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, 30 Marzo 2023

Considerazioni sparse su The Banshees of Inisherin (Gli spiriti dell'isola)


L'ultima opera di McDonagh, appena sbarcata su Disney+, è al contempo un'analisi tagliente e ironica dell'umanità e dei rapporti interpersonali e un'accurata allegoria della guerra civile.


- “I wasn’t trying to be nice, I was trying to be accurate” (“Non cercavo di essere gentile, cercavo di essere precisa”). Questa frase, pronunciata da Mrs. McCormick (Sheila Flitton) - ieratica profetessa di sventura che si aggira per l’isola in abiti da lutto e fumando una lunga pipa - è l’aforisma con cui Martin McDonagh descrive magistralmente la propria poetica, il motore immobile che dà vita alle sue opere. Come in In Bruges e in Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, il regista irlandese sbatte in faccia allo spettatore un’opera verisimile ma non realistica, un’analisi estremamente accurate ma per niente nice delle relazioni umane in tutta la loro incomunicabile assurdità, in cui la disperazione e ironia convivono e si intersecano in modo che tragedia e commedia non possano mai essere davvero distinte una dall’altra;

- “Good luck to you, whatever is your fighting about” (“Buona fortuna a voi, qualsiasi sia il motivo per cui combattete”), dice tra sé e sé il pastore Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell), protagonista del film, mentre osserva i combattimenti oltre il braccio di mare che separa Inisherin dalla terra ferma. La vicenda infatti si sviluppa su un’isola immaginaria - Inisherin, per l'appunto - a largo di Galway. Un luogo più noioso che pacifico in cui le persone sono così tranquille e gentili da risultare vuote, piatte, nient’altro che nice fellas con cui perdere tempo al pub. Tutto intorno a loro, su una terraferma che è uno sfondo lontano dal quale arrivano soltanto echi smorzati delle esplosioni, si combatte la guerra civile irlandese. The Banshees of Inisherin, infatti, non è soltanto una finissima rappresentazione dell’incomunicabilità tra individui, ma anche e soprattutto un’allegoria di una guerra fratricida e della sua assurda sete di sangue. Il conflitto, d’altra parte, non è altro che la massima espressione dell’incapacità di dialogare e, proprio come l’assurdo litigio tra Pádraic e il violinista Colm Doherty (Brendan Gleeson) intorno a cui ruota tutta l’opera, nasce da un motivo futile e si trasforma in una spirale di ostinata autodistruzione;

- “What's your tune called?” “The Banshees of Inisherin, I think.” "But, there are no banshees on Inisherin.” (“Come si chiama la tua canzone?” “Le banshees di Inisherin, credo.” “Ma non ci sono banshees a Inisherin!”). Se le prime due considerazioni non vi avessero convinto della straordinaria (nel senso letterale di “fuori dall’ordinario”) profondità e densità di questo capolavoro - a mio avviso il miglior film di McDonagh - sappiate che c’è molto, molto altro e che nulla in questo film è scontato, esplicito o lasciato al caso. Ogni personaggio, ogni elemento presente nella messa in scena, dal paesaggio agli animali domestici passando per gli abiti indossati dagli attori, è pregno di significato e rimanda al senso più generale del film. La cura del dettaglio è maniacale e ogni singolo fotogramma, ogni parola pronunciata, apre a un mare di questioni, dubbi, domande al quale solo lo spettatore può trovare risposta. Perché, davvero, Colm non vuole più parlare con Pádraic? Chi è Mrs Cornick? Le banshees, a Inisherin, ci sono o no? Pádraic è nice come dice di essere o invece è solo dull (tedioso) come Colm lo accusa di essere? Per tutti questi motivi, The Banshees of Inisherin è un film che non merita soltanto di essere visto, ma rende quasi necessaria una seconda e magari persino una terza visione. È un film che non smette mai di fare domande, non smette mai di provocare risposte;

- “You used to be nice. Or did you never used to be? Oh, God. Maybe you never used to be.” (“Una volta eri gentile. O forse non lo sei mai stato? Dio mio, forse non lo sei mai stato”). Dopo tutte queste lusinghe, è giusto ammettere che, stando al soggetto, questo film aveva tutte le carte in regola per essere noioso, molto noioso, noioso almeno quanto gli abitanti dell’isola. Ciò che più di ogni altra cosa anima The Banshees e lo eleva rendendolo grande e non semplicemente “strano” sono le gigantesche prestazioni degli attori. Tutti irlandesi DOC, scelta ottima e quasi necessaria visto il realismo linguistico, sembrano nati per interpretare quei personaggi. Colin Farrell si conferma perfettamente a suo agio in personaggi miseri e un po’ sfigati, integrandosi magistralmente in Pádraic Súilleabháin, un antieroe lentamente ma costantemente spogliato da ogni residuo di fascino, capace di suscitare - in quest’ordine - empatia, pena, disprezzo. Brendan Gleeson interpreta Colm, una sorta di antagonista che il New Yorker ha splendidamente definito come un “bue di cui, grazie a Gleeson, possiamo percepire la ruminativa disperazione”. Il film, tuttavia, è illuminato più di ogni altra cosa dalla luce emessa da Kerry Condon, conosciuta al pubblico per i suoi ruoli nelle serie Rome e Better Call Saul. Come Siobhán, sorella di Pádraic, Condon aggiunge una nota di rabbia allegra e vivificante alle atmosfere del film, rendendo il suo personaggio il reale punto di interesse, uno lampo di colore nel grigio rancore che pervade gran parte del film, il fulcro nascosto intorno a cui ruota gran parte del significato profondo della storia;

- "Maybe he just doesn't like you no more" ("Forse semplicemente non gli piaci più"), dice la razionale Siobhán a suo fratello, cercando di capire perché Colm improvvisamente non gli rivolge più uno sguardo o una parola. "Forse semplicemente non è piaciuto" invece è la spiegazione che provo a darmi io - come quasi ogni anno - quando cerco di capire come sia porcodiavolo possibile che The Banshees of Inisherin non abbia vinto nemmeno una statuetta - almeno una misera categoria, almeno una! - su ben nove candidature. Qui non si pretendeva di certo che il film di McDonagh facesse manbassa di Oscar - non è quel tipo di pellicola - ma resta davvero inconcepibile come né l'interpretazione di Farrell, né quella Gleeson, né quella di Condon, né la scrittura o la regia di McDonagh siano stati giudicati più meritevoli rispetto ai corrispettivi in Everything Everywhere All at Once. Non ci strapperemo i capelli (anzi, non ci mutileremo le dita di una mano) per il despair - i premi lasciano il tempo che trovano - ma resta un peccato non vedere riconosciuto il merito di un lavoro di tale qualità e spessore.

  • Genovese e sampdoriano dal 1992, nasce in ritardo per lo scudetto ma in tempo per la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni. Comincia a seguire il calcio nel 1998, puntuale per la retrocessione della propria squadra del cuore. Testardo, continua imperterrito a seguire il calcio e a frequentare Marassi su base settimanale. Oggi è interessato agli intrecci tra sport, cultura e società.

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