
- di Simone Tommasi
Perché il coming out di Jankto è importante
Un'iniziativa che mette il calcio davanti alla propria omofobia.
Ieri pomeriggio Jakub Jankto ha fatto coming out come omosessuale, affidandosi a un video pubblicato sui suoi canali social. Non capitava da tantissimo tempo che lo facesse un giocatore di questo livello, forse addirittura dai tempi di Justin Fashanu. Immediatamente in molti hanno reagito all'annuncio facendo sapere che non gli interessa con chi va a letto un giocatore e che l'importante sono le sue prestazioni sul campo. C’è stato anche chi ha detto che fare coming out è controproducente, che l'orientamento sessuale dovrebbe essere una cosa privata, che a fare così si provocano gli omofobi. Altri dicono che il coming out di una persona non deve essere motivo di interesse, e che parlarne aiuterebbe a normalizzare la situazione. Questo sarebbe valido in un mondo ideale, ma è chiaro che quello che viviamo non è un mondo ideale.
In particolare, il mondo del calcio non è affatto un mondo perfetto in termini di apertura verso l'universo LGBT+. Praticamente non esistono giocatori pubblicamente omosessuali. E non è che sia così perché i calciatori siano tutti convintamente eterosessuali: il mondo del calcio è un ambiente in cui l'omofobia è accettata e sdoganata più che in altri ambienti della società, dalle tifoserie agli spogliatoi, passando per le dirigenze. Un giocatore appena diverso dalla norma nel vestire o nel modo di esprimersi, come Hector Bellerin o l'ex difensore del Chelsea Graeme Le Saux viene subito etichettato come gay – attraverso epiteti peggiori ovviamente – e l’omosessualità viene appioppata ai calciatori come insulto, come stigma, come qualcosa che dovrebbe insultare o al massimo strappare qualche risata.

Hector Bellerin è stato spesso bersagliato con epiteti omofobi solo per il suo modo di vestire o per il taglio di capelli. (Instagram: @hectorbellerin)
È importante che faccia notizia
Il coming out di un calciatore fa notizia, ed in questo momento è giusto che lo faccia. L’omosessualità nel calcio maschile non è assolutamente normalizzata, e molti calciatori sono costretti a nascondere il proprio orientamento sessuale. L'obiezione di tanti è che la sessualità è una cosa che appartiene alla sfera del privato. Non risulta però che l’orientamento sessuale o i comportamenti sessuali dei calciatori eterosessuali vengano tenuti nascosti o privati.
Una dichiarazione come quella di Jankto deve fare notizia. Per innescare una reazione positiva, per far pensare, per ricordare a tutti che anche nel calcio maschile ci sono persone omosessuali, che vivono ogni giorno a contatto con un mondo che li allontana, che li esclude, che fa temere loro di essere ciò che sono per le conseguenze che questo può comportare. Bisogna parlarne perché è proprio il modo per normalizzare la cosa, per far sentire a loro agio altri nel parlarne, per far vedere anche ai più giovani che c’è posto per loro nel calcio, che c’è modo di sentirsi al sicuro.
Che un calciatore dichiari di essere omosessuale non è questione di coraggio, onore, o altre parole di cui si riempiono la bocca i giornali e le pagine social in casi come questi. Jankto ha avuto il suo percorso, che solo lui stesso conosce e che solo lui può capire, che lo ha portato a compiere la scelta di fare questa dichiarazione. Lo ha fatto perché se l’è sentita. Tutti i calciatori che invece non lo hanno fatto non sono per questo meno coraggiosi o meritano meno onore di Jankto.
Il video con cui Jakub Jankto ha fatto coming out.
E poi, dalla nostra posizione, o quantomeno dalla mia che scrivo, di maschio eterosessuale, non possiamo capire fino a fondo cosa attraversa una persona che decide di fare questa scelta, o che decide di non farla, o che ci arriva con qualsiasi percorso ci arrivi. Non possiamo nemmeno avvocarci il diritto di sindacare sul fatto che abbia fatto bene, che abbia fatto male, che sia stato controproducente o che sia stato conveniente.
Abbiamo un problema
Il fatto che un calciatore faccia coming out deve diventare una cosa normale e accettata, bisogna parlarne, ragionarci, discuterne. E non parlare del singolo coming out nella maniera voyeuristica di un giornale scandalistico, ma affrontare il problema generale che il calcio maschile ha con l’omosessualità. Non si può nascondere il problema dicendo che tanto se nessuno fa coming out la cosa si normalizza. Non funziona così. Perché come dice anche Hector Bellerin: «È impossibile che qualcuno sia apertamente gay nel mondo del calcio». È un mondo troppo ostile, con un'idea precisa e stereotipata di cosa debba essere e cosa non debba essere un calciatore.
Graeme Le Saux arrivò a chiedersi se essere chiamato gay fosse diffamatorio. Lui non era gay e giunse alla conclusione che essere apostrofato in quel modo nel calcio era un insulto per tutto lo stigma che si porta dietro quella parola. Lo stigma resta e una parola mantiene la sua connotazione negativa anche perché nel calcio mainstream non c'è ancora un fronte ampio e unito che liberi dai suoi significati negativi il termine "gay" e tutti i suoi sinonimi, che contrasti la narrazione che va per la maggiore.

Gli insulti omofobi a Graeme Le Saux arrivarono anche da Robbie Fowler. (Steve Mitchell/EMPICS via Getty Images)
Come Le Saux, anche il calciatore danese Viktor Fischer ha esposto in modo chiaro qual è il problema nel calcio, dopo essere stato bersaglio di cori omofobi – lui che non ha mai fatto alcuna dichiarazione sul suo orientamento sessuale. «Il problema è che la parola omosessuale viene utilizzata come insulto», ha detto Fischer. «C’è un problema culturale nel calcio, che si basa sull’essere duri, sul silenzio, perché questo ti dovrebbe rendere forte».
La normalizzazione passa dal racconto
Non ci deve interessare se un calciatore sia omosessuale o meno, ma lui deve essere libero di dirlo, di farsi vedere con un altro uomo, di parlare apertamente di se stesso, di essere se stesso. Per riflesso, chi dovesse preferire tenere nascosti i dettagli della propria vita privata dovrebbe farlo per una scelta personale e non per la paura o la vergogna.
Un altro calciatore che in passato ha fatto coming out è Robbie Rogers, ex Leeds e L.A. Galaxy, che dopo il suo annuncio si è visto affibbiare dai media il ruolo dell'eroe, del pioniere, il ruolo di chi deve portare in giro il peso della dichiarazione che ha fatto. «Voglio solo essere un calciatore. Non voglio avere a che fare con il circo. E le persone che poi vengono a vederti solo perché sei gay? Non sono sicuro di voler fare interviste tutti i giorni in cui ti chiedono: “Com’è farsi la doccia con altri ragazzi?”» ha detto Rogers. In questo senso si deve giungere a una normalità, e tanto passa dal racconto che ne fanno i media.

Fino al suo ritiro, Robbie Rogers è stato l'unico sportivo professionista statunitense maschio pubblicamente omosessuale (Jeff Gross/Getty Images)
Non si può ignorare il fatto che in questo momento nel calcio essere omosessuali non è normale, e che se un calciatore si sente in dovere di dichiararlo è per uscire da una dimensione di repressione del proprio Io. Ci deve interessare che i calciatori facciano coming out perché queste iniziative aprono uno spazio di dibattito, di autoriflessione nel mondo calcistico. Dal canto loro i media dovrebbero stare attenti a non dare un taglio morboso e scandalistico alle storie di Jankto, di Rogers, e agli affari della loro vita privata; né dovrebbero ridurre le persone a fenomeni da baraccone la cui unica caratteristica saliente è l'omosessualità. Non bisognerebbe nemmeno pretendere da loro un particolare impegno sociale: nessuno deve essere obbligato a prendersi carico di un fardello tanto pesante se non vuole.
Dobbiamo parlarne
È importante che alla dichiarazione di Jankto non segua un'attenzione morbosa alla sua vita privata, o che il calciatore venga ridotto in maniera unidimensionale al suo orientamento sessuale. Questi sono gli atteggiamenti che devono sparire, assieme ovviamente agli insulti omofobi. Ci deve interessare che i calciatori facciano coming out, che accendano il fuoco della discussione, che facciano sentire altri calciatori più sicuri, più capiti, più a loro agio in un mondo che non li vuole. Che pongano le basi, dunque, per un cambiamento culturale all’interno del calcio maschile: un cambiamento raggiungibile solo parlando, riconoscendo il problema e prendendone coscienza. Non si può fare finta di vivere in un mondo ideale quando ideale, il mondo, non lo è affatto.

Uno striscione omofobo dei tifosi del Metz: il mondo del calcio ha un chiaro problema di omofobia. (JEAN-CHRISTOPHE VERHAEGEN/AFP/Getty Images)
E non è un'esortazione a fare coming out: la mia è solo un'osservazione da persona che vede accadere queste cose dall'esterno. Non sto nello stesso “luogo”, dal punto di vista del vissuto e della coscienza, di Jankto e di tutti gli altri che se la sono sentita, o che non se la sono sentita ancora, o che non se la sentiranno mai. Mi interessa però ascoltare quello che questi calciatori hanno da dire, e mi interessa che nel calcio si parli di uno dei più grandi problemi che questo sport si porta addosso.
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Classe '99, fervente calciofilo e tifoso dell'Udinese, alla sua prima partita allo stadio vede un gol di Cesare Natali e ne resta irrimediabilmente segnato. Laureato in scienze politiche a Padova, ora studia a Bologna e scrive di calcio e Formula 1.
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