C'era una volta Minà, il Novecento e Roma
La scomparsa di Gianni Minà è stata una perdita collettiva, la fine del Novecento.
La sera confonde primavera e inverno e ti dà i brividi lungo la schiena perché addosso hai i vestiti leggeri. Il vento sferza corpi e menti. Roma è avvolta da un cielo color pastello e le sue nuvole rapide disegnano scenari ogni volta differenti. Una città che incarna il secolo breve e che, meglio di chiunque altra, raccoglie il senso del morire nelle bellezza. Le sue strade sono vene aperte come quelle sudamericane raccontate da Galeano e che disperdono le voci degli ultimi, specie se si arriva nei pressi di Termini. Minaccia pioggia e cerchi riparo tra gli imponenti marmi della stazione, sigaretta in una mano e notizie sullo schermo nell'altra, finché non ti accorgi che proprio quel secolo breve, che le mura romane trasudano, può dirsi finito, completo, chiuso. Specie nella sua narrazione più efficace, decisa e asciutta. I familiari dànno notizia, mezzo social, della morte di Gianni Minà.
Questa volta non è la "giannetta" a sferzarti il volto ma la scomparsa di una persona che, seppur non conosciuta, ha segnato indelebilmente un tuo momento di crescita intellettivo. Una persona attraverso la quale hai fantasticato di poter dialogare con Fidel Castro, Maradona, Sergio Leone, Robert De Niro, i Beatles, Garcia Marquez, Troisi... (stilare un elenco sarebbe riduttivo e banale). Ciascuno di loro, di certo, lo ha riconosciuto come una persona di famiglia per il suo modo di porsi e di rapportarsi.
Maradona lo riteneva l'unico giornalista di cui fidarsi negli ultimi turbolenti anni napoletani. Gli ha svelato emozioni e aneddoti. Si lasciava andare, si apriva come non riusciva più a fare assediato dall'amore tossico che la città di Napoli gli aveva scaricato addosso. Tanto che la famiglia Maradona, sempre attraverso Facebook, ha commentato la scomparsa di Minà con parole dolci: "Tu non lo hai mai tradito". Una frase che fotografa bene la gentilezza dell'uomo, la sensibilità con cui Minà si rapportava con i più grandi. Se potete, chiudete gli occhi e ascoltate questa intervista. Verrete travolti dalla fragilità di Diego Maradona, dalla sua umanità restituita attraverso il dialogo con Minà.
Fidel Castro amava raccontare a Minà le storie rivoluzionarie caraibiche e personali. Voleva ci fosse nei suoi viaggi perché sapeva coglierne il senso, approfondirli e raccontarli come nessun altro. Nelle decine di documentari e reportage che ha firmato, Gianni Minà ti metteva di fronte quei personaggi. Iniziavi a guardarlo intervistare un Capo di Stato o un atleta e ti ritrovavi lì con loro, in una conversazione tra amici.
Il Sud America mi è parso di averlo viaggiato più volte nelle sue narrazioni. Minà ne era verbo e non megafono. Nelle centinaia di foto che lo ritraggono insieme a quella variegata galleria di personaggi che ha frequentato (foto che si possono reperire sul suo sito web, nonché ovunque su Google) ha quasi sempre gli occhi trasognati e luccicanti. Il folto baffo nasconde un sorriso sincero e illuminante. Esattamente lo stesso sorriso che avrei avuto io - che avremmo avuto tutti - nella stessa situazione. Spesso la testa è reclinata sulla spalla di un suo vicino come in una foto con i propri amici. Minà tra i personaggi più importanti del Novecento stava così: con naturalezza e bellezza. E così è andato via, come Roma che adesso scompare piano piano dai finestrini veloci del mio treno. Si dissipa, si allontana, si dirada. Lo stesso destino che tocca al Novecento, che parrebbe ancora a portata di mano ma che, invece, è inesorabilmente andato una volta e per tutte. Rimangono i suoi echi sulle pagine scritte da Minà, le sue storture, le sue atrocità e le sue infinite meraviglie.
Tutto si consuma e finisce, evapora come un ricordo alcolico di una notte prima. Proprio Minà però ci insegna che si può sopravvivere al tempo che passa, lasciare una traccia di sé negli altri, a patto però che ci si rapporti con il prossimo tenendo gli occhi ingenuamente meravigliati, ma sempre disincantati. Gli occhi che aveva lui nel guardare il mondo a prima vista così brutale, ma al contempo ricolmo di splendore, proprio come il suo Sud America.
In quella famosa foto con Ali, Leone, Marquez e De Niro avrei voluto esserci anche io, di fianco a Minà, avvolto dal Novecento, da quel suo Novecento, e da Roma. Circondato dal suo splendore decadente che solo Minà era in grado di farci immaginare con le sue parole morbide come il tono della sua voce. Col suo spirito ribelle a cui il Sud del mondo aveva insegnato tantissimo, e a cui lui aveva donato un pizzico della sua eleganza supremamente sabauda. Aveva un'idea, Minà: non esiste una sola differenza tra uomini, tutti sono alla pari. E così agiva, ne sono testimone.
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