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, 1 Febbraio 2023

Davvero la regola che punisce la Juventus non esiste?


Un punto di vista che si sta diffondendo in queste ore, ma che non tiene conto di alcune importanti ragioni che hanno portato alla sentenza di condanna contro la Juventus.


A seguito della pubblicazione delle motivazioni relative alla sentenza sul caso plusvalenze, si è scatenato un ovvio trambusto. La sentenza, che come tutti sanno (qui potete trovare una sintesi delle famigerate 36 pagine) prevede una penalizzazione di quindici punti per la Juventus per la stagione in corso, ha scatenato molte perplessità anche tra i giuristi. In particolare, ha colpito la mia attenzione questo articolo di Cataldo Intrieri su Linkiesta, che pur contenendo una serie di osservazioni più che sensate su natura, criticità e iter dei procedimenti sportivi, titolava in maniera un po' eufemistica che "La regola non c’è (e non c’è nemmeno la sanzione comminata)".

Quella della "regola che non c'è" è una frase che ben si presta a diventare il nuovo motto della folla (digitale) inferocita. Però è un'affermazione falsa. O meglio: è un'affermazione fuorviante che passa sopra a quelle che sono interpretazioni giurisprudenziali consolidate nell'ambito del processo sportivo.

Senza aver la pretesa di addentrarci nelle carte processuali e nella sostanza di quanto acquisito dalla Procura FIGC, stiamo sulla "regola che non c'è". Come ovviamente riporta il pezzo de Linkiesta, firmato dall'avvocato Intrieri, la regola in questione è citata nelle motivazioni. La Corte, in aggiunta all'imputazione originaria di violazione dell'art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva (illecito amministrativo, sanzione prevista ammenda con diffida), rileva una condotta illecita in violazione dell'art. 4 comma 1 codice di giustizia sportiva. Ed è su questo articolo (di fatto, SOLO su questo articolo) che si basa la forte penalizzazione.

L'art. 4 comma 1 del CGS recita:

«I soggetti di cui all'art. 2 sono tenuti all'osservanza dello Statuto, del Codice, delle
Norme Organizzative Interne FIGC (NOIF) nonché delle altre norme federali e
osservano i principi della lealtà, della correttezza e della probità in ogni rapporto
comunque riferibile all'attività sportiva»

Nel pezzo, Intieri in punta di diritto giustamente sostiene che tale articolo “stabilisce tuttavia una regola di ordine generale, l’osservanza dei «principi di lealtà, correttezza e probit໓. Il problema, che poi è un problema cruciale dell'ordinamento giuridico sportivo, è che tanto la dottrina quanto la giurisprudenza non riducono l'art. 4 a una mera norma di indirizzo, ma a qualcosa di più concreto. In un parere del Collegio di Garanzia del CONI, riportato nelle motivazioni per addurre il motivo della contestazione si afferma come tale articolo funga da “clausola di chiusura del sistema, poiché evita di dover considerare permesso ogni comportamento che nessuna norma vieta".

Di fatto, l'art. 4 funge da aggravante verso altre condotte rilevate (nel nostro caso, quelle dell'art. 31 comma 1), in maniera sotto molti aspetti anche coerente con l'impianto fortemente punitivo del diritto sportivo. Al tempo stesso, è stato già in passato utilizzato come sanzione "minore" da applicarsi alle condotte non specificatamente comprovate come illecite per il Codice, ma pericolosamente oscillanti rispetto a quel (cito da una pubblicazione su "Diritto dello sport", trimestrale dell'Università di Bologna):

«rilievo ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 4, comma 1 CGS, secondo cui le società, i dirigenti, gli atleti, i tecnici, gli ufficiali di gara e ogni altro soggetto che svolge attività di carattere agonistico, tecnico, organizzativo, decisionale o comunque rilevante per l’ordinamento federale, sono tenuti all’osservanza delle norme e degli atti federali e devono comportarsi secondo i principi di lealtà, correttezza e probità in ogni rapporto comunque riferibile all’attività sportiva.»

Nel caso Juventus, la violazione del principio di lealtà si appoggerebbe sulla condotta reiterata e sistematicamente elusiva della Juventus dei suoi obblighi contabili, tale (secondo la Corte) da assicurarle un vantaggio anche in termini sportivi, ad esempio garantendole un margine di manovra sul mercato dei calciatori che altrimenti non avrebbe avuto. Tant'è che la Corte arriva a citare "l'illecito sportivo" e non più solo quello contabile, pur senza mai menzionare l'art. 30 che lo disciplina.

Insomma, la norma c'è e ha previsto un suo specifico regime sanzionatorio (art. 4 comma 2). Ma è una norma estremamente discrezionale, e l'effettivo margine di questa discrezionalità sarà probabilmente il punto forte del ricorso in ultimo grado.

Su un piano penalistico, applicarla (oltretutto con di fatto un cambio di imputazione in una sede particolare come quella di revocazione) sarebbe un insulto, e non credo sia un caso che Intrieri, proprio da penalista, rilevi questa stortura. E lo sarebbe anche sul piano del diritto contabile visti i fatti contestati, fatti sempre comunque riferiti a una violazione "formale" degli obblighi contabili.

Allora la Corte come sostiene, dal punto di vista del diritto, quest'applicazione? Sempre con il citato parere del Collegio di Garanzia, che ribadisce le specificità del diritto sportivo e richiama l'attenzione a come la dottrina civilista ammetta il ricorso a una clausola generale in giudizio. Tanto più in casi di "vuoto normativo", come questo per la Corte sembra esserlo. Dottrina e giurisprudenza sportiva hanno fatto proprio questo principio da tempo, sottolineando l'importanza nell'ordinamento sportivo della tutela di lealtà correttezza e buona fede, considerate "connaturate e particolarmente rilevanti" rispetto all'attività sportiva. Viene quindi mantenuto volutamente ampio il raggio d'azione dell'art. 4, per il quale ad esempio non vale il principio di tassatività, ovvero il fatto penale dover essere individuato dettagliatamente nei suoi estremi.

Sintetizzando: per quanto possa apparire discutibile in linea di teorica e potenzialmente a rischio di cadere in vari vizi di forma, la sentenza non è infondata. Il punto è un altro. Ovvero che una tale applicazione dell'art. 4 è comunque un unicum, quantomeno relativamente alle plusvalenze. E se la Corte sembra riuscire a motivare ampiamente perché sia possibile utilizzare l'art. 4 in generale, forse risulta un po' debole nello spiegare perché lo sia nel caso in questione. Tanto più di fronte ad una sanzione fortemente afflittiva (forse persino troppo). Ma questa è una considerazione di merito in cui non mi posso né voglio addentrare.

Ritornando all'articolo de Linkiesta, Intrieri a mio modestissimo avviso (no sarcasm) ha ragione a sostenere che la procedura sia in parte una forzatura. Nonché l'ennesima riprova di come la giustizia sportiva rischi di passare per approssimativa, anche perché non supportata da un quadro normativo adeguato. La stessa sanzione, irrorata a stagione in corso, rischia di esser una turbativa della regolarità del campionato più concreta di quelle contestate, per quanto la Juve (grazie a questa gestione, ndr) fosse già allo sfacelo tecnico.

Photo by Jonathan Moscrop/Getty Images

Viene però da chiedersi perché notare questo solo quando di mezzo c'è la FC Juventus, quando queste problematiche relative al diritto sportivo campeggiano nei palazzi del calcio da tempo immemore. Che poi, volente o nolente (e lo dico con una punta di cattiveria), si parla di una società estremamente potente nel panorama calcistico italiano e tuttavia abbonata con i suoi dirigenti a procedimenti sportivi e annessi penali di varia gravità. Quantomeno dedurne un problema di governance non solo della giustizia, non solo del calcio, ma anche delle società sarebbe forse necessario.

In questo, volendo fare una considerazione “politica”, mi sembra probabile che la Corte abbia picchiato più duro possibile affidandosi a una clausola generale, valutando che tali elementi, se da subito in mano al procuratore Chiné, avrebbero portato a sentenze ben più pesanti senza troppi pasticci di diritto. E volendone fare un'altra, in generale continuo a chiedermi (al di là di corti e procure sportive) che sostenibilità abbia ad oggi il sistema calcio italiano, con le sue società maggiori che da ormai tre anni piangono miseria e sembrano esser tragicamente appese ai sempre più aridi diritti tv e al trading dei cartellini.

Le considerazioni finali dell'avv. Intrieri

Un'ultima nota mi permetterei di fare all'avv. Intrieri: considerando che chi ha scritto il pezzo pratica e insegna il diritto (seppur non quello sportivo), al netto delle esigenze di leggibilità si potevano forse evitare certi passaggi fin troppo semplificatori. Per esempio, una ricerca nemmeno troppo complessa (l'ha fatta perfino il sottoscritto) poteva evitare quantomeno il sarcasmo sulla corte deliberante “nientemeno a sezioni unite”, dato che questa è una previsione esplicita dell'art. 99 CGS. Soprattutto, questo e una minor voglia di engagement social da parte del titolista avrebbero potuto almeno risparmiarci la riduzione del tutto al falso mito della “regola inesistente”, motto che ora ci ammorberà fino almeno al ricorso.

Anche perché il concetto espresso della necessità di una profonda riforma della giustizia non solo è valido oggi, ma lo era già prima ed è probabilmente una necessità non derogabile per l'industria del calcio. Magari questo concetto acquisirebbe più credibilità anche nel già avvelenato pubblico, se non saltasse fuori in maniera così incidentale rispetto a sanzioni irrorate contro una grande squadra.


  • Scribacchino sull'ala sinistra. Fiorentina o barbarie dal 1990. Evidenzio le complessità di un gioco molto semplice.

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