La Roma, la Juventus, la noia
Il gol di Mancini ha sbloccato una partita stagnante.
Al 41' del primo tempo Roma e Juventus stanno giocando a qualcosa che ricorda solo vagamente le partite di calcio. Dieci uomini di movimento per parte, due portieri, e la palla che viaggia attraverso i corpi grondanti di sudore. A differenza dello sport a cui siamo abituati, però, nessuna delle due squadre vuole controllare il pallone, appena una ne entra in possesso finisce per buttarlo in fallo laterale o restituirlo all'avversario. Sconsolato, in telecronaca Massimo Ambrosini commenta un cross vago e impreciso di Kostic: «Sembra essere il giocatore più in grado di riuscire a saltare l'uomo e creare qualcosa. Quantomeno ha buttato 3 o 4 palloni in area...». Lo specchio di un immobilismo permanente in cui neanche le giocate ricercate di Dybala e Di Maria scuotono la pesante cappa di stagnazione che pesa sull'Olimpico.
Per José Mourinho e Massimiliano Allegri non è niente di nuovo. Li sentiamo spesso provare ad ammonirci sulla forza oscura e irrazionale alla base del calcio, catechizzare sulla futilità degli schemi rispetto agli interpreti. Nella loro visione il controllo della logica a poco serve se non è associato alla sensibilità artistica dei giocatori che scendono in campo, ed è da questo assunto che dobbiamo partire per parlare della noia esistenziale che Roma-Juventus ha causato in molti spettatori psicologicamente non abituati. Se l'allenatore non ha potere sull'estro dei giocatori offensivi – ammantati in questa prospettiva di un talento che allo stesso tempo diventa dono e maledizione –, infatti, è solo attraverso una fase difensiva rigida ed estenuante che la partita può essere controllata tatticamente.
«Quando sei consapevole dei tuoi limiti, giochi per nasconderli e portare a casa il risultato» ha detto Mourinho a fine partita. Il calcio come atto di furbizia, quindi, che si basa sulla capacità di infastidire l'avversario, di contenere i propri errori.
La mossa di Mourinho
La Roma arrivava alla partita dopo la grigia prestazione di Cremona, dove aveva regalato ai lombardi la prima vittoria stagionale. Schierata con il solito 3-4-1-2 e un blocco difensivo medio-basso, la formazione titolare prevedeva poche novità. A parte l'attacco, dove nonostante il ballottaggio Abraham-Belotti, Mourinho ha deciso di rinunciare a entrambi, posizionando Wijnaldum – alla seconda da titolare – in coppia con Dybala.
Una decisione semplicemente strana. È bastato guardare i primi minuti per capire che ci trovavamo di fronte all'applicazione pratica della visione pessimistica del calcio di cui parlavamo prima. A dispetto della loro qualità tecnica, del mancino etereo in conclusione di Dybala e del senso geometrico per il gioco di Wijnaldum, gli attaccanti della Roma hanno assunto compiti iper-difensivi. Il loro ruolo era chiaro, dovevano cioè sporcare le linee di passaggio ai primi costruttori di gioco della Juventus, ovvero i due braccetti della difesa a tre – Danilo e Alex Sandro.
In questo sistema orientato sull'uomo, Pellegrini – sulla carta il trequartista della Roma – aveva come riferimento Locatelli, mentre Bremer era lasciato libero di impostare. Un'idea che ha funzionato – Bremer è l'uomo della Juve con meno qualità in impostazione. Senza palla il capitano della Roma ha brillato nelle letture e, secondo Sofascore, ha sì tentato due dribbling e calciato una sola volta verso la porta, ma ha vinto cinque contrasti a terra. Dall'altro lato Bremer ha toccato 74 volte il pallone, ma il suo gioco lineare non ha aiutato la Juve a cercare una soluzione a quegli spazi intasati. Bremer ha chiuso la partita con un lancio lungo sbagliato.
La Juventus, schierata ancora da Allegri con il 3-5-1-1 in cui Di Maria agiva da trequartista alle spalle di Vlahovic, si crogiola su ritmi bassi e nel primo tempo ha dato la sensazione di riuscire a manipolare meglio il flow della partita. Se al centro non poteva penetrare, visti gli ulteriori raddoppi di Matic e Cristante e dei braccetti difensivi della Roma, era sugli esterni che poteva giocarsi gli unici duelli individuali. Kostic soprattutto ha minato le certezze di Zalewski, adattato a destra e sempre in grande difficoltà in marcatura.
Oltre a un paio di spunti in dribbling, però, Kostic ha potuto poco: secondo i dati di Sofascore, al serbo sono riusciti 5 dribbling su 6 tentati, ma nessuno dei 5 cross effettuati ha trovato Vlahovic o Di Maria. La Juventus ha fatto fatica ad occupare l'area nel primo tempo e non è un caso se l'unica volta in cui un centrocampista ha accompagnato l'azione con un taglio profondo sul secondo palo ne è nato il palo di Rabiot. Era il 43' e ci trovavamo di fronte alla prima vera occasione della partita, dopo qualche sporadica ripartenza della Roma e un tiro da fuori di Dybala parato da Szczesny.
Ancora una volta Zalewski si fa sorprendere alle spalle, ma i tempi di inserimento di Rabiot sono difficilmente marcabili. Grande riflesso di Rui Patricio, che devia sul palo.
La Juve ha fatto la Juve
Anche nel secondo tempo il copione della partita è scivolato secondo il previsto. La Juventus ha tenuto la gestione del pallone – ha chiuso con 563 passaggi contro i 389 della Roma – ma come "vuole" Allegri la sua produzione offensiva si è rivelata estemporanea. Dopo il gol di Mancini, di cui parleremo tra poco, la Juve ha colpito altri due pali: un colpo di testa di Mancini stesso e una punizione dalla sinistra di Cuadrado. È paradossale: la squadra indottrinata a una visione episodica del calcio, in cui le azioni non sono alimentate da una corrente continua ma espressione di giocate individuali, che perde perché non riesce a canalizzare il fiume delle occasioni a proprio favore.
La Roma non ha fatto niente di elaborato per vincere la partita. Si è accontentata di un piano reattivo, e le è bastato alzare il pressing una volta per creare i presupposti della fucilata di Mancini. Al 52' la Juve batte un rinvio dal fondo corto. Szczesny appoggia sul centro-destra a Bremer – spostato lì dall'ingresso di Bonucci per Alex Sandro, con Danilo scivolato a sinistra. Bremer viene aggredito da Wijnaldum e non vedendo linee di passaggio libere decide di rinviare lungo.
In Roma-Juventus c'è sempre un predominio di difensori sugli attaccanti, però, e la palla cade nella zona di Ibanez, che la controlla e la gira a Cristante. Dopo essersi appoggiato su Spinazzola, il centrocampista della Roma ha lo spazio per servire Mancini a destra.
Certo è un gol casuale. Potremmo dire che i centrocampisti della Juventus sbagliano a collassare sul lato palla lasciando tutto il tempo a Mancini per coordinarsi, o che Rabiot esce troppo tardi. La verità è che la Juve ha lasciato calciare il tiratore meno pericoloso della Roma e alla fine è stata davvero condannata da un episodio quasi irreplicabile.
Con l'ingresso di Pogba e Chiesa, inserito a sinistra al posto di Kostic con Di Maria allargato a destra, la qualità in rifinitura è migliorata e le occasioni per ribaltarla ci sono state. Anche all'ultimo secondo, quando Danilo calcia centrale il pallone del pareggio dal cuore dell'area.
Nel finale i dribbling di Chiesa sono stati un fattore offensivo per la Juventus.
Basta quindi davvero così poco per vincere una partita di calcio? Alzarsi in pressing una sola volta e passare il resto nella propria area sperando che gli avversari non siano in giornata? Non abbiamo la controprova, ma è probabile che avremmo assistito alla stessa partita se a sbloccarla fosse stata la Juventus. Da questo punto di vista, però, è inevitabile sottolineare la continua improvvisazione della Juventus con il pallone, il suo sistema sciatto e vetusto. Anche nei momenti migliori, come nel caso dei due pali a pochi minuti di distanza, la seconda Juventus di Allegri non possiede il controllo fideistico e irrazionale degli eventi. Sembra piuttosto subirli.
Una noia curiosa
I sette minuti di recupero sono stati avanguardia e conservatorismo insieme. Una partita giocata con il pallone che non ha quasi più toccato terra, in cui anche il minimo gesto costruito con la tecnica – come il tiro da fuori di Chiesa finito altissimo – assomigliava a una provocazione. In fondo deve esserci un motivo se Allegri ha preferito non far giocare Chiesa dal primo minuto insieme a Di Maria. Ancora una volta il talento individuale, che a parole Allegri ci tiene costantemente a evocare quando ci spiega la sua visione del calcio, svilito da un rigore tattico opprimente.
A un certo punto il bordocampista di Dazn ha sottolineato la rabbia di Mourinho verso i suoi difensori perché erano andati a saltare su un calcio d'angolo. La Juve, al contrario, aveva iniziato ad attaccare con Bremer e Bonucci ai lati di Vlahovic per sfruttare i duelli aerei. D'un tratto non capivamo cosa fosse reale e cosa no; se tutte le partite sono in verità così annichilenti, ricoperte da una noia a tratti persino curiosa – alcuni esempi: la folle espulsione di Kean dopo settantuno secondi dal suo ingresso in campo; il passaggio di Abraham intercettato involontariamente da Cristante, che pur non essendo pressato butta il pallone più lontano possibile come se fosse infuocato e lui ricoperto di napalm, mentre il vice allenatore della Roma Salvatore Foti entra in campo saltando dall'adrenalina per rimproverarlo.
Juventus e Roma ci hanno mostrato uno spettacolo atrocemente reale. Se una ci ha rivelato un dominio tecnico insopprimibile ma disordinato, pieno di contraddizioni, l'altra ha recitato lo spettacolo jokeristico che avrà fatto impazzire Mourinho dalla gioia. La Roma ha giocato sempre sul filo della crisi di nervi, ma lo ha fatto molto bene, con una struttura collettiva anti-estetica e reattiva che valorizzava i singoli interpreti.
Quando gli attaccanti hanno il dovere morale di pensare prima alla distruzione che alla creazione, può capitare che il momento decisivo passi tra i piedi di un difensore, no? Magari è questo che ha scritto Mourinho ad Allegri in uno dei messaggi che ha rivelato di scambiarsi con l'allenatore della Juve. O forse si sono scambiati qualche frase kitsch ed esistenziale, magari quella di Emil Cioran in Sillogismi dell'amarezza: «Annoiarsi è masticare tempo». E chissà che Allegri non abbia sorriso mentre lo leggeva, pensando che al suo posto avrebbe scritto esattamente la stessa cosa.
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