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- di Damiano Primativo

Il calcio ha ancora credibilità?


Tra sportwashing e manovre finanziarie oscure, il clima intorno al calcio è sempre più tossico.


Due settimane fa si è giocata per la 19esima giornata di Serie A la partita tra Juventus e Atalanta. Solo due giorni prima la Procura della FIGC aveva emesso la sentenza sul caso plusvalenze, e la Juventus arrivava alla partita con 15 punti di penalizzazione e la classifica improvvisamente stravolta – insieme forse agli obiettivi stagionali, al senso da dare alla parte restante di stagione.

Dall’altra parte l’Atalanta era relativamente tranquilla, ma con la minaccia pendente di poter finire pure lei in un altro filone d’inchiesta. Anche l’Atalanta, infatti, era risultata «parte attiva della rete utilizzata dalla Juventus per i suoi affari,» ha scritto Fanpage. In uno Stadium con qualche seggiolino vuoto di troppo, Juventus e Atalanta hanno dato vita a una partita vivace e aperta. È finita 3-3, e l’andamento frizzante – quasi disimpegnato – del match ha aumentato la sensazione di una partita tra due squadre che non sapevano bene per quale posizione di classifica stessero giocando. Due squadre consapevoli che ogni sforzo sul campo avrebbe potuto essere distorto da decisioni prese in tribunale.

In attesa di altre sentenze che potrebbero ridisegnare ancora la classifica a tavolino – la Juventus affronterà un secondo processo per le “manovre stipendi” del periodo Covid-19, mentre numerosi altri club (quindici) potrebbero essere indagati per operazioni oscure sui bilanci – Juventus e Atalanta hanno dato vita a uno sport che somiglia al calcio ma che di fatto è castrato della sua componente strettamente agonistica, basata sulla centralità della classifica, dei punti, dell’impulso alla competizione. Uno sport dunque svincolato da tutti quei fondamenti imprescindibili in un'attività umana nata come simulazione pacifica degli antichi conflitti bellici.

Prima della partita alcuni tifosi della Juventus hanno espresso la loro insofferenza per questo limbo di scarna competitività che li attende. Per la prospettiva di un intero semestre di partite che-non-si-sa-quanti-punti-valgonopartite che non sono più calcio, quindi. «Da qui in poi saranno tutte amichevoli», dice qualcuno fuori dallo stadio. Alcuni giorni dopo la partita, un articolo di Fanpage ha sottolineato l’effetto forse più svilente che l’intera vicenda ha sulla natura competitiva del calcio: la solida possibilità che tra sentenze e ricorsi la classifica della Serie A subirà stravolgimenti a tavolino anche a campionato finito. «La classifica della Serie A 2022-23 dopo che si sarà giocata l’ultima partita in programma non sarà quella definitiva», afferma laconicamente l’articolo.

Questa premessa per dire che le manovre finanziarie fantasiose usate da molte società calcistiche, concepite per mantenere la Serie A competitiva rispetto ai migliori campionati europei e per aumentarne la capacità intrattenitiva, hanno finito per ottenere l’effetto contrario di quello sperato. Hanno finito, cioè, per minare la credibilità del campionato. Per far crescere ulteriormente la disillusione nel pubblico, per favorire la disaffezione della gente che secondo quegli stessi dirigenti era già a livelli di allarme.

Fin dall’inizio del suo mandato di presidente della Juventus, Andrea Agnelli non ha mai nascosto di temere più di ogni altra cosa il calo di interesse delle nuove generazioni verso il calcio. Intorno a quella paura ha costruito la sua ossessione più ostinata: la convinzione che il calcio debba competere con gli esports, con Fortnite e Call of Duty. Che debba generare quel tipo di intrattenimento adrenalinico e super glamour, quel tipo di coinvolgimento neuronale accelerato. Su questa convinzione poggiava il progetto della Superlega di cui Agnelli è stato tra i principali promotori.

Agnelli e gli altri presidenti delle più ricche squdre europee erano convinti che per migliorare la qualità del prodotto calcistico fosse necessario rivedere l’organizzazione delle competizioni europee in senso più esclusivo ed elitario. I migliori calciatori concentrati in poche squadre sempre più ricche e potenti. Era la chiave che i potenti del calcio europeo sbandieravano come soluzione a tutti i problemi emersi con la pandemia. Era, soprattutto, il punto di arrivo di un ragionamento ancor più radicale posto alla base: l’idea che il «calcio non è più un gioco ma un comparto industriale», citando le parole dello stesso Agnelli. Un settore produttivo in cui i fruitori non sono più da intendere come appassionati di calcio ma consumatori a cui vendere un prodotto.

Il lancio – poi abortito – della Superlega, ad aprile 2021, è stato il primo momento in cui abbiamo sospettato che il calcio stesse scivolando verso una dimensione in cui rischiava di non essere più se stesso. La creazione di una competizione chiusa (o semi-chiusa), a cui i club più forti partecipano per diritto di nascita, e che intenda il gioco prima di tutto come forma di intrattenimento, sembrava rinnegare che il calcio è soprattutto una cultura, e che la sua dimensione ludica è solo subordinata a quella competitiva e a quella antropologica che ne costituiscono le vere basi.

Va detto che i problemi del calcio non sono cominciati con l’annuncio della Superlega: le gestioni dei club ridicole, i debiti enormi, le negoziazioni controverse dei diritti TV, la corruzione, lo sportwashing esistono da tempo in questo sport. È altrettanto vero, però, che il progetto Superlega sembra ammantato da un’aura diabolica particolare: un angelo dell’apocalisse arrivato nel momento di maggiore tossicità del calcio per distruggerlo definitivamente. Un progetto che sintetizza e racchiude l’epoca attuale in cui è diventato sempre più difficile per gli appassionati credere nel calcio.

Calcio: proteste dei tifosi del Chelsea contro la Superlega

Proteste dei tifosi del Chelsea contro la Superlega ad aprile 2021 (Getty Images)

Nel 2020, poco prima dello stop per la pandemia, il Manchester City è stato sanzionato dall’Uefa per un aumento sospetto degli introiti provenienti dal proprio main sponsor. Una manovra che permetteva di aggirare le regole del Financial Fair-Play, resa possibile dal fatto che i proprietari dello sponsor e i proprietari del club, banalmente, coincidevano. A fine 2021, ancora in Premier League, il Newcastle è stato acquistato da un fondo di investimento pubblico dell’Arabia Saudita, dando vita alla distopia attuale in cui tutti e tre i Paesi più potenti della penisola arabica posseggono club europei di alto livello. Un problema etico non banale, vista la natura controversa che operazioni di sportwashing come queste portano con sé. Infine, solo pochi mesi fa uno di quei Paesi ha ospitato il Mondiale. Ha realizzato l’operazione di sportwashing più smaccata di tutte: il calcio globale trasformato in stretto alleato del Qatar nel processo di ripulitura della sua immagine pubblica. E se già la sistematica violazione dei diritti umani praticata dal governo qatariota ha sollevato molti dubbi sull’eticità del Mondiale, è stato un altro episodio a farci sospettare che anche lo spettacolo sportivo avesse qualcosa di poco autentico, come fosse fatto di plastica: le immagini dei finti tifosi asiatici che prima del torneo sfilavano per le strade di Doha travestiti da tifosi spagnoli, tedeschi, argentini.

Davanti agli aspetti controversi del Mondiale in Qatar, su questa rivista ci siamo domandati se fosse corretto dare importanza al calcio, se non fosse più giusto boicottare l’evento e la sua narrazione come in molti richiedevano. Poi abbiamo concluso che sì, aveva senso dare spazio e dignità alle prodezze dei giocatori sul rettangolo verde. Immaginate che ingiustizia sarebbe stata, se davanti al Mondiale della Redenzione di Messi le penne dello sport fossero rimaste mute. Ma la verità è che pure quella redenzione si è rivelata in fondo una redenzione “mutilata”; la gioia per il compimento della carriera di Messi sporcata dal rammarico per il contesto in cui è avvenuta, per la consapevolezza che la sua vittoria è stata anche la migliore pubblicità possibile per il Qatar – Messi in finale contro Mbappé, la doppietta di uno e la tripletta dell’altro, prima di ritornare entrambi al PSG, club di proprietà del Qatar e sulle cui maglie campeggia la scritta “Qatar Airways”.

Quella di appropriarsi del godimento libidico delle masse e del loro tempo libero è una delle capacità più oscure del capitalismo attuale. La stessa per cui le aziende che gestiscono i social network lucrano sul lavoro gratuito che gli utenti forniscono semplicemente scrollando i propri feed nei momenti di relax. Nel calcio il meccanismo è simile: i grossi capitali – anche quelli di investitori controversi – conquistano il pubblico offrendo loro uno spettacolo esteticamente sempre più gradevole – calciatori sempre più performanti, stadi sempre più accoglienti, in generale un livello di professionismo sempre più alto – e dal godimento degli spettatori per un prodotto di così alta qualità traggono ulteriore profitto.

Il tema insomma sembra quello di cui parlava Barney Ronay sul Guardian alcuni anni fa, quando ai tempi dell’inchiesta per le sponsorizzazioni gonfiate del Manchester City riconosceva amaramente che quella finanza tossica, dopotutto, aveva generato la squadra più bella dell’era della Premier League. «Dimentica la macchia della spesa eccessiva – scriveva Ronay – e avremo sempre quella stagione dei 100 punti. Avremo sempre il 15-0 in otto giorni contro Liverpool, Feyenoord e Watford. Avremo sempre quel gol da 44 passaggi contro il Manchester United, quasi 1000 passaggi contro lo Swansea, il modo in cui la palla sembra diventare una cosa viva e birichina, che si aggira tra le sagome azzurre in una coreografia condivisa e vertiginosa».

Ma fino a che punto si può godere dell’estetica del calcio prima che la tossicità del contesto diventi insopportabile? È possibile gioire davvero per un filtrante geniale di Kevin De Bruyne, sapendo che il suo stipendio è pagato con soldi sottratti al welfare di un Paese? Fino a che punto può spingersi l’aggressività gestionale dei grandi club (e delle confederazioni come la FIFA, anche) prima di perdere del tutto il contatto con la realtà, e soprattutto le ultime briciole residue di affetto dei fan?

Calcio: striscione dei tifosi della Roma contro Qatar 2022

Striscione dei tifosi della Roma contro Qatar 2022 (Foto Ansa)

Il fenomeno dello sportwashing, gli investimenti degli stati sovrani che uccidono la concorrenza, lo squilibrio competitivo tra la Premier League e gli altri campionati, sono la dimostrazione che i mali del calcio non nascono dalla Juventus e da Andrea Agnelli. Ma sono anche la dimostrazione, però, di quanto la Juventus negli ultimi anni abbia preso scelte aggressive («Abbiamo vissuto oltre le nostre possibilità» dice Agnelli in un’intercettazione) contribuendo ad alimentare questo sistema insostenibile invece di promuovere politiche che rendessero il calcio più sano. Ad Agnelli non interessava bonificare il calcio ma entrare nella stretta cerchia dei club più ricchi, per quanto l’atmosfera in quella cerchia fosse asfittica e insalubre.

Come ha scritto Rory Smith nella newsletter On Soccer: «Quando Agnelli parla di un nuovo sistema, non intende trovare un modo per aiutare i club italiani a costruire nuovi stadi, o sviluppare giovani talenti, o adottare controlli sui costi per portare l’equilibrio competitivo. Non sta studiando modi innovativi per costruire un nuovo pubblico o condividere più equamente le entrate televiisive, in modo che anche i Bournemouth della Serie A possano crescere. No, quello che intende Agnelli è che vuole cambiare le regole del gioco in modo che alla Juventus vengano dati più soldi, più tutele, e tutti gli altri possano andare a marcire. Agnelli, infatti, non è minimamente preoccupato dall’emarginazione. Semmai, gli importa che sia lui a emarginare gli altri».

I fatti degli ultimi anni dimostrano però che il potere economico dei club più grandi è spesso fragile come un castello di carte – bastano pochi mesi senza partite, ha mostrato la pandemia, per mandare le loro finanze a rotoli. Bisognerebbe domandarsi, quindi, se per diventare più appetibile verso il pubblico il calcio non debba riformarsi in chiave più sostenibile e inclusiva. Preoccupandosi per prima cosa di coccolare i tifosi (la fanbase storica dei club) invece di sfruttarli solo come consumatori passivi; distribuendo più equamente i diritti televisivi invece di concentrarla nelle mani di pochi; promuovendo la crescita dei campionati nazionali a partire dalle squadre minori, invece di alimentare il dislivello competitivo attuale. Solo così il calcio può sperare di non perdere gli ultimi brandelli di credibilità che gli sono rimasti, e di riguadagnare l’affetto del pubblico che sta perdendo per i suoi tentativi di inseguire modelli commerciali discutibili.


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Damiano Primativo (1992) è salentino e studente di Architettura. È nato il 23 dicembre come Morgan, Carla Bruni e Vicente Del Bosque.

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