Ma quindi il calcio italiano si è ripreso?
Alcune considerazioni sull'ottima stagione europea delle squadre italiane.
Gli astri sembrano allineati per una dolce primavera per il calcio italiano. Ai quarti di finale di Champions League che cominceranno il prossimo 11 aprile ci saranno tre squadre italiane. Il Napoli, l’Inter e il Milan. Alzi la mano chi l’avrebbe detto a inizio stagione. E se per caso qualcuno avesse scommesso su un club italiano, sono abbastanza certo che avrebbe puntato tutto sulla Juventus, che invece proprio quest’anno non ha passato la fase a gironi ed è retrocessa in Europa League. Invece ci troviamo di fronte a questa storia sportiva che ha sfumature di eccezionalità.
L’Inter affronterà il Benfica, una squadra da non sottovalutare per la loro qualità di calcio, ma anche la più desiderata, l’ostacolo sulla carta meno insormontabile. Nello stesso lato del tabellone, il derby italiano tra Napoli e Milan. Una sfida affascinante che profuma di anni ’80: Maldini contro Maradona, maglie iconiche griffate Buitoni e Mediolanum, San Paolo e San Siro con gli spalti gremiti. Ora sarà Osimhen contro Leão, Pioli contro Spalletti. Una sfida andata/ritorno che non capitava dal 1990, e che verosimilmente sarà molto più equilibrata di quanto raccontano i 20 punti che separano attualmente le due squadre in campionato. I due quarti rimanenti saranno quelli tra Real Madrid-Chelsea (di nuovo) e Manchester City-Bayern Monaco, le due squadre favorite. Considerando teoricamente più “morbido” il lato di tabellone delle italiane, quindi, la possibilità che una di esse possa spingersi fino alla finale di Istanbul è molto concreta.
Nelle altre competizioni europee la primavera delle squadre italiane appare altrettanto rosea. L’Europa League è stata snobbata nell’ultimo decennio, con Inter, Milan e Lazio che non hanno mai inseguito la vittoria con troppa convinzione. Ma adesso le cose sembrano cambiate: la Roma ai quarti affronterà il Feyenoord, un remake della finale di Conference League vinta lo scorso anno dai giallorossi di Mourinho. La Juventus affronterà l’ostico ma non insormontabile Sporting CP. Sono capitate dalla parte opposta del tabellone e sembrano entrambe ben attrezzate per arrivare fino in fondo. Le loro principali contendenti sembrano Manchester United e Siviglia, che però si affronteranno ai quarti, e la cui vincente potrebbe incontrare la Juventus in semifinale. Buone probabilità di portare a casa un trofeo europeo ce l’ha anche la Fiorentina in Conference League. Era dagli anni ’90 che non si viveva questo sogno: la possibilità concreta di avere una squadra italiana in ciascuna delle tre competizioni europee.
Già per questo motivo la campagna internazionale delle squadre di Serie A può considerarsi un successo, comunque andrà a finire. Nelle ultime stagioni la primavera portava con sé i processi al calcio italiano, non la sbornia per l’esaltazione. Era il periodo in cui gli editoriali dei giornali parlavano di fallimento, di delusione, di “dover ripensarsi e ripartire”, di divario tecnico e economico con gli altri campionati. Sullo sfondo, il ricordo nostalgico dei bei tempi in cui la Serie A era l’eccellenza europea. Quest’anno ci sono tre italiane tra le migliori otto d’Europa per la prima volta dal 2006. Allora a giocarsi l’approdo alle semifinali c’erano il Milan di Ancelotti e Kakà, la Juventus di Capello e Del Piero, e l’Inter di Roberto Mancini e Adriano. I bianconeri e i nerazzurri finirono lì il loro percorso, eliminati rispettivamente dall’Arsenal e dal Villarreal. Il Milan invece ebbe la meglio del Lione, ma si fermò a un passo dalla finale di Parigi per mano del Barcellona di Ronaldinho e Giuly, poi campione nella finale ricordata per il gol di Belletti.
Quella stagione fu l’ultima in cui tutte le big della Serie A avevano dichiarate ambizioni sulla coppa dalle grandi orecchie. Tre anni prima c’era stato il famoso Derby della Madonnina in semifinale e poi la prima finale tutta italiana, conclusasi con la vittoria del Milan sulla Juventus a Manchester. Quei tempi di ambizione e supremazia sono finiti non tanto dopo lo scandalo di Calciopoli, ma con l’immobilismo del calcio italiano rispetto a come stava cambiando il calcio e il business attorno a esso. Presto Real Madrid, Barcellona e Bayern Monaco sarebbero diventate corazzate inarrestabili e la ricchezza della Premier League avrebbe portato le squadre inglesi a un nuovo livello di competitività. A sostituire forse proprio le squadre della Serie A ai vertici delle competizioni europee.
All’improvviso il modello di gestione dei presidenti/imprenditori italiani che tanto aveva pagato negli anni ’90 era diventato tanto obsoleto quanto incapace ad adattarsi. I presidenti hanno smesso di investire o addirittura venduto le società; in alcuni casi hanno usato i club come giocattoli o vetrine personali invece di aggiornarsi e adottare metodi di gestione più orientati al lungo termine. Non di rado hanno imputato la minore competitività delle squadre italiane al Financial Fair Play imposto dalla UEFA o all’arrivo dei “nuovi ricchi” (PSG, Manchester City). E così l’Italia è piano piano diventata una periferia del calcio europeo di alto livello, con l’eccezione della Juventus in grado di raggiungere di finali negli anni ’10.
Fino a questa settimana, almeno, quando il Napoli ha liquidato agevolmente l’Eintracht Francoforte, l’Inter ha resistito agli assalti del Porto e il Milan è riuscito a prevalere addirittura su una squadra di Premier League, il Tottenham di Antonio Conte. Il tutto senza subire gol nelle sei partite giocate, facendo tornare in voga il marchio di fabbrica per eccellenza dell’Italia calcistica.
È un grande risultato, che attira gli elogi anche di chi sta fuori. In molti davanti all’inatteso exploit italiano hanno parlato di “segnale”: Ancelotti, per esempio, prima della gara di ritorno contro il Liverpool ha detto che tre italiane qualificate ai quarti «sarebbe importante per il calcio italiano, un segnale forte all’Europa». Donnarumma, interpellato sulla qualificazione della sua ex squadra, ha detto che «il passaggio del turno del Milan è un gran segnale per il calcio italiano». Sulla Gazzetta dello Sport è uscito un articolo, dal titolo abusato e per nulla originale, «L’Italia s’è desta» che elogia con vibrazioni patriottiche la cultura calcistica dello stivale e che invita a non stupirsi della tripla qualificazione in Champions dato che l’Italia è pur sempre sul podio delle nazioni pluri-vincitrici. La storia sembrerebbe ancora avere il suo peso, insomma.
Come dobbiamo giudicare questi risultati, quindi? È il naturale momento di raccolta dopo un lavoro di semina meticoloso e costante? O una coincidenza astrale su cui il movimento si crogiola come in occasione della vittoria azzurra a Euro 2020? Si può dire che siamo davanti a un risveglio del calcio italiano strutturalmente parlando, e che sono superati i tempi in cui a rappresentarci era il singolo exploit di una singola squadra, come negli anni delle buone campagne europee della Juventus? È molto presto per dare una risposta, ma di sicuro stenderci gli elogi da soli non è un gran punto di partenza. Ad esempio, non si può ignorare che il sorteggio degli ottavi sia stato stato piuttosto fortunato. L’Eintracht era indubbiamente l’avversario che tutti desideravano, la presenza più estemporanea tra le migliori 16 assieme al Bruges, nonostante venisse dalla vittoria in Europa League. E infatti il Napoli despotico di quest’anno ha passato il turno senza apparentemente versare una goccia di sudore. L’Inter, dopo un girone di ferro, ha pescato un Porto meno talentuoso di quello affrontato recentemente da Juventus e Milan, senza Luis Diaz. E il Milan ha pescato un confronto favorevole, contro un Tottenham involuto che ha confermato il brutto feeling tra Antonio Conte e le partite infrasettimanale.
Fortuna a parte, l’ottimo lavoro di Napoli, Inter e Milan nelle rispettive partite degli ottavi non si discute. D’altra parte, però, sarebbe altrettanto sbagliato illudersi che il calcio italiano è definitivamente rinato, il gap con gli altri campionati colmato. L’exploit di quest’anno non deve distogliere dal percorso che la Serie A deve ancora compiere per risolvere la sua crisi. Una crisi che appare prima di tutto di idee, di coraggio nelle scelte. Da questo punto di vista Napoli e Milan sono forse le uniche squadre, tra le grandi almeno, ad aver perseguito un’idea di progetto tecnico ambiziosa: in particolare i rossoneri negli ultimi anni hanno costruito la loro rinascita su un progetto tecnico coraggioso, basato su un gioco fresco e acquisti provenienti da mercati tradizionalmente poco battuti dalla Serie A. Tolte Napoli e Milan, però, la programmazione sembra qualcosa di secondario per tutte le altre squadre. La regola aurea che guida i club del nostro campionato sembra quella della prudenza, la minimizzazione del rischio. Una regola che impera nelle sale dirigenziali, che si riflette sulle scelte di progetto tecnico e infine sul gioco delle squadre.
Questo momento di grande esaltazione per i risultati internazionali delle nostre squadre rischia di essere estemporaneo tanto quanto la vittoria degli Azzurri a Wembley nel 2021. Questo perché tendiamo a guardare i risultati senza una visione di lungo termine, esaltandoci per i successi e chiamando all’apocalisse nei momenti negativi, rifugiandoci in entrambi i casi nella contemplazione del passato glorioso. In una nostalgia che proviamo quasi piacere ad assaporare, perché ci consente di incolpare il mondo per la nostra sfortuna. Il risvolto di questo atteggiamento, però, è l’immobilismo, tanto delle società quanto della FIGC. Le nostre squadre sono andate avanti, ma restiamo il campionato dove la Juventus sta attraversando guai giudiziari per la sua condotta societaria degli ultimi anni (e che ancora potrebbe subire punizioni anche dall’Uefa); dove i presidenti delle squadre minori sono molti più interessati ai salotti e a finire sui giornali con le polemiche che a costruire squadre ambiziose.
Forse, in definitiva, non dovremmo dare particolare significato a questa grande campagna italiana in Champions. O per lo meno, non un significato più grande di quello che ha fatto vedere il campo. La Serie A non sta tornando come movimento: ci sono solo tre squadre che sono state molto brave ad arrivare fin qui e che possono andare ancora oltre. Ma l’Italia non è guarita, non ha risolto il gap con gli altri campionati. L’idea del Rinascimento italiano resta solo un’intuizione di marketing di Adidas e Puma per disegnare le divise della Nazionale.
L’Italia non vuole costruire un movimento collettivo come lega o federazione. L’individualismo la fa da padrone, si guarda sempre al proprio orticello. Non si cancella la sensazione di sconforto che stiamo vivendo con un buon risultato, anzi: il rischio è che lo sconforto possa anche aumentare quando ci si renderà conto che davvero è stato tutto una coincidenza. Non è detto che ciò accadrà, ma il timore resta. Più che una ripresa di un movimento, questo sembra il risveglio dal letargo di una marmotta: bisogna vedere se c’è la volontà di uscire dalla tana o di rimettersi a dormire. Ovviamente si spera che Napoli, Milan, Inter, Juventus, Roma e Fiorentina, ma anche Lazio e Atalanta nelle prossime stagioni, smentiscano questa sensazione di sconforto e dimostrino che la presenza di tante squadre italiane nei turni finali delle competizioni europee davvero non è il frutto di una coincidenza. Per il momento non bisogna farne un urrà patriottico: al limite, ciò che possiamo trarre da questi risultati europei è il piacere di esultare per il calcio, uno sport dove Davide e Golia si affrontano spesso, e ogni tanto per la legge del caos Davide vince per davvero.
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