Il Fluminense di Fernando Diniz è una festa
Una delle squadre più gradevoli da veder giocare.
Non più di un anno fa, la giovane carriera da allenatore di Fernando Diniz sembrava già in fase calante. Dopo una discreta carriera da calciatore – in cui ha vestito le prestigiose maglie di Palmeiras, Corinthians, Fluminense, Flamengo, Cruzeiro e Santos – era tornato alla ribalta nazionale durante il Campionato Paulista del 2017, guidando il modesto Grêmio Osasco Audax fino alla finale persa contro il Santos. Poi, nei quattro anni successivi trascorsi tra alti e bassi, era riuscito a collezionare ben cinque esoneri: Athletico Paranaense, Fluminense, San Paolo, Santos e Vasco da Gama. È vero che il calcio brasiliano, secondo un recente rapporto del CIES, è tra i peggiori al mondo per durata media in carica degli allenatori – nel Brasileirão è di 120 giorni, la metà rispetto alla Serie A italiana – ma è vero pure che Diniz a un certo punto sembrava oggettivamente aver perso la bussola.
Nel 2020 era andato vicino a vincere il campionato col San Paolo, ma la squadra si era sciolta come neve al sole nel finale di stagione, bruciando un discreto vantaggio e vincendo solo due delle ultime undici partite. Al Santos, in difficoltà finanziarie e con una rosa molto giovane, era durato poco più di tre mesi e quando, solo nove giorni dopo l’esonero, aveva firmato col Vasco, in molti avevano commentato che avrebbe fatto meglio a prendersi un po’ di tempo per riposare e rielaborare le recenti esperienze. Un club blasonato che navigava a metà classifica nella Série B, con un’enorme pressione da parte di tifoseria e dirigenza per ottenere la promozione immediata, non sembrava la scelta migliore per ripartire. E infatti quell’esperienza durò appena dodici partite.
Se già nei periodi migliori l’opinione pubblica su Diniz era molto polarizzata, in quel momento la sua credibilità era ai minimi storici. Qualcuno ancora lo difendeva, denunciando la scarsa progettualità e l’impazienza delle società brasiliane, ma dai più era visto come una sorta di mitomane. Diniz era incompreso nel senso sarcastico del termine, per la sua ostinazione a proporre idee di gioco poco efficaci e talvolta malviste dal pubblico tradizionalista, come l’insistenza nella costruzione dal basso.
La rinascita
Il 30 aprile 2022, a sorpresa, il Fluminense decide di richiamarlo per sostituire Abel Braga, dimissionario dopo l’eliminazione dai playoff di Libertadores. Proprio nel club con cui aveva vissuto i momenti più brillanti della sua vita da calciatore, Diniz riuscirà a cambiare forse definitivamente la propria reputazione: oggi non solo è considerato un candidato credibile per la panchina della Seleção ma, pur senza aver vinto granché – il primo titolo della sua carriera è il Campionato Carioca vinto poche settimane fa –, si è guadagnato una certa popolarità anche fuori dai confini brasiliani, come avanguardista del cosiddetto “gioco funzionale”, un approccio filosofico al calcio spesso contrapposto al “gioco di posizione”.
In Sudamerica, e particolarmente in Brasile, vi è una forte corrente di pensiero che vede la diffusione del gioco di posizione come l’ennesima espressione del colonialismo culturale europeo: in nome di una supposta superiorità razionale, questo modello di gioco mortificherebbe il genio e la creatività dei calciatori, subordinandone il talento al rispetto di precise e invadenti istruzioni sulle zone ideali in cui ricevere, sulla postura, sui tempi e i modi di scarico del pallone, e così via.
Il dibattito è per certi aspetti analogo a quello scoppiato dopo la sconfitta del Brasile “più bello di sempre” contro l’Italia ai Mondiali del 1982. Uno scontro che fu culturale prima ancora che calcistico, poiché le sicurezze di una squadra che si sentiva invincibile – in quanto espressione pura del futebol-arte – si erano sciolte davanti all’opportunismo di Paolo Rossi e all’organizzazione difensiva degli azzurri, rappresentazione suprema del futebol-força. È opinione diffusa che quella partita abbia ferito nel profondo l’identità calcistica brasiliana, che anche a causa di un atavico complesso di inferiorità verso l’Occidente reagì reprimendo la propria unicità, e dando vita a Nazionali poco amate come quella campione del mondo con Parreira nel 1994, o quelle guidate in anni più recenti dal capitano di quella squadra, Dunga.
Diniz nel 1982 aveva otto anni e la nazionale di Telê Santana ha segnato profondamente la costruzione del suo immaginario calcistico: «Se non fossimo un popolo così immediatista – ha detto – mantenendo le fondamenta di quella squadra che aveva incantato il mondo avremmo potuto tranquillamente vincere la coppa nel 1986».
Si gioca come si vive
In un ambiente dove le interviste dei protagonisti sono piene di frasi fatte e povere di contenuti interessanti, sentir parlare Fernando Diniz è una boccata d’aria fresca. Pochi giorni fa, durante la premiazione come miglior allenatore del Cariocão, ha utilizzato il palco per sensibilizzare il pubblico riguardo la salute mentale dei calciatori, gran parte dei quali in Brasile proviene dalle favelas o da piccoli centri urbani e si ritrova catapultata nelle grandi città in età adolescenziale; lontani dalle famiglie e privi di un adeguato sostegno emotivo, in un contesto ipercompetitivo e disumanizzante, le loro performance vengono messe al centro di tutto, come se fossero delle macchine o degli asset finanziari.
Diniz ha anche aggiunto che, avendo faticato molto a gestire la pressione psicologica quando giocava, per lui il compito primario di un allenatore è fare in modo che i calciatori si sentano liberi di esprimersi e rispettati per ciò che sono, indipendentemente dai risultati. Per questo terminata la carriera da calciatore ha preso una laurea in psicologia, con una tesi dedicata all’importanza del ruolo dell’allenatore nel calcio. Nel suo discorso Diniz ha rimarcato che il tema della salute mentale nello sport è ancora un tabù, e che anzi quando si parla di supporto psicologico si intende quasi sempre un lavoro motivazionale sugli atleti, qualcosa che ne aumenti la competitività, secondo un paradigma che pone l’attenzione sui risultati invece che sulle persone.
Allargando il raggio del discorso, in un’intervista a ESPN Diniz ha affermato che «Il calcio è così perché il mondo è così; il mondo del capitale ti dice che se hai soldi sei bravo, se vinci sei bravo, non importa il modo». Nell’intervista Diniz ha fatto alcuni esempi di giocatori che ha aiutato: il centravanti Brenner – quarto miglior marcatore della scorsa MLS – che con lui segnò oltre 20 gol nel 2020 col San Paolo, dove lo aveva trovato sfiduciato dopo un paio di prestiti deludenti; e Antony, che spronò a giocare in modo più spregiudicato e liberarsi della paura di sbagliare.
Numerosi ex giocatori di Diniz hanno parlato di lui con entusiasmo: il centrocampista del Newcastle Bruno Guimarães lo ha ringraziato pubblicamente per aver cambiato la sua vita, per aver creduto in lui «quando nessuno ci credeva più», e ha aggiunto che i titoli sono poco rispetto a ciò che Diniz fa per le persone con cui lavora. Raphael Veiga, trequartista del Palmeiras nel giro della nazionale, ha raccontato invece un aneddoto dei suoi primi tempi all’Athletico Paranaense allenato da Diniz. È il 2018 e Veiga è arrivato in prestito con una gran voglia di spaccare il mondo; l’allenatore però si rivede in lui e capisce che quella pressione autoinflitta non sta facendo il bene del ragazzo, e di conseguenza del calciatore. Quindi un pomeriggio lo chiama e senza anticipargli nulla lo accompagna da una psicologa. Veiga all’inizio è scettico, ma da allora non ha mai smesso di fare psicoterapia e ricorda quel momento come un punto di svolta della sua carriera.
Relazioni
La coltivazione delle relazioni con e tra i calciatori è fondamentale nell’idea di calcio di Diniz. Jamie Hamilton, allenatore e blogger scozzese che con i suoi articoli ha contribuito a rendere noto il tecnico brasiliano nel mondo, pone la questione in termini filosofici: da una parte c’è un calcio che segue le logiche del positionism, dall’altra uno basato sul relationism.
Se i puristi del posizionismo considerano lo spazio come un’entità statica, da occupare in modo razionale affinché il pallone percorra deterministicamente le tracce più efficienti, il relazionismo responsabilizza gli individui – affidandosi alla loro capacità di interpretare le situazioni per generare combinazioni imprevedibili – e occupa lo spazio in modo dinamico. L’idea alla base è che, data la complessità delle variabili in gioco, negli ultimi anni la convinzione degli allenatori di poter agire da demiurghi capaci di eliminare il caos da una partita di calcio e liberare i giocatori dall’incertezza è andata troppo in là. Secondo il relazionismo, al contrario, è più utile allenare i calciatori a galleggiare nel caos e a trovare una via d’uscita utilizzando le proprie facoltà cognitive.
Arrivati a questo punto, può suonare paradossale che per anni Diniz sia stato etichettato come “Guardiola brasiliano”. Intervistato sul tema, ha spiegato l’equivoco col fatto che le squadre di entrambi tengono molto il pallone. «Ma (l’analogia) finisce lì; il suo tipo di possesso palla è quasi opposto al mio, perché nel gioco posizionale i giocatori tengono molto la posizione ed è il pallone ad andare da loro». Diniz ha poi riconosciuto che Guardiola stesso è cambiato nel tempo, dato che il Manchester City del 2022 ha guadagnato fluidità rispetto al 2018, ma la dicotomia con Pep rimane un interessante punto di partenza per analizzare i princìpi-chiave del Fluminense.
L’aspetto forse più particolare della squadra di Diniz è l’agglomerazione di tanti calciatori vicino al pallone durante il possesso. In questo modo il Flu crea superiorità numeriche settoriali e fa girare a vuoto gli avversari attraverso continui uno-due e scambi di posizione. Ne è un esempio l’azione qui in basso, dove i giocatori sono tutti collassati sul lato sinistro e la fluidità nell’occupazione delle posizioni è massima: il trequartista Ganso (n.10) e l’ala sinistra Arias (n.21) vengono incontro a ricevere, liberando spazio tra le linee che viene occupato dalle due mezzali Martinelli (n.38, che riceve libero alle spalle del centrocampo avversario in posizione di trequartista e serve il third pass) e Yago Felipe (n.20, che ha preso l’ampiezza e serve il cross finale).
Il sovraccarico di giocatori avviene in genere sugli esterni, dove la linea laterale diventa un alleato in transizione difensiva: appena persa palla il Fluminense si ritrova con molti giocatori vicini e questo permette di schiacciare l’avversario verso la linea e favorire la riconquista immediata del possesso, come mostra questo esempio di riaggressione dalla partita contro il San Paolo. Costruire un possesso palla prolungato su un lato del campo denso di giocatori, poi, è una calamita per attrarre l’attenzione degli avversari e renderli più vulnerabili agli inserimenti sul lato debole.
Come ha fatto notare Caio Miguel Pontes di Total Football Analysis, «le squadre di Diniz appaiono del tutto caotiche se osservate attraverso le lenti posizionali» cui ci siamo abituati nell’ultimo decennio: è possibile trovare l’esterno destro a sinistra, il trequartista che va a prendersi il pallone nella propria area, il difensore centrale che parte in sovrapposizione sulla fascia, e così via.
Benché parlare dell’approccio “posizionale” e di quello “funzionale” in termini manichei e del tutto antitetici non rende giustizia alla complessità delle cose, è affascinante notare come alcuni precetti del primo approccio vengano completamente ribaltati nel secondo. È il caso delle escadinhas (scalinate), in cui due o più giocatori si dispongono sulla stessa diagonale rispetto al giocatore in possesso per favorire la progressione del pallone, spesso utilizzando il “velo” (corta-luz) per mandare fuori tempo gli avversari. Un'aberrazione per le regole del gioco di posizione, secondo cui non dovrebbero mai esserci più di due giocatori allineati per non togliere linee di passaggio al portatore. Le escadinhas sono invece meccanismi tipici della tradizione brasiliana, che si basa sulla vicinanza e sulle associazioni spontanee tra i compagni.
Se in passato le squadre di Diniz sembravano reggersi su equilibri tattici e psicologici troppo fragili per durare nel medio-lungo termine, in questo momento il tecnico è riuscito a instillare una fiducia collettiva abbastanza solida da resistere alle turbolenze. Nel finale dello scorso Brasileirao, per esempio, dopo tre sconfitte consecutive il Fluminense si è ripreso facendo 19 punti nelle ultime sette e terminando la stagione al terzo posto; nella recente finale del Carioca, dopo aver perso per 2-0 l’andata contro il Flamengo, ha dominato la gara di ritorno vincendo per 4-1.
La pelota siempre al Diez
Mentre nel posizionismo le responsabilità decisionali e creative sono diluite nel sistema, il relazionismo scommette sulle capacità dei singoli di trovare soluzioni sempre originali. In questo contesto, Diniz ha fatto inaspettatamente rifiorire il talento di Paulo Henrique Ganso.
Classe 1989, arrivato al Flu nel 2019 dopo il malinconico passaggio in Europa tra Siviglia e Amiens, Ganso nel 2020 aveva raccolto soltanto 10 presenze nel Brasileirão e sembrava destinato a ritirarsi precocemente o a chiudere la carriera in un contesto minore. Diniz invece gli ha affidato le chiavi della squadra, concedendogli totale libertà di movimento ed espressione e recuperandolo anche dal punto di vista mentale. «Ganso ha un carattere molto competitivo – ha detto il tecnico a ESPN – ma era diventato apatico, aveva perso le motivazioni. Il suo genio deve essere messo al servizio della squadra, lo voglio sempre vicino al pallone».
Partendo nominalmente da trequartista, Ganso nello scorso campionato è stato il secondo giocatore della rosa per passaggi completati ogni 90’ (dietro solo al volante André), esercitando un’influenza catartica sulle fasi di possesso di una squadra che ha tenuto palla per il 61% del tempo. La sua influenza non si manifesta tanto nelle statistiche offensive tradizionali – ha segnato solo 5 gol (di cui 3 su rigore) e servito 5 assist in 33 partite nel Brasileirão 2022 – quanto nella capacità di fluidificare la circolazione del pallone fornendo sempre un appoggio sicuro ai compagni. Nell’azione qua sotto, contro lo Sporting Cristal in Libertadores, l’arte dei dribbling difensivi di Ganso gli permettere di resistere da solo alla pressione di ben tre giocatori, e poi di far progredire il gioco come se nulla fosse.
Il suo gioco minimalista si esprime nella gestione sapiente dei tempi e degli spazi. Un’abilità che le statistiche riescono a catturare solo parzialmente: secondo i dati Wyscout, nello scorso campionato l’unica classifica in cui primeggiava (insieme al flamenguista De Arrascaeta) era quella più qualitativa che quantitativa degli smart passes, definiti come “passaggi creativi o filtranti che tentano di rompere le linee difensive avversarie per ottenere un vantaggio significativo in attacco”.
Ganso insomma è ovunque: a volte addirittura si abbassa fin dentro la propria area durante le rimesse dal fondo, per fare da primo regista e influenzare lo sviluppo della manovra con la sua tecnica fin dalle primissime battute.
Prospettive
Il Fluminense di Fernando Diniz è ormai sulla bocca di tutti, e le aspettative per una sua consacrazione in questa stagione sono molto alte. Dopo la conquista del Carioca 2023 e l’ottimo inizio di campionato e di Libertadores (tre vittorie nelle prime tre partite), il Tricolor figura tra le favorite nonostante una rosa non di primissimo livello.
Non potendo competere sul mercato con colossi come Flamengo e Palmeiras, il Flu ha puntellato la rosa con prestiti e occasioni a buon mercato, e attingendo come al solito dal floridissimo settore giovanile. Da qui nelle ultime due stagioni sono emersi gli esterni d’attacco Matheus Martins (ora al Watford, di proprietà dell’Udinese) e Luiz Henrique (Betis), oltre a Matheus Martinelli e André, entrambi classe 2001, che formano l’attuale coppia titolare di centrocampo.
Quest’anno il nome nuovo è Alexsander, diciannovenne che interpreta il ruolo di terzino sinistro con tecnica e compiti da centrocampista – posizione in cui ha giocato all’ultimo Sudamericano Sub-20. La sua crescita non potrà che giovare dell’arrivo in squadra di Marcelo, tornato dopo 17 anni per chiudere la carriera dove l’aveva iniziata. In questo Flu l’ex Real Madrid può dare libero sfogo alla propria vena associativa e aggiungere ulteriore imprevedibilità alla manovra. All’esordio in Libertadores contro lo Sporting Cristal ha servito un meraviglioso third pass di esterno per Jhon Arias, propiziando il gol di Germán Cano.
Pochi giorni dopo ha sbloccato la finale di ritorno del Cariocão contro il Flamengo con un tiro a giro dal limite dell’area. Marcelo si è spinto fino al vertice destro dell’area (quindi sul lato di campo opposto a quello di sua competenza) per accompagnare il flusso dell’azione, poi ha sterzato con una veronica liberandosi di un primo avversario, con una finta di tiro ne ha mandato a terra un secondo, infine ha calciato sul secondo palo dal limite dell’area.
Il crescente status di “squadra da battere” porrà delle nuove sfide al Fluminense e al suo allenatore, dato che gli avversari studieranno contromisure ad hoc per affrontarli. Alla terza di campionato ci è riuscito alla grande il Fortaleza dell’argentino Juan Pablo Vojvoda, che difendendosi con un blocco medio aggressivo ha attaccato ripetutamente lo spazio alle spalle della difesa, generando occasioni per l’enorme volume complessivo di oltre 5 expected goals, nonostante un possesso palla del 30%. È vero che Diniz aveva risparmiato molti titolari in vista della partita di Libertadores contro il River Plate (giocata la scorsa notte e stravinta dal Flu per 5-1), ma la sconfitta pone alcuni interrogativi sia circa la profondità della rosa, sia sulla vulnerabilità alle transizioni di un sistema così fluido e “disordinato”. Anche dalla risoluzione di queste imperfezioni passerà la prossima evoluzione tattica del calcio.
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