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- di Marco Bellinazzo

Matteo Berrettini, lo sconforto e la speranza


A 26 anni, Matteo Berrettini è già alle prese con un fisico più fragile del previsto.


«Ci sono stati momenti quest'anno in cui ho detto: "mi fermo, mi fermo per sempre"». È una domenica pomeriggio di fine ottobre, siamo a Napoli, al termine di uno dei tornei più surreali della storia recente del tennis. In una sala stampa dal gusto un po' rustico è seduto Matteo Berrettini, leggermente stravaccato. Vicino a lui due sedie bianche, vuote, che sembrano uscite da quei salotti kitsch che richiamano vagamente l'estetica anni '80. Berrettini ha appena perso in due set la finale contro Musetti, vinto dal dolore a un piede oltre che dal suo avversario. Il suo sorriso gentile è una maschera elegante davanti agli occhi tristi. È difficile riuscire a leggere che cosa nasconda veramente. Ed è ancora più difficile non entrare in empatia con lui quando, senza scomporsi, tira un missile più forte di quei servizi che lo hanno lanciato tra i migliori del mondo.

«Ovviamente è una cosa che poi è passata, ma lo sconforto porta a chiederti se sei fatto per fare sport» aggiunge. Lo sconforto. È questo che prova mentre tenta di convincere gli altri che va tutto bene, il peggio è passato, che adesso guarda al futuro.

No, non va tutto bene. Ma per andare avanti nella storia dobbiamo prima fare un passo indietro e, cercando di riannodare il filo in questo labirinto di dolore per scorgerne appena l'uscita, possiamo individuare un momento che ha luogo sempre in Italia.

A Torino, nel novembre del 2021, si tiene la prima edizione italiana delle ATP Finals, dopo le 12 consecutive alla O2 Arena di Londra. Berrettini si è guadagnato un posto tra gli otto «maestri» dopo una stagione in cui ha vinto due titoli e giocato la sua prima finale Slam, persa contro il tennis sublime di Novak Djokovic. Arriva alle Finals da numero 7 del ranking mondiale, e lo fa nel suo paese. È il finale perfetto per un anno eccezionale: la festa per la meritata incoronazione al migliore tennista italiano.

Eppure, neanche un'ora dopo vediamo Berrettini in lacrime, sotto le grinfie del fisioterapista che non può evitarne il ritiro durante la gara d'esordio. La musica è finita, gli amici se ne vanno, tutto si dissolve così, da un momento all'altro. In poco più di un set perso al tiebreak contro Zverev. L’infortunio è agli addominali, giocare è impossibile.

Matteo Berrettini riceve le cure del fisioterapista durante il match con Zverev alle ATP Finals 2021.
Berrettini in lacrime riceve le cure del fisioterapista.

«È difficile trovare qualcosa di positivo. Forse è il giorno peggiore che io abbia trascorso su un campo da tennis in tutta la mia vita» dice Berrettini poco dopo, mentre tenta invano di nascondere le lacrime sotto la visiera del suo cappellino. Non c'è il sorriso, non c'è lo sguardo gentile, nessun messaggio di speranza, solo una visibile e atroce frustrazione. «Fa male perché è una cosa che mi ero meritato e mi sta sfuggendo di mano senza poterci fare nulla». Pochi atleti veicolano con le parole i propri stati d'animo come Matteo Berrettini. Basta ascoltarlo per provare la sua stessa fredda disillusione. Si legge nella sua voce rotta e nel suo sguardo basso quanto il colpo sia duro per lui ma, dopo una stagione simile, la speranza di tutti è che sia solo una dolorosa battuta di arresto. Solo un'occasione persa, ma che di certo tornerà a presentarsi.

Invece è l'inizio del calvario: dopo aver esordito in stagione raggiungendo le semifinali all'Australian Open, lo stesso infortunio agli addominali torna a farsi sentire ad Acapulco, in Messico, nel match di primo turno contro Tommy Paul. Altro ritiro, e appuntamento al Sunshine Double, dove potrà ritrovare le superfici veloci che predilige, per recuperare i punti persi. Ma le tessere del domino hanno cominciato a cadere, una dopo l'altra, e sul cemento americano le cattive sorprese continuano a tormentarlo: risolto il problema agli addominali, è la mano destra a fermare Matteo. Dopo la sconfitta agli ottavi a Indian Wells, Miami non comincia nemmeno per lui: la mano va operata.

Sembra che il suo corpo non riesca più a reggere la sua forza, che tutta quell'esplosività che lo aveva reso uno dei giocatori migliori del circuito sia diventata in qualche modo insostenibile. La classica storia di un tennista sgretolato da se stesso. È fine marzo 2022 e fino a giugno non si vedrà più in campo.

Torna sull'erba, il suo habitat naturale, che gli regala subito due trofei consecutivi (Stoccarda e Queen's), il ruggito di un leone ferito, a rassicurare tutti sul fatto che c'è, è vivo e lotta con noi. E che è pronto a tornare a vestire quel completino bianco con il quale ha raggiunto il risultato più prestigioso in carriera: la finale di Wimbledon. Anzi, no, perché questa volta è il Covid a negargli l'accesso all'All England Club, il posto dove in assoluto ha potuto sentirsi più grande. «Ho il cuore spezzato nell'annunciare che devo ritirarmi da Wimbledon» scrive sui social «non ho parole per descrivere le sensazioni negative in questo momento. Il sogno è finito per quest'anno, ma tornerò più forte». Un messaggio asciutto, composto, ma sembra di vederlo mentre scrive le ennesime parole di auto conforto, con quella faccia leggermente contrita a dissimulare una tristezza sempre un po' più grande. Questa volta stava bene, ma deve fermarsi di nuovo. La stagione avanza, e le partite giocate cominciano a diventare molto poche.

Tra alti e bassi torna a raggiungere una finale – sulla terra svizzera di Gstaad – e un quarto agli US Open, ma colleziona anche un paio di sconfitte al primo turno nei tornei nordamericani. Tutto accettabile, tutto comprensibile, purché il fisico non lo molli di nuovo. Fino a quella settimana di fine ottobre, a Napoli, dove stavolta è il piede sinistro a presentare un conto salato e a far crollare Berrettini, anche emotivamente. Per una volta – e solo per un attimo – Berrettini si scompone, perde un po' del suo aplomb e dei suoi modi timidi e gentili, è seduto scomposto. Si mostra umano, fragile come il suo fisico, risultando straordinariamente elegante proprio nel suo non preoccuparsi più di esserlo. È stufo di ritirarsi, aveva ammesso il giorno prima, e per questo non lo ha fatto.

Contro Musetti ha giocato nonostante sentisse dolore, ma ancora una volta il suo corpo gli sta mandando un segnale chiaro. Si affossa sulla sua sedia, abbozza un sorriso un po' nervoso e ti sussurra tutto il suo sconforto, come fosse in famiglia, come se cercasse aiuto o comprensione solo in una frase, solo per un frangente. Poi si ricompone in un attimo e torna a dire che fa tutto parte dello sport, che è fortunato a fare quello che fa ed è felice della sua carriera. Ci crediamo, è lucido mentre parla, ma traspare come non mai lo scoramento di un uomo stanco di una stanchezza che non è fisica, perché di partite ne sta giocando troppo poche. Ed è stanco proprio di non poter giocare, di doversi fermare, di dover sempre ricominciare.

Matteo Berrettini è un tennista di 26 anni, l'età del culmine della carriera di uno sportivo, e ha un gioco moderno e aggressivo, del quale un servizio possente e un drittone esplosivo sono le indiscusse colonne portanti. Gioca meglio su superfici veloci, ma ha ottenuto risultati notevoli anche sulla terra rossa e, per un tempo considerevole, ha occupato la top 10 della classifica mondiale, rappresentando il tennista di punta di un movimento azzurro che negli ultimi anni ha ritrovato uno smalto che mancava da tempo immemore, anche grazie ai suoi picchi prestazionali e di risultati. È anche esploso relativamente tardi, ma tra il 2019 e il 2021 si è affermato stabilmente tra i top mondiali, forse ancora un gradino sotto quelle entità semidivine che hanno cannibalizzato un'intera epoca, ma comunque al punto di poter sedersi al tavolo dei migliori tra gli umani.

Matteo Berrettini contro il tempo, dunque. Stritolato in una morsa continua tra l'affermazione tardiva e le difficoltà premature. Nessuno come Berrettini oggi potrebbe testimoniare la relatività del tempo. Quanto è durato in eterno il peregrinare nei Challenger, la difficoltà ad arrivare tra i primi del mondo? E quanto ancora è stato istantanea l'estasi, la finale di Wimbledon, il debutto alle Finals?

Durante la stagione indubbiamente più difficile della sua carriera tennistica ha vinto due tornei, ha perso altrettante finali e ha raggiunto una semifinale Slam, chiudendo il 2022 al sedicesimo posto nella classifica mondiale: numeri importanti che forse servono soprattutto ad aumentare in lui un senso di rimpianto. Cosa potrebbe raggiungere se riuscisse a trovare un po’ di continuità in campo?

La speranza è che il 2023 sia l’anno per scoprirlo e i primi test in United Cup sono come un raggio di luce dopo una lunga notte. Berrettini affronta quattro avversari di alta classifica, mettendo insieme due incoraggianti vittorie (contro Ruud e Hurkacz) e due sconfitte combattute (per mano di Tsitsipas e Fritz), ma soprattutto mostra di stare bene in campo, di reggere il ritmo dei migliori, di essere pronto per la nuova stagione. Con le migliori intenzioni si va a Melbourne, per il primo Slam, dove il sorteggio non è il più morbido: al primo turno c'è un tennista logoro ma astuto come Andy Murray. L’incontro, come prevedibile, è un estenuante psicodramma di 5 set, una di quelle maratone ondivaghe che stancano solo a guardarle. Il contesto ideale per esaltare Sir Andy, che infatti la spunta al super tiebreak del quinto, salvando anche un match point. L’immagine di Murray esausto e trionfante che apre i palmi al cielo dopo 5 ore di tennis assume contorni epici e sarebbe persino commovente, se solo dall’altra parte della rete non ci fosse Matteo Berrettini.

Il match point fallito da Berrettini contro Murray.

La sconfitta brucia, soprattutto per come arriva, ma stavolta il problema non sembra la tenuta fisica, quanto forse la forza mentale nel chiudere i punti importanti. È emblematico quel match point sparato clamorosamente al centro della rete con il rovescio, nel quinto set, sliding door devastante di una partita che rischia di restare in testa. «Tennis is such a brutal sport» scrive José Morgado su Twitter mostrando l’errore di Berrettini che avrebbe cambiato l’esito della partita, e forse anche la stagione.

Tutta l'inattività dell'ultimo anno gli ha tolto un pizzico di quella forza mentale che è sempre stata uno dei suoi punti di forza? Forse giocare meno ti leva quell’abitudine ad essere spietato quando questo “brutal sport” ti chiede di esserlo. «È solo tennis» rassicura Berrettini, che pare subito pronto a riscattarsi. Ma quando? Le settimane passano, i tabelloni vengono sorteggiati, ma in nessun torneo si legge il suo nome, né i più rustici sudamericani sul rosso, né i più appariscenti Doha e Dubai su cemento. Perché non gioca? Perché non torna in campo? Il silenzio non permette a nessuno di capire le ragioni di questo letargo inquietante.

«Mi sembra che si stia dedicando più alla pubblicità che al tennis» lo bacchetta un lapidario Nicola Pietrangeli, che non è certo passato alla storia per i suoi giudizi misurati, alludendo poi ad un malizioso paragone con Adriano Panatta. Difficile capire se questa possa davvero essere considerata una chiave di lettura, anche se di sicuro rappresenta un punto di vista differente. Difficile anche che questo possa bastare per spiegare uno straziante anno e mezzo di problemi sempre diversi, che hanno regolarmente interrotto la sua presenza in campo.

Ad Acapulco Berrettini è triste, un po’ abbattuto. È stato fermo per un mese e mezzo ma, dopo appena un paio di partite di tregua, torna di nuovo a sentire dolore. Questa volta è il polpaccio a limitarne gli spostamenti, lasciandolo immobile contro un tonico e glaciale Holger Rune, il ritratto spavaldo e un po' arrogante di una nuova generazione che vuole mangiarsi tutto il tennis. L’ultimo punto prima del ritiro è la perfetta fotografia del suo stato fisico, e forse anche emotivo.

Rune serve una seconda al corpo nemmeno troppo lavorata, contro la quale Matteo Berrettini organizza una risposta un po’ raffazzonata che casca fiacca e centrale davanti a Rune. Il dritto del danese non è particolarmente angolato ma cade come una sentenza sul torneo dell’italiano. Matteo non ci prova nemmeno, abbassa la testa consapevole del suo destino. Ci risiamo. Rune gli lascia appena 7 punti, un totale impietoso, prima di vederlo uscire ricoperto dai fischi inclementi del pubblico messicano. Lui scuote la testa mentre cammina sconsolato verso l'uscita dal campo: quei fischi lo stanno uccidendo. Questa volta basta un gesto per farci entrare nel suo sconforto. Questa volta aumentano le domande e non bastano le risposte.

Quante volte ancora dovrà raccogliere le sue energie e ricomporsi, per spendere parole rassicuranti per se stesso? Quante volte ancora dovrà rimettere insieme i pezzi, dopo la delusione di sentirsi di nuovo trattenuto da qualcosa che non può controllare?

Oggi è difficile dire dove stia andando la carriera di Matteo Berrettini, capire quali siano le prospettive di un atleta che, a 26 anni, sembra già doversi dosare per arrivare pronto agli appuntamenti importanti, non reggere lo sforzo di uno sport che passa veloce, che se non tieni il suo passo frenetico ti dimentica.

«Ho temuto il peggio. Mi sono fermato in tempo. Andrò a Indian Wells con la speranza di poter giocare» ha detto Berrettini. La speranza come unico antidoto allo sconforto, quindi. Ai pezzi del suo corpo che sembrano essersi messi d'accordo per crollare uno dopo l'altro. Per Berrettini l'unica cosa che conta realmente è tornare a giocare. In questi anni ci ha mostrato che il suo tennis è capace di cose grandi. Per questo non possiamo far altro che aspettare di vederlo di nuovo in campo, magari martellando gli avversari con il suo servizio inscalfibile. Finora, ogni volta che ci siamo sforzati a credere in lui, ci siamo sorpresi delle vette in cui ci siamo stati catapultati, del livello su cui si è stabilizzato. Questa volta è più arduo, ma in fondo cosa ci costa tornare a credere in Matteo Berrettini?


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Nato a Biella il 30/07/93, laureato in Matematica per motivi che non riesco a ricordare. Juventino di nascita, vivo malissimo anche guardando le partite dell’Arsenal, di Roger Federer e di qualunque squadra io scelga a Football Manager (unico sport che ho realmente praticato). Fanciullescamente infatuato di Thierry Henry, sedotto in età consapevole da Massimiliano Allegri, sempiternamente devoto a Noel Gallagher.

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