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16 min

- di Damiano Primativo

Amarcord: la tripletta di Adriano in Inter-Porto 2004/05


Il 15 marzo 2005 una delle prestazioni più iconiche del brasiliano.


Chi ha inventato l’espressione “risvegliarsi bruscamente dal sogno” doveva avere in testa il Porto 2004/2005. Se di quel periodo ricordate poco oltre al fatto che avevate un lettore Mp3 e dei brutti jeans dal cavallo bassissimo, vi rinfresco la memoria io. Il 26 maggio 2004 il Porto ha vinto la Champions League contro il Monaco; la sera stessa Mourinho ha lasciato il club, abbandonando la cerimonia di premiazione per paura delle minacce di morte ricevute prima della partita (ufficialmente dovute al suo accordo già raggiunto col Chelsea, ufficiosamente pare c’entrassero alcune avventure del tecnico con mogli di tifosi). Il 1 luglio viene presentato il nuovo allenatore, Luigi Delneri, e su come questo è accaduto servirebbe un pezzo a parte. Per brevità basterà ricordare che Delneri viene da un 5°, un 7° e un 9° posto nelle ultime tre stagioni in Serie A con il Chievo, ed è in quel momento uno degli allenatori emergenti più interessanti d’Europa. Parallelamente la rosa che ha appena vinto la Champions comincia a essere smantellata: il 1 luglio Paulo Ferreira viene ceduto al Chelsea, il 6 luglio Deco al Barcellona e il 27 luglio Ricardo Carvalho sempre al Chelsea. A tamponare le uscite, arrivano il terzino destro neocampione d’Europa con la Grecia Seitaridis, un’aletta ventenne di belle speranze di nome Ricardo Quaresma e la punta Hélder Postiga, già ex del Porto, tornato alla base dopo un solo anno deludente al Tottenham. Il 1 agosto viene ingaggiato Diego Ribas da Cunha, promettente trequartista 19enne del Santos. Il 7 agosto, poi, l’evento simbolo del passaggio del Porto dalla favola al caos: dopo zero partite giocate, Delneri viene lincenziato, e anche su questo servirebbe un pezzo a parte.

Al suo posto viene chiamato Victor Fernandez, esperto allenatore spagnolo che ha avuto il suo momento di gloria a metà anni ’90 sulla panchina del Zaragoza. Fernandez centra il primo trofeo stagionale (la Supercoppa di Portogallo contro il Benfica di Trapattoni) e perde il secondo (la Supercoppa Europea contro il Valencia di Ranieri). È il 27 agosto. Due settimane dopo il Porto ricomincia la Champions League da campione in carica, ed è un altro brusco richiamo alla realtà. Nelle prime tre partite arriva un solo punto, in casa contro il CSKA Mosca; si perde invece a Londra col Chelsea degli ex e poi con un PSG preistorico (lo compongono, tra gli altri: Mario Yepes, Lorik Cana, Pauleta, il tecnico è Vahid Halilhodzic). Va meglio nel girone di ritorno, dove il Porto riesce a vincere le ultime due partite sufficienti a qualificarsi da seconda del girone. Decisivo il 2-1 inflitto al Chelsea degli ex nell’ultima partita in casa.

Cinque giorni dopo il Porto è in Giappone per giocarsi la Coppa Intercontinentale. Contro l’Once Caldas va in scena l’ultima edizione della Coppa nel suo formato classico, e anche una delle edizioni più random di sempre. Come il Porto, i colombiani hanno vinto la Libertadores da totali outsider. Alla fine il Porto vince ai rigori e la gloriosa storia di questa competizione finisce così: Costinha che solleva la Coppa Intercontinentale vera e propria – un trofeo bello e fragile, con quattro pilastrini isolati che sorreggono un pallone dorato – e Jorge Costa la Toyota Cup fornita dallo sponsor. È l’ultima diapositiva di una competizione nata in un’altra epoca, in cui qualcuno aveva pensato che era una buona idea assegnare due coppe.

La stagione del Porto non decolla e a fine gennaio anche Victor Fernandez viene esonerato. Un’altra scelta schizofrenica, a dire il vero: prima di perdere in casa per 1-3 contro il Braga il Porto era primo in classifica, e dopo la sconfitta scivola terzo, ma la classifica è cortissima. La dirigenza comunque vuole il terzo allenatore in una stagione e chiama José Couceiro che viene da un 2004 dalle due facce: retrocesso a maggio con l’Alverca, eroe a dicembre dopo il girone d’andata chiuso al 7° posto con il Vitoria Setubal. Siamo già a febbraio e l’andata degli ottavi di Champions contro l’Inter è dietro l’angolo. A Oporto finisce 1-1, gol di Martins su grande azione di Stankovic sulla sinistra, pareggio di Ricardo Costa che punisce una brutta uscita di Toldo su un cross spiovente dalla fascia.

L’1-1, anzi il pareggio in generale, è un risultato a cui l’Inter di quella stagione è parecchio abituata. L’annata 2004/05 è quella della pareggite, termine che i cronisti sportivi hanno coniato assecondando la loro assoluta passione per le etichette pronte all’uso. A fine campionato l’Inter di Mancini avrà pareggiato 18 partite, quasi un girone intero, un record assurdo che verrà eguagliato solo dall’Empoli nel 2014/15. C’è un contrappasso positivo in tutto questo ed è che l’Inter difficilmente perde. In tutta la stagione perderà solo 4 partite in tutte le competizioni, e la prima sconfitta sarà il derby di Serie A del 27 febbraio. L’Inter che arriva alla partita di ritorno con il Porto del 15 marzo, quindi, è una squadra che fino a quel momento ha perso una sola partita in tutta la stagione.

A San Siro la partita la sblocca subito Adriano al primo pallone toccato. Siamo all’apice della carriera di Adriano e il pallone sembra arrivargli come attratto da un campo magnetico. In questo caso glielo passa addirittura un avversario, Diego, che sbaglia un passaggio banale in orizzontale nella propria trequarti. Adriano riceve ai 35 metri dalla porta, leggermente defilato a sinistra, e subito San Siro è attraversato da un fremito di elettricità, forse prefigurandosi un tiro da quella posizione, la stessa da cui qualche mese prima Adriano ha quasi spaccato la traversa contro il Palermo. Stavolta però Adriano abbassa la testa e punta Jorge Costa davanti a sé. “Punta” è una parola grossa: Adriano si sposta il pallone verso l’area e fa come se Jorge Costa, semplicemente, non esistesse. Quando gli si avvicina, lo scaccia con una manata come fosse una mosca. Come si comportano le statistiche in questi casi? Quello di Adriano può contarsi come un dribbling? Supera l’avversario senza nemmeno cambiare direzione alla corsa, nessuna misura di protezione palla che non sia quella di andare dritto per dritto per la sua strada e di eliminare gli eventuali impacci a spallate. Arrivato dentro l’area, Adriano incrocia il mancino verso il secondo palo. La palla si alza in pallonetto dopo la deviazione in scivolata di Pedro Emanuel, e si insacca in porta scavalcando Vitor Baia. Anche dell’intervento di Pedro Emanuel si potrebbe dire che pare fisicamente inadeguato a frenare la forza di Adriano; che da un punto di vista iconografico quella scivolata rafforza il senso di inarginabilità del tiro di Adriano – un corpo che devia il pallone ma non lo blocca, lo smorza ma non lo frena. C'è ancora un'altra immagine, però, che più di tutte riassume l’impotenza della difesa contro quella forza distruttrice: è Ricardo Costa, il terzo centrale del Porto, rimasto imbrigliato a gambe all’aria nella rete dopo aver tentato disperatamente di spazzare in rovesciata sulla riga di porta.

Dopo il gol Adriano cerca la telecamera, poi si porta il dito sulla bocca per zittire qualcuno. Sembra più arrabbiato che felice per il gol, e durante tutta l’esultanza non sorride mai. Quello del sorriso è sempre stato un tema attraverso cui leggere la carriera di Adriano. Nel libro La caduta dei campioni il pezzo a lui dedicato da Daniele Manusia si intitola proprio così, Il sorriso di Adriano.

Nella stagione 2004/05 Adriano ha già cominciato a perderlo, il suo sorriso. Il 4 agosto di ritorno da Bari dal Trofeo Birra Moretti aveva ricevuto la notizia della morte del padre. Forse in quel momento qualcosa si è rotto in lui. Sul campo comunque non lo ha dato a vedere: nel primo semestre del 2004/05 ha segnato 21 gol in tutte le competizioni e toccato probabilmente il prime della sua carriera. Poi ha rallentato col nuovo anno e per un po’ ha fatto fatica a segnare. Il gol dopo cinque minuti al Porto è il primo su azione dal 4 dicembre: un tempo lungo, in cui Adriano è stato criticato da più parti. Per questo si mette il dito sulla bocca per azzittire le critiche. Adriano poi solleva la maglia e mostra una maglia tecnica con la scritta “Filippesi 4:13”, il versetto di una lettera di San Paolo che recita: «Io posso ogni cosa in colui che mi dà forza». Dopo la partita la Repubblica scrive che è un messaggio «dedicato al padre di Adriano, scomparso la scorsa estate giovanissimo».

Il Porto ci prova all’8’ con un tiro da 40 metri di Maniche, intercettato al limite dell’area da Cambiasso. Nel caso non vi ricordate neanche questo, be’, Maniche e “bombe da fuori” sono praticamente sinonimi. Tra le più notevoli del suo repertorio ci sono: quella in semifinale di Coppa Uefa 2003 alla Lazio, che più che una bomba in verità è un lob abbastanza dolce calciato con l’interno del piede; questa contro il Braga nel 2004, in cui calcia con l’esterno da 40 metri; e poi il tiro a giro dal vertice dell’area contro l’Olanda a Euro 2004, probabilmente la prima immagine che ci viene in mente pensando a Maniche. Altri bei gol di Maniche, da fuori area ma non solo, li trovate a questo video. Nel secondo semestre 2007/08, siccome nel calcio tutto è iperconnesso e accade a random, Maniche andrà all’Inter (1 gol alla Juventus) allargando la congrega piuttosto numerosa di ex reciproci di Inter e Porto (Sergio Conceiçao, Mourinho, Quaresma, Fredy Guarín sono i primi che mi vengono in mente – ora che ci penso potevo introdurre Inter-Porto anche scrivendo di Guarín, di come a un certo punto sia diventato uno dei migliori giocatori della Serie A, al punto che i tifosi dell’Inter una volta fecero saltare il suo trasferimento alla Juve).

Maniche gioca mezzala in un centrocampo a tre, l’altra mezzala è Diego, il regista Costinha. Dietro i tre difensori centrali sono quelli bullizzati in successione da Adriano nel primo gol. Ci sono due esterni a tutta fascia, Nuno Valente a sinistra e Seitaridis a destra. Davanti Benni McCarthy e Pitbull. Chi? Pitbull, all’anagrafe Claudio Mejolaro, una ventina di gol in una settantina di partite nel Gremio 2003-04, prima di arrivare al Porto a gennaio 2005 per sostituire Derlei appena ceduto. È un attaccante brevilineo, rapido di gambe, nei suoi highlights brasiliani c’è qualche bella punizione da molto lontano. Non ci sono informazioni su perché lo chiamino “Pitbull”, ma insomma è piccolo e ha uno stile di gioco piuttosto disperato, e questo mi sembra un indizio.

Benni McCarthy – bellissimo, con le treccine tirate a lucido e un viso efebico, la pelle liscissima – lavora un pallone a centrocampo, destreggiandosi tra Veròn e Mihajlovic, che infine lo stende. Il Porto fa una fatica immane a entrare nell’ultimo terzo di campo e tutto il peso offensivo grava sulle spalle di McCarthy: viene incontro a cucire il gioco, spizza sui palloni lunghi. Ora lo so che vorreste un pezzo su uno degli attaccanti più di culto (sottovalutati?) degli anni ’00, ma non è questa la sede opportuna. McCarthy che l’anno prima ha giocato tutta la Champions esclusa semifinale di ritorno e finale, segnando 26 gol in tutte le competizioni. Benni McCarthy che ha un nome davvero splendido e versatile, perfetto per fare l* calciator*, l* stilista o la popstar, genere indifferente.

L’Inter faticherà pure a vincere, ma è in una delle sue versioni estetiche più raffinate. Juan Sebastian Veròn conduce una transizione nella propria trequarti, arrivato nel cerchio di centrocampo apre di punta esterna verso destra, dove si è allargato Adriano. È una di quelle giocate in cui Veròn sta correndo, e poi improvvisamente serve un passaggio d’esterno senza modificare la coordinazione della sua corsa. È un Veròn a fine carriera, un po’ imbolsito, non dominante nelle conduzioni come negli anni alla Lazio. Gli anni in Inghilterra gli hanno portato in dote un maggiore minimalismo da regista. Il suo pizzetto e il suo nastro sul polpaccio però sono ancora in splendida forma, così come la sua tecnica di tocco. Al primo minuto ha difeso palla vicino alla bandierina e si è ricavato lo spazio per un cross muovendo il pallone quasi solo con la suola. Comunque, adesso la transizione è nei piedi di Adriano, si accentra puntando i difensori davanti a sé, stordendoli con qualche doppio passo, giunto ai venti metri calcia fortissimo. Palla deviata in corner.

Ora circa un minuto di calci lunghi a casaccio che ci ricordano che in fondo siamo nel 2005. L’idea di controllare la partita col pallone non è ancora stata sdoganata, e per certi tratti della partitia (delle partite) il pallone passa più tempo in aria che per terra.

Da un primo piano su Materazzi si nota l’ematoma che ha sotto l’occhio. Il lascito di qualche vecchia battaglia. È il Materazzi pre-Mondiale: basetta larga, capello lungo bagnato. Siamo all’apogeo della moda capelli lunghi + laccetto per i calciatori e quasi tutti in Inter-Porto osservano questa regola. Se ci pensiamo, è l’acconciatura tipo del calciatore-bomber-tronista di quel periodo. L’opposto di oggi, dove la moda impone ai calciatori doppi tagli cortissimi. Un’altra differenza con oggi è che nel 2005 nessun giocatore ha la barba.

La prima conclusione leggermente pericolosa del Porto verso la porta di Toldo è un tiro da lontanissimo di Seitaridis deviato in area da McCarthy. Toldo si arrabbia con i suoi ma in verità ha bloccato senza troppe difficoltà. L’incapacità del Porto di costruire un’azione degna di questo nome è drammatica. Il Porto fa una fatica enorme a segnare: a fine stagione 2004/05 saranno solo due le partite con più di due gol segnati, entrambe sotto la gestione Victor Fernandez. La squadra non ha pattern di gioco definiti e i giocatori sembrano non conoscersi l’un l’altro. Costinha sbaglia un passaggio banale in orizzontale verso Maniche e regala un possesso all’Inter. Troppo spesso i giocatori del Porto si guardano tra loro con le braccia larghe rimproverandosi qualcosa. Se non fosse il 2005 – e se non fosse normale per una squadra non avere paradigmi tattici troppo definiti – diremmo che è una caratteristica di Mourinho quella di andare via da una squadra senza aver piantato qualcosa di futuribile.

L’Inter non è molto più organizzata ma dà la sensazione che i giocatori riescano a connettersi meglio. Non che ci sia un impianto di gioco troppo collettivizzato, specie in fase di possesso: nell’era pre Guardiola le connessioni tra compagni sono basate soprattutto sulla tecnica e sull’improvvisazione individuale, e l’Inter questo è: una squadra che usa l’abbondante talento dei giocatori per creare associazioni. Il centrocampo a 4 Stankovic - Cristiano Zanetti - Cambiasso - Veròn è in linea solo sulla carta. Nella pratica Veròn e Stankovic a turno stringono verso il centro componendo un rombo di grande qualità tecnica. Cambiasso è più regista di Cristiano Zanetti, ha quattro polmoni ma anche un sinistro parecchio delicato. Passata la mezzora prova a lanciare Adriano in profondità, lancio bello ma il brasiliano è in fuorigioco. La strategia dell’Inter, adesso che è in vantaggio, è ridotta all’osso: squadra lunga, i difensori difendono, Adriano è l’unico ad attaccare e tutti provano a lanciargli la palla appena possibile. Ci prova di tanto in tanto – naturalmente – anche Mihajlovic coi suoi lanci deliziosi. Mihajlovic è un altro che, come Veròn, scende in campo e sembra dover fare un certo numero di passaggi d’esterno o non è contento. È nella coda della carriera, ha i capelli radi sulla fronte ma lunghi sulla nuca, coi basettoni larghi. L’aspetto di un Vasco Rossi calcistico che non cede nulla del suo look al tempo che passa. Accanto a lui l’altro centrale è Materazzi; terzino sinistro Javier Zanetti, quello destro Zé Maria.

Senza palla l’Inter si dispone con un 5-4-1: Veròn arretra per controllare Seitaridis, pareggiando l’ampiezza del 3-5-2 del Porto; Cruz arretra per ricomporre la linea di centrocampo a 4. Ogni volta che Adriano ha spazio per correre è un pericolo. Qualcuno dell’Inter, forse Cambiasso, intercetta una punizione del Porto nella propria lunetta e il rimbalzo cade dalle parti di Adriano. Controlla orientato di petto, poi apre un braccio per difendersi da un avversario e quando quello ci sbatte contro sembra esplodere come se avesse toccato una mina antiuomo. La facilità con cui Adriano domina fisicamente i suoi avversari e ne espone tutta la goffaggine ricorda le scazzottate comiche di Bud Spencer. Adriano avanza, elude un secondo avversario spostando palla verso sinistra, poi si difende dal ritorno di un terzo usando ancora il corpo. San Siro rumoreggia perché ha già visto un gol di Adriano cominciare con una discesa come quella: il gol all’Udinese a inizio stagione. Adriano qui però decide di servire Veròn che sta salendo a sinistra, e lo serve con un passaggio finissimo per idea ed esecuzione, un passaggio di punta esterna, che si infila nello spazio tra due difensori del Porto. Veròn non è velocissimo e si fa chiudere in fallo laterale.

Zé Maria subisce fallo e viene inquadrato in primo piano. Ha il numero 13 che dopo di lui andrà a un altro terzino destro brasiliano, Maicon. Zé Maria è uno di quei difensori che faceva comodo prendere al Fantacalcio in quegli anni (a volte giocava pure esterno di centrocampo). Ha i capelli di pochi millimetri e ossigenati, e l’aspetto zen di un guru che sa ascoltare la natura. Nell’Italia a cavallo tra il 2004 e il 2005 qualcuno potrebbe forse scambiarlo per il maestro di vita Do Nascimento. Prima della fine del primo tempo c’è ancora tempo per due belle aperture di Veròn: un cambio campo da sinistra verso destra, molto elegante, che prende un particolare giro esterno perché Veròn scivola mentre calcia; l’altro invece è un’imbucata in verticale, d’esterno, che però viene intercettata da un difensore prima che possa raggiungere Cruz.

Il secondo tempo comincia con l’ingresso di Quaresma per Pitbull. Quaresma indossa la numero 10 e da come la regia lo va a cercare si capisce che è uno con molto hype intorno. Ha i tratti del viso morbidi e tondeggianti come un putto rinascimentale. I capelli unti e tenuti col laccetto invece urlano prepotentemente DUEMILAEQUATTRO. Subito dopo si vede Bobo Vieri in panchina. È nella sua versione ormai decadente, coi capelli sempre più riccioli e le linee del viso raggrinzite. In quella stagione è ormai scivolato ultimo nelle gerarchie di Mancini, superato da Adriano, Martins, Cruz. L’anno dopo farà il grande tradimento e andrà al Milan. Intanto l’ingresso di Quaresma ha dato uno slancio nuovo alla manovra del Porto: i primi quattro tiri del secondo tempo sono suoi, tutti e quattro finiti sul fondo però. L’ultimo è una trivela, il suo marchio, la sua firma.

Quaresma è un’ala classica che ha bisogno di partire vicino alla riga laterale e puntare l’avversario davanti a sé. Il Porto però è una squadra impostata per giocare senza ali e questo crea qualche problema di inserimento a Quaresma. Spesso è costretto a giocare da seconda punta, oppure di partire dalla panchina ed entrare quando gli spazi si dilatano nei secondi tempi. Così aveva segnato il gol dell’1-2 al Valencia in Supercoppa Europea, entrando nel secondo tempo e segnando con un gran destro dal cuore della trequarti.

Una punizione di McCarthy finisce dritta tra le braccia di Toldo: il Porto ha tirato di più e creato più pericoli in 10 minuti del secondo tempo che in tutto il primo. Eppure la prima grande occasione capita all’Inter, una grande giocata di Cristiano Zanetti a centrocampo (sombrero secco su un avversario) seguita da un filtrante sulla corsa di Adriano, che però sbaglia l’assist che avrebbe messo Cruz davanti al portiere. Il Porto ormai è lunghissimo e il centrocampo non collabora più nella fase di non possesso. L’imprecisione in fase di costruzione, poi, autosabota il Porto esponendolo a transizioni negative con tutta la squadra sopra la linea della palla. Su una di queste l’Inter va vicinissima al raddoppio: Veròn intercetta a centrocampo, scambia con Cruz e attacca la profondità per chiudere il triangolo, poi mette dentro per Adriano. Palla troppo arretrata.

Il raddoppio dell’Inter arriva presto. Il centrocampo del Porto ancora non fa filtro, e Cruz ancora si muove da rifinitore. Sulla trequarti fa una finezza: con una finta di tiro fa uscire dalla posizione Ricardo Costa, poi apre il piatto e serve Adriano che si è inserito nello spazio liberato. Il brasiliano controlla con l’esterno mancino, poi calcia con la punta prendendo Vitor Baia in controtempo. Se il primo gol era soprattutto di supremazia fisica questo è di supremazia tecnica. Un gol un po’ simile a quello che segnerà Ibrahimovic in un Roma-Juventus della stagione successiva, per il tocco di punta che fa alzare il pallone all’incrocio, sul palo del portiere.

Helder Postiga entra per Ricardo Costa e il Porto passa al 4-3-3: Quaresma ala destra, Postiga al centro e McCarthy ala sinistra. Proprio su quel lato McCarthy tenta un tiro da fuori dopo aver ubriacato di finte Ze Maria, deviato in angolo da Materazzi. Proprio sul corner arriva il 2-1 di Jorge Costa, dopo una respinta un po’ goffa e in ogni caso troppo corta di Toldo. Helder Postiga vuole portare il pallone a centrocampo in fretta ma Cambiasso lo ostacola. I due bisticciano per un po’. Un minuto dopo Stankovic ha l’occasione per chiudere la qualificazione: a servirlo Veròn, ancora con un’apertura bellissima da sinistra a destra, da esterno a esterno. Stankovic la mette giù bene, tenendosi la palla abbastanza lontana per poter calciare comodamente, poi incrocia il diagonale ma lo incrocia troppo e la palla esce di almeno tre metri accanto al palo lontano.

C’è una fase di gioco confusa di palle contese, distanze lunghe, pressioni dell’Inter sul portatore e lanci a casaccio. Quando il pallone si ferma entra Martins per sostituire Julio “El Jardinero” Cruz. È stata una partita di sacrificio e di fatica, quella del Jardinero, che ha un taglio di capelli demodé e l’aria del gregario impressa sul volto. Una grafica in sovraimpressione mostra il conto dei fuorigiochi: 11-1 per l’Inter. È il risultato della difesa altissima del Porto, e della strategia dell’Inter di lanciare in profondità Adriano – e adesso anche Martins – appena possibile.

Il Porto solo per modo di dire ha alzato il baricentro: in verità non tira in porta dal gol di Jorge Costa, né riesce ad avere fasi di possesso prolungate, men che meno nella trequarti offensiva. La difesa sempre attenta e aggressiva dell’Inter, poi, rende inutile qualunque tentativo di lanciare in profondità gli attaccanti con passaggi lunghi. Il Porto però non ha altri strumenti tecnici per imbastire la manovra e continua a lanciare, consegnando possessi su possessi all’Inter. In una di queste situazioni Zanetti Javier ha l’occasione per far crollare lo stadio. Sfila all’ultimo un pallone che sta per entrare nella disponibilità di Diego e parte in una delle sue progressioni da quattrocentometrista che ne hanno alimentato il mito. Tutto solo davanti al portiere decide di dribblarlo invece di passare a Martins alla sua destra (Pippo Inzaghi – Barone ante litteram), infine il suo tiro a colpo sicuro di mancino viene spazzato sulla linea da Pedro Emanuel.

Sull’azione successiva scopriamo che è entrato Pepe (proprio lui) al posto di Pedro Emanuel. Pepe ha 22 anni appena compiuti e veste uno strano numero 7. Nell’Inter entra Kily Gonzalez per Stankovic. La partita si avvicina alla fine e l’Inter comincia a giocare anche col cronometro. Adriano la tiene vicino alla bandierina, fa qualche trick a palla ferma per disorientare Nuno Valente, che alla fine lo stende. Lo aiuta a rialzarsi, trovandosi da quelle parti per fare riscaldamento, Andy van der Meyde.

All’87’ arriva il terzo gol di Adriano. Veròn – sempre lui – lo lancia in profondità sul centro destra. Adriano entra in area, rientra sul sinistro eludendo Nuno Valente e calcia un rasoterra di mancino sul secondo palo. È incredibile come per tutta la partita Adriano abbia sparso intorno a sé un velo di tensione a ogni tocco di palla. Di fronte a un Porto tragicamente sterile, per cui creare occasioni è un esercizio cervellotico come risolvere un cubo di Rubik, la semplicità con cui crea pericoli Adriano è quasi offensiva. Il topos del singolo fuoriclasse che piega da solo i destini di una partita è forse abusato, ma è l’immagine più adeguata a descrivere ciò ha appena fatto Adriano. Adriano che è all’apogeo della sua carriera, e che solo pochi mesi prima si è piazzato 6° al Pallone d’Oro. Adriano che è in quella fase in cui a ogni tocco sembra esprimere una potenza inarginabile; a ogni conduzione produrre delle scosse di terremoto che tolgono l’equilibrio e l’orientamento agli avversari. Ogni volta che c’è Adriano nei paraggi, i difensori sembrano sempre un po’ più goffi, sempre un po’ più instabili come cowboy ubriachi alle prese col toro meccanico.

Solo adesso sul viso di Adriano compare un leggero sorriso. Nei minuti che restano non succede più nulla, solo una punizione dal limite dell’area che Ze Maria forse ruba a Mihajlovic (che dopo sembra imbruttire a distanza il compagno) e una giocata di van der Meyde (entrato per Veròn) sulla destra con cross annesso.

L’urna di Nyon stabilisce che l’avversario dell’Inter ai quarti sarà il Milan. E anche stavolta, come due anni prima in semifinale, saranno i rossoneri a spuntarla. La partita di ritorno passerà alla storia come “Derby della vergogna”, quello del gol annullato a Cambiasso, del fumogeno che colpisce Dida, e infine della sospensione al 72’ con sconfitta a tavolino. Adriano per problemi fisici salta l’andata e gioca solo 50’ del ritorno. Prima della fine della stagione segnerà solo altri 3 gol, 1 in campionato e 2 nella finale di andata di Coppa Italia contro la Roma. In totale fanno 28 gol stagionali, un apice realizzativo che Adriano non toccherà più.


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Damiano Primativo (1992) è salentino e studente di Architettura. È nato il 23 dicembre come Morgan, Carla Bruni e Vicente Del Bosque.

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