La Premier League sta consumando gli allenatori
Mai i club inglesi avevano cambiato così tanti allenatori.
Se, per puro caso, volessimo disporre su un campo di calcio tutti gli allenatori di Premier League che non hanno finito la stagione con la squadra per cui l’hanno iniziata, otterremmo un undici perfetto con anche due cambi a disposizione. Potremmo persino schierare un centrocampo pieno di leggende, dove sfilerebbero Vieira, Lampard e Gerrard.
Assumendo un tono più serio, potremmo notare che nove delle ultime dodici squadre in classifica hanno cambiato allenatore almeno una volta, Chelsea e Southampton, addirittura, hanno scelto di farlo due volte. Le uniche tre eccezioni – a questo punto possiamo definirle tali – sono discretamente sorprendenti: due neopromosse – Nottingham Forest e Fulham – e una delle maggiori delusioni della stagione, il West Ham.
La scelta di cambiare guida tecnica, lo sappiamo già, può essere fatta per dare un segnale alla squadra, per risolvere dei rapporti logorati, per dei risultati assenti o, perfino, per presunte o reali opportunità di crescita – la vicenda Nagelsmann al Bayern ce lo mostra bene. Può essere anche una somma di questi motivi o nessuno di questi, la storia recente ci ha offerto le casistiche più disparate. Per capire come mai molti club inglesi, soprattutto di bassa classifica, abbiano guida, però, è opportuno inquadrare la situazione della lotta salvezza di questa Premier League.
Pur in un campionato che si è sempre mostrato molto combattuto, infatti, non si era mai vista una lotta salvezza equilibrata come quella di questa stagione. Se negli anni scorsi era sempre emersa una squadra chiaramente inferiore sin dall’inizio della stagione – Norwich, Sheffield United, Huddersfield e Watford, per citare quelle più recenti, si sono spesso fermate sotto i 30 punti – quest’anno non si può dire altrettanto.
Il Southampton, attualmente ultimo, realisticamente chiuderà la stagione oltre i 30 punti. Inoltre, il gap tra i Saints stessi e il Crystal Palace, dodicesimo, è di soli sette punti – prima di questo turno erano quattro – e la zona salvezza ne dista solo tre. Con queste premesse viene chiaro comprendere perché molti club, con la possibile prospettiva di un crollo, abbiano deciso di attivarsi in anticipo.
Non è un caso che il primo esonero sia arrivato addirittura con il mercato ancora aperto, quando il Bournemouth ha allontanato Scott Parker, l’allenatore con cui aveva conquistato la promozione pochi mesi prima. Parker aveva attaccato pesantemente la dirigenza dopo il 9-0 subito in casa del Liverpool, sostenendo di avere una rosa inadeguata per la Premier League. «Dobbiamo prendere delle decisioni per aiutare questo gruppo» aveva detto Parker. Alla fine la dirigenza, stanca delle sue rimostranze, aveva preso la sua decisione: quella di cambiare manager.
Per Bruno Lage, licenziato a inizio ottobre dal Wolverhampton, e Ralph Hasenhuttl, a inizio novembre dal Southampton, il problema era invece legato al rapporto con i giocatori. Secondo le ricostruzioni di The Athletic, Lage aveva totalmente perso la presa sui suoi giocatori. John Ruddy, suo ex giocatore, aveva espresso dubbi sulle sue capacità relazionali. Inoltre, anche le scelte di mercato – su tutte la cessione di Conor Coady, ex capitano del club – avevano cercato di costruire una squadra più affine al suo manager, con il solo risultato di aver mandato i Wolves all’ultimo posto in classifica.
Non troppo diversamente era avvenuto con Hasenhuttl, scaricato dai suoi giocatori ben prima dell’inizio della stagione. Yan Valery, che ha lasciato il club in estate, aveva sostenuto come per i giocatori fosse «impossibile parlare» con il loro allenatore. In entrambi i casi, le due squadre erano a un paio di punti dall’ultimo posto in classifica e solo il Wolverhampton sarebbe poi riuscito a riprendersi parzialmente grazie all’arrivo di Julen Lopetegui a gennaio.
Il Southampton non ha risolto granché con l’arrivo di Nathan Jones. Anche con il nuovo allenatore, i Saints riescono a vincere una sola partita in Premier League – pur raggiungendo la semifinale di Coppa di Lega eliminando il Manchester City – e a febbraio la dirigenza mette da parte Jones, che intanto aveva a sua volta litigato con diversi giocatori. Alla fine il suo sostituto è l’ex vice di Hasenhuttl: Ruben Selles.
Tra i due licenziamenti di Lage e Hasenhuttl c’era stato anche quello di Steven Gerrard dall’Aston Villa, forse il primo arrivato per motivi strettamente di campo. Gerrard era forse l’allenatore con più hype addosso vista l'ottima precedente esperienza ai Rangers e il mercato di alto livello che il club aveva gestito in estate. La stagione, però, si è evoluta in modo negativo. L'Aston Villa era spesso spento, passivo e con poche idee in fase di possesso. In questo senso, l’acquisto di Unai Emery dal Villarreal ha cambiato totalmente faccia alla squadra, capace di piegare Chelsea, Liverpool e Manchester United in pochi mesi, risalendo dalla lotta salvezza fino a un possibile posto in Conference. La scelta dei dirigenti dei Villans è forse l’unica che è pienamente riuscita nel dare un cambio netto alla stagione. Non proprio una sorpresa visto il comprovato valore di Emery.
In questi poi si inseriscono licenziamenti che probabilmente sono stati dettati più dal corso degli eventi circostanti che non da scelte precise. Patrick Vieira e Brendan Rodgers, rispettivamente con Palace e Leicester, hanno mostrato anche di poter mantenere il loro ruolo – ricordiamo che Rodgers ha sfiorato due volte il piazzamento in Champions League e vinto una FA Cup – e il loro esonero è stato dettato quasi esclusivamente dalla mancanza di risultati.
Rodgers resta uno dei pochi allenatori che può vantare un trofeo con il Leicester
Nello specifico il Crystal Palace, che ha vinto alla prima con il redivivo Roy Hodgson in panchina, era reduce da una striscia di 13 partite senza vittorie con Vieira e in tutta la stagione aveva mostrato difficoltà nello sfruttare pienamente la qualità del suo reparto avanzato. Zaha e Olise sono stati raramente messi nelle condizioni di rendere, i centravanti Mateta ed Edouard mai pienamente compresi; per non parlare di Ebere Eze, forse il miglior giocatore della rosa, gradualmente accantonato.
Per quanto riguarda il Leicester, invece, la sensazione è che l’esperienza di Rodgers sia finita anche per responsabilità non sue: il club, infatti, è in difficoltà economiche da mesi: senza la cessione di Fofana a fine agosto non sarebbe arrivato neanche un nuovo giocatore. A gennaio il club è intervenuto per allungare un reparto difensivo devastato dagli infortuni ma senza portare clamorosi miglioramenti. Chiaramente una squadra con profili di élite come Maddison, Tielemans e Barnes non può permettersi di essere in fondo alla classifica. Appare chiaro che la dirigenza delle Foxes abbia temporeggiato, forse più del dovuto, risultati accumulati negli scorsi anni.
Anche nel licenziamento di Frank Lampard è difficile trovare colpe enormi dell’allenatore. L’Everton è da anni un club gestito in modo estremamente problematico e l’ex Chelsea, pur non avendo mai mostrato grandi qualità manageriali in carriera, non sembrava il primo responsabile del tracollo dei Toffees. L’arrivo di Sean Dyche, tuttavia, ha dato un maggior senso alla squadra – che, tra l’altro, rischia una penalizzazione per aver violato il financial fair play interno alla Premier League – e ora l’Everton sembra potersi realisticamente giocare la salvezza.
L’ultimo esonero di questa zona di classifica è quello di Jesse Marsch ed è forse quello meno comprensibile di tutti. L’americano, infatti, era stato confermato dopo il subentro a Bielsa della scorsa stagione e aveva piena fiducia dalla dirigenza, che ha costruito un Leeds molto vicino alle sue idee, prendendo molti giocatori di scuola Red Bull. Pur non avendo raccolto troppi punti, il Leeds era sempre sembrato mantenersi in linea di galleggiamento, più o meno fisso sopra la zona retrocessione.
Il miglior risultato del Leeds di Marsch resta il 3-0 contro il Chelsea ad agosto
Pur senza mai brillare chiaramente, si poteva notare come Marsch avesse comunque impresso un’identità chiara al suo Leeds, anche quando si è trovato a dover fare a meno di giocatori chiave come i due centravanti Bamford e Rodrigo Moreno o il capitano Liam Cooper. Complessivamente, l’ex tecnico del Lipsia era riuscito a valorizzare anche giovani come Crysencio Summerville o lo stesso Willy Gnonto ma, probabilmente, questo non è sembrato sufficiente per la sua dirigenza. Resta, al netto dei risultati, difficile comprendere come la dirigenza del Leeds abbia potuto consegnare tutto il suo progetto tecnico a un allenatore per poi sconfessarsi dopo sei mesi, lasciando una squadra disegnata per giocare in pieno stile Red Bull a un allenatore di marca totalmente diversa.
Questo tipo di dubbi, alla fine, sono gli stessi che hanno accompagnato i due esoneri voluti dal Chelsea: incredibilmente simili per evoluzione e allo stesso tempo difficili da comprendere. Il primo, quello di Thomas Tuchel, era arrivato a settembre, pochi giorni dopo la fine di un mercato a cui lo stesso Tuchel aveva partecipato attivamente ma controvoglia, suggerendo i profili da acquistare alla dirigenza. Se però le note incompatibilità tra Tuchel e i dirigenti dei Blues potevano essere lette in parte anche con quelle che il tedesco aveva avuto in tutti i suoi club finora, l’esonero del suo sostituto, Graham Potter, dopo appena otto mesi – e un altro mercato fatto su sua iniziativa – porta chiaramente a identificare i problemi del Chelsea con quelli del suo gruppo dirigenziale.
Quelli del Chelsea – attualmente undicesimo – sono in assoluto i risultati più deludenti di tutta la Premier League. Eppure già Tuchel aveva come parziale attenuante quella di dover gestire una delicata transizione tecnica dovuta ad alcune uscite particolarmente impattanti – Rudiger e Christensen in difesa, Saul Niguez a centrocampo e Lukaku in attacco. Potter, addirittura, ne aveva anche di più per il fatto di essere subentrato e di aver fatto fronte a un mercato invernale che ha totalmente rivoluzionato la rosa. Se già Potter aveva bisogno di tempo per implementare le sue idee al meglio, il mercato ha solo accentuato questa necessità.
Il fatto che sia stato esonerato dopo solo sette mesi e nonostante gli 80 milioni che il Chelsea ha investito per lui tra clausola e contratto quinquennale, mostra bene la scarsa chiarezza di idee della dirigenza dei Blues. Ben diversa da quella del Brighton che, invece, nel sostituire Potter con De Zerbi, ha lavorato con grande lungimiranza: ha trovato delle idee di gioco simili ma ancor più evolute e dato una marcia in più alla stagione, arrivando a giocarsi una possibile storica qualificazione in Europa.
L’ultimo esonero rimasto, quello di Antonio Conte, è forse il più facile e, al tempo stesso, difficile da inquadrare. Se abbiamo identificato il Chelsea come primissima delusione di questa Premier League, il Tottenham non è poi troppo sotto. Gli Spurs venivano da un finale di stagione praticamente perfetto, con cui hanno rimontato l’Arsenal – spazzandolo via nel North London Derby di maggio – ma sin dalle prime partite di questa stagione avevano mostrato molte difficoltà a imporre il loro gioco in campo. Rispetto alle migliori versioni delle squadre di Conte, ordinate e puntuali nei movimenti come un orologio, il Tottenham sembrava troppo ancorato a un’idea di calcio quasi passiva.
Per buona parte della stagione, il Tottenham di Conte ha tenuto un baricentro ostinatamente basso, appoggiandosi quasi esclusivamente alla tecnica di Kane e agli strappi di Kulusevski per risalire il campo. Tutti i dubbi di tipo tecnico e tattico sullo stato del Tottenham sono deflagrati nel 2023, quando la squadra è totalmente collassata, mettendo in pesante discussione anche la qualificazione in Champions.
Conte, che in questi mesi ha vissuto prima la perdita del suo preparatore atletico Gian Piero Ventrone e poi quella di due suoi amici come Vialli e Mihajlovic, ha dovuto gestire un carico emotivo estremamente pesante, ulteriormente aggravato dalla colecistite che lo ha costretto a operarsi in inverno. Il suo esonero, paradossalmente, non era mai stato contemplato se non proprio da lui, quando aveva sostenuto che: «Il lavoro non è tutto nella vita». L’esonero l'ha forse bramato lui stesso dopo la partita contro il Southampton, nella famigerata conferenza stampa in cui ha attaccato più o meno tutte le figure sopra e sotto di lui nel Tottenham. Al suo posto la dirigenza ha mantenuto il suo vice, Cristian Stellini, una scelta che si può leggere come indice del fatto che, forse, l’intenzione di cambiare fosse più di Conte e dei giocatori che non della sua dirigenza.
Con questa panoramica il mio obiettivo era sottolineare come la Premier League stia diventando un contesto molto difficile per i manager. In una stagione in cui tre delle big six stanno avendo grosse difficoltà, neanche figure apparentemente intoccabili come Conte e Tuchel sono riuscite a salvaguardare il loro posto di lavoro. Se non volessimo scadere in un’analisi eccessiva e volessimo assumere che i dodici esoneri di questa stagione, un record assoluto, siano un caso isolato, dobbiamo comunque notare che il precedente record (10 in una stagione) è stato stabilito nel 2009 e da allora è stato eguagliato tre volte, con l’ultima di queste che è stata proprio la scorsa stagione.
La sensazione generale è che la competitività sempre più alta sta costringendo i club della classe media a muoversi tempestivamente per evitare di essere rimangiati da chi sta sotto – Leicester e West Ham ce lo stanno mostrando chiaramente – spesso andando nel panico e muovendosi in modo inadeguato e frettoloso, senza portare reali miglioramenti. Il fatto che le squadre più continue ad alti livelli degli ultimi anni siano state Liverpool e Manchester City, i cui manager sono lì rispettivamente da sette e sei anni, dovrebbe cominciare a far riflettere più di qualche dirigenza.
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