagram. Non è la prima volta che lo fa. Si tolse dalla platea social già nel settembre 2020, quando finì nel bersaglio del tifo viola dopo il suo disastroso ingresso in Inter-Fiorentina 4-3, con un gol divorato e un duello aereo perso (contro D'Ambrosio) che valse i tre punti in rimonta per i nerazzurri. Ma al di là delle gogne social – e del delicato capitolo sulla salute mentale degli sportivi – tutto fa trasparire un profondo stato di inquietudine del serbo, a partire dalla sua gestualità in campo.

Scriveva Alfonso Fasano su Rivista Undici, all'indomani di Milan-Juventus 2-0 dello scorso ottobre: "...guarda la palla rimbalzare via, si ferma e inizia a camminare lentamente, senza reagire; appare sconsolato, è in campo da meno di un minuto ma già sembra certo che vivrà la sua intera partita in questo modo, e allora che senso ha scattare, combattere o contrastare? Meglio aspettare il prossimo pallone da lavorare senza sbattersi troppo."

In questo episodio di mimica del corpo, uno dei tanti di questa stagione, emerge il progressivo disagio di Vlahovic. È un'immagine che stride tremendamente con quella del suo ultimo anno e mezzo a Firenze: quella di un giocatore dai ritmi ossessivi, dalla carica agonistica prepotente. Un giocatore elettrico. Senza essere un provocatore, era un giocatore sempre nel vivo della partita, che non concedeva un minuto di riposo ai suoi marcatori. Il ritmo gara di Vlahovic era diventato qualcosa tale da permettergli di determinare l'inerzia di una partita. Vlahovic era elettrico ma ora la sua alta tensione sembra svanita, certamente con la complicità dei problemi di pubalgia che lo hanno afflitto per buona parte della stagione.

La variabile principale sembra essere quella della centralità nella squadra, tanto tattica quanto emotiva. Tanto con Prandelli quanto con Italiano, il focus comune era quello affidare al serbo le chiavi della fase realizzativa e di renderlo il più possibile partecipe al gioco. Per il resto, si parla di due squadre totalmente diverse, ma quel dettaglio era forse l'unico trait d'union tra l'ex CT della Nazionale e il mister di Karlsruhe. Con un rapporto do ut des tra il centravanti e il suo allenatore, che è sempre stato del tipo: "Tu fai questo e io ti metterò sempre in condizione di segnare". E Vlahovic segnava sempre, sfruttando a pieno l'enorme arsenale a sua disposizione in termini di finalizzazione. Un circolo virtuoso, alimentato a fuoco vivo dalle idee di Italiano, ma spezzato dal trasferimento alla Juventus.

Nella sua newsletter, Davide Gualano ha analizzato come sono cambiati i tocchi di palla di Vlahovic nell'ultimo anno e mezzo, per zona di campo e per quantità. Gualano ha ricontestualizzato la narrazione sull'abbassamento del raggio di azione del serbo, notando come sia una tendenza iniziata più questa stagione che a partire dal suo arrivo alla Juve. Anzi, nei primi sei mesi in bianconero aveva ridotto i tocchi nelle zone più arretrate del campo, mantenendo tuttavia stabile la sua partecipazione a ridosso dell'area. Un aspetto da comparare con altri dati, come le occasioni da gol prodotte dalla Juve: con Vlahovic i bianconeri avevano aumentato il proprio tasso di conversione, ma non c'era una significativa varianza degli xG. Insomma Dusan fungeva da finalizzatore, compensando i limiti di Morata e Kean in termini di gol, in una squadra che creava relativamente poco.

Il vero punto di discrimine tra il Vlahovic di Firenze e quello di Torino è il numero complessivo di palloni toccati, un dato crollato drasticamente. La sua partecipazione al gioco si è fatta sempre più minimale, e sempre più spesso – come confermano i dati su questa stagione – si riduce a una ricezione spalle alla porta sulla zona del centrosinistra, vicina alla linea di centrocampo. Proprio dove, intuitivamente, c'è una soluzione sicura di scarico con il piede sinistro verso Kostic. Vlahovic, alla ricerca di un qualsiasi pallone, oramai si è rifugiato in una zona dove non può far vedere il suo talento, che rimane ampiamente inutilizzato.

L'incompatibilità con Allegri

Che Massimiliano Allegri non sia l'allenatore ideale per esaltare i centravanti è una semplificazione, ma ha un fondo di verità. Verità legata all'idea di calcio che il tecnico cerca di praticare, in particolare dal suo ritorno alla Juventus. Il concetto di minimizzare i rischi in fase difensiva e di affidarsi completamente alle qualità tecniche dei singoli per trovare soluzioni in avanti sacrifica i centravanti "pesanti", spesso lasciati isolati a far la guerra lontani dall'area di rigore. Le squadre di Allegri hanno talvolta visto schierati in campo numerosi giocatori offensivi ma sempre con pesanti richieste di sacrifici in copertura e compiti di regia offensiva, talvolta con soluzioni al limite dell'improvvisazione. Nella scorsa stagione era stato Dybala a soffrire questo approccio.

Alla fine, il suo concetto cardine è che i giocatori di grande livello la soluzione la trovano da sé e l'allenatore deve più che altro star attento a garantire gli equilibri, e a ridurre il margine di aleatorietà degli episodi negativi. Per quanto Allegri nel tempo abbia radicalizzato questo approccio, arrivando perfino a sminuire l'importanza del suo ruolo – sempre in quella maniera sorniona da livornese che non sai se ci è o ci fa – il problema non è se l'approccio sia giusto o sbagliato in generale – può anche esserlo, in certe circostanze: non esistono formule magiche – ma quanto sia utile rispetto a Vlahovic. La risposta è che non è affatto utile.

Ibrahimovic al Milan e Higuain alla Juve sono stati, più di tutti, i suoi centravanti. Non solo per le loro enormi qualità, ma per la combinazione di fisicità e soprattutto visione di gioco tali da esser a loro agio anche lontani dalla porta avversaria. Giocatori che davano la possibilità alla squadra di risalire un campo lungo, e che valorizzavano le abilità di inserimento di centrocampisti pensati e costruiti più per la corsa che per il palleggio. Insomma, registi offensivi, capaci da soli di sviluppare la manovra e trovare la soluzione, nel quadro di squadre rinunciatarie rispetto alla giocata rischiosa tra le linee. Nel caso di Vlahovic, tuttavia, è facile comprendere come non sia un regista offensivo neanche potenzialmente comparabile a uno di questi due, per quanto il suo ultimo anno e mezzo a Firenze lo avesse visto crescere sugli aspetti più associativi del ruolo.

Vlahovic, oltre a non esserci portato per il tipo di attaccante che è, non era ancora diventato abbastanza autosufficiente da creare – e, soprattutto, crearsi – occasioni in situazioni di difficoltà. L'isolamento offensivo, la riduzione dei palloni toccati, la sempre più costante necessità di abbassarsi e il veder raramente premiati i suoi attacchi alla profondità, non hanno fatto altro che intristirlo. Se l'onda lunga dello stato psicofisico maturato a Firenze gli aveva permesso di avere un primo impatto positivo a Torino, ora la magia sembra svanita, e il giocatore si sta rifugiando sempre più spesso in giocate puramente conservative.

Ci sono altre due constatazioni da fare, che confermano come l'aspetto tattico sia un comunque un problema. La prima è che anche Milik, la cui stagione è generalmente percepita come positiva, ha visto crollare i suoi numeri realizzativi – 8 reti in circa 1800 minuti giocati contro le 20 in 2300 minuti della scorsa stagione. La seconda è che Vlahovic in nazionale segna: in un mondiale tragico per la Serbia ha giocato, da infortunato, una manciata di minuti, segnando un gol alla Svizzera nell'unica gara dove è partito titolare. Da settembre ha totalizzato 6 reti e 3 assist in 7 partite, decidendo le gare di marzo con Lituania e Montenegro. Due indizi non fanno una prova, ma viene il dubbio che il problema di fondo non sia Vlahovic ma la Juventus.

La Juventus è un contesto in macerie

Forse anche Vlahovic, al di là delle sue aspirazioni e di quelle dei suoi procuratori, aveva intuito come trasferirsi immediatamente alla Juve gli avrebbe creato delle difficoltà. O, quantomeno, non gli avrebbe permesso di portare a compimento il suo processo di maturazione, sul quale così tanto impatto aveva avuto Vincenzo Italiano. Di qui la volontà espressa di posticipare il suo addio alla Fiorentina a giugno 2022, poi caduta di fronte alle esigenze reciproche delle due società: quella dei viola di massimizzare la sua cessione sotto il profilo economico e quella della Juventus di blindare la qualificazione in Champions League.

Che la Juventus, dall'addio di Sarri se non prima, sia un contesto complicato è evidente a tutti e non serve spiegarlo. Restringendo la questione al tema della progettualità tecnico-sportiva, l'ormai ex (per le note vicende) dirigenza bianconera si è mossa in maniera ondivaga, con un'idea di fondo che è parsa esser più che altro quella di voler esercitare un dominio sul mercato, prendendo tutto il meglio che c'era sulla piazza. Ma da Allegri a Sarri passando da Pirlo per tornare ad Allegri, la Juventus non ha cercato alcuna continuità di guida tecnica, con i risultati che sono gradualmente e costantemente peggiorati. Oggi sembrano esserci ben poche cose ad ampio respiro in casa Juve, e per Vlahovic, come per altri, questa sensazione di precarietà non può non pesare.

Tra i giocatori di talento e/o in rampa di lancio che, negli ultimi anni, sono passati dalla Juventus, quasi nessuno è riuscito a migliorare chiaramente. Per Vlahovic e per altri giovani come Miretti o Fagioli, che pur quest'anno hanno messo nel sacco parecchi minuti in campo, la sensazione è che il vero passaggio di crescita sia possibile solo fuori dalla Juventus, come lo è stato per Kulusevski e Bentancur al Tottenham o per De Ligt al Bayern.

Di nuovo, a fronte di un ambiente che poco sta offrendo ai calciatori per valorizzarsi, e tende al contrario a spremerne le risorse tecniche, torna l'aspetto emotivo. Contro il Lecce, Vlahovic è tornato al gol con una bella volée mancina. Non segnava dalla partita contro il Friburgo di metà marzo e non lo faceva su azione da quella contro il Nantes di metà febbraio.

Per quanto il contesto tattico presumibilmente sia destinato a restare immutato nella sua sterilità, almeno nelle ultime partite della stagione, un giocatore ancora giovane (ed emotivo) come lui potrebbe beneficiare in maniera particolare dall'essersi sbloccato sottoporta. Anche questa è una situazione già vista: oramai tre anni fa, dopo che Prandelli lo aveva promosso titolare, Vlahovic era rimasto a secco quattro partite prima di sbloccarsi su rigore contro il Sassuolo, e sei prima di segnare su azione – curiosamente, il primo gol di Juventus-Fiorentina 0-3. Da lì, la sua carriera aveva visto un crescendo pressoché costante.

Come per quasi tutti gli attaccanti, i gol sono una vera e propria benzina per Dusan. Chissà se il gol contro il Lecce gli basterà per uscire dal pantano, tenendo conto che difficilmente ciò che lo circonda lo potrà seriamente aiutare in questo. Ma, di nuovo, si torna al punto di partenza, ovvero quella sensazione che l'anno e mezzo in bianconero sia stato per Vlahovic solo un'enorme, colossale perdita di tempo.


Autore

  • Scribacchino schierato sull'ala sinistra. Fiorentina o barbarie dal 1990. Evidenzio le complessità di un gioco molto semplice.

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