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Novak Djokovic in trionfo agli Australian Open 2023
, 30 Gennaio 2023

Novak Djokovic e il sublime


Con la vittoria in Australia, Novak Djokovic è tornato numero uno del mondo.


Novak Djokovic si ferma. A trentacinque anni ha appena vinto l'Australian Open per la decima volta, il ventiduesimo Slam. Eppure sulla sua faccia non scorgiamo nessun pianto liberatorio, l'esultanza è sobria e orrendamente normale. Si gira mentre è in piedi, guarda il suo angolo e alza una mano indicandosi la testa con l'indice. Qualche secondo dopo indicherà anche il cuore, ma insisterei un attimo su quel dito che coinvolge la mente, l'immagine più realistica della sua mitopoiesi.

Dire che è l'ennesima finale vinta sarebbe riduttivo. Quella che Djokovic ha vinto contro Stefanos Tsitsipas nella Rod Laver Arena, proprio un anno dopo la sua esclusione dal torneo e dal paese, ha poco a che fare con l'agonismo. Sono stati tre set di dominio. L'emanazione pura di quella forza oscura che alimenta il tennis di Djokovic, quell'incidenza psichica che si materializza nei suoi colpi migliori.

Djokovic e Tsitsipas si erano già affrontati in una finale Slam – nel 2021 a Parigi, quando Nole rimontò due set al greco. Eppure guardandoli palleggiare, rispondere, spostarsi in anticipo per leggere la pallina si potrebbe dire che appartengono ancora a mondi diversi. Tsitsipas crogiolato nella sua bellezza effimera, incarnata nel rovescio a una mano che è allo stesso tempo estetico e fragile, e dall'altra parte del campo Djokovic assorto nell'essenzialità mortale dei suoi colpi. Ok, si affrontavano terza e quarta testa di serie, ma chi poteva razionalmente sperare in un finale diverso?

Con la vittoria in Australia, Djoker si è ripreso il titolo di numero uno del mondo. E vista la venuta nel circuito di un altro intruso, un altro re senza corona come Carlos Alcaraz, stavolta il ranking vale molto di più della fama o degli sponsor. Vale un primato reale.

Primo set: Distruzione

La versione di Novak Djokovic che entra in campo alla Rod Laver è quella delle grandi occasioni. Complice un avvio timido al servizio di Tsitsipas, il copione della partita è subito chiaro. Se Tsitsipas serve la prima l'obiettivo rimane palleggiare sulla diagonale del rovescio, che nei primi game è piatto e impreciso. Dall'altro lato, il rovescio a due mani di Nole è solido e profondo, si appoggia alle incertezze di Tsitsipas, che commette 11 errori non forzati in 36 minuti di tennis a senso unico.

Come detto dallo stesso greco in conferenza stampa, l'altro problema riguardava il servizio. Nel primo set Tsitsipas ha servito dieci volte la seconda, un colpo che ieri sembrava addormentato per la lentezza e la poca cura nelle traiettorie cercate, e infatti ha vinto solo il 40% dei punti.

D'altra parte, è difficile rimanere lucidi se ogni game in risposta diventa una soppressione psicologica come il punto qui sotto. Non è un caso se Tsitsipas ha vinto un solo punto sulla prima di Djokovic, che ha alternato angoli di servizio e kick.

Il primo set ricostruisce piuttosto bene la storia dell'Australian Open vinto da Djokovic. Un torneo in cui nessuno, eccetto Couacaud al secondo turno, è riuscito a portargli via un set. «Ogni tanto mi do dei pizzicotti per rendermi conto di quello che sto facendo: solo la mia famiglia e la mia squadra sanno cosa ho passato nelle ultime 4-5 settimane, credo sia la vittoria più bella della mia vita» ha detto Nole dopo la finale. E se è vero che questa vittoria avrà un sapore speciale per lui, un gusto particolare di orgasmica vendetta dopo l'esclusione dello scorso anno, sarebbe giusto sottolineare gli sforzi di Djokovic senza scadere nella banalità di pensare che sia tutto normale.

Il modo in cui si è sbarazzato del gioco monodimensionale ma spigoloso di Rublev nei quarti, ad esempio, regalandogli solo sette game. O la semifinale contro lo sfavorito Paul, in cui sul 5-1 nel primo set si è fatto raggiungere sul 5 pari, e da lì in poi ha vinto 14 dei successivi 17 giochi. Se i Big Three hanno reso ordinario l'eccezionale, la vittoria un breve istante di goduria prima e dopo altri innumerevoli successi, Djokovic è quello che più di tutti l'ha resa una legge non scritta. Un traguardo inarrivabile per mente degli avversari.

Secondo set: Battaglia

A dire la verità c'è stato un momento del secondo set in cui il tennis di Tsitsipas si è avvicinato al livello di Nole. Le gambe di Tsitsipas si muovono improvvisamente più veloci, il suo rovescio tiene il ritmo dello scambio e se deve chiudere i punti il dritto entra comodo. Le accelerazioni improvvise con il dritto bloccano Djokovic e sul 4-3 basta una steccata a portare Tsitsipas avanti 30-15. Il greco ha la prima occasione per provare a breakare Nole e riaprire la partita. Djokovic serve una seconda esterna per appoggiarsi al rovescio di Tsitsipas: quello mette i piedi in campo e risponde bene, il nastro accorcia il rovescio incrociato di Djokovic e costringe Tsitispas a venire a rete, dove tenta uno strano back che finisce lungo tra i piedi di Nole.

E pensare che Tsitispas era reduce da un grande momento. Il suo tennis non era mai stato così solido e costante: anche se aveva dovuto affrontare due turni dall'epilogo thriller al quinto set contro Sinner e Khachanov, poteva contare su colpi affidabili e mortali per qualsiasi altro tennista. Come nell'occasione dello scambio sul 4-4 qui sotto, la dimostrazione che anche a quei livelli Tsitsipas potrà dire la sua e che la vittoria di uno Slam è solo questione di tempo. Tra l'altro, lui dopo la finale ha sottolineato l'obiettivo di arrivare al numero 1 del ranking: «Mi piace molto il mio gioco e il mio atteggiamento in campo, non potrei essere più entusiasta» ha detto.

In quel momento Tsitsipas è in fiducia e dà vita a un altro scambio eccezionale appena qualche game dopo, sul set point a favore. Il rovescio incrociato funziona e così spinge lentamente Djokovic fuori posizione. Più che un punto di una finale Slam diventa una gara di stili: il rovescio in top usato da Tsitsipas come un gancio per riafferrare una partita sfuggente contro il dritto inscalfibile di Djokovic. È il punto-immagine dell'intera partita: un tennista sofferente ma efficace come che si strugge nel vano tentativo di scalfire la corazza sublime dell'altro.

In quel punto Tsitsipas ha giocato bene, anzi benissimo: è uno di quegli sforzi che anche contro un giocatore di alta classifica restituirebbe la gratificazione del punto, lo spettro di un appiglio su cui fare affidamento. Contro Djokovic diventa un incubo, che quello chiude con efferatezza dopo aver mosso l'avversario a proprio piacimento.

Dopo quel punto di cui abbiamo parlato l'evento a cui assistiamo si trasforma in commedia dell'arte: a un errore dell'uno risponde l'ingenuità dell'altro. Prima Djokovic prova a incartarsi con i doppi falli e inizia a blaterare sconnessamente contro il suo angolo. In risposta Tstisipas ci tiene a dare il suo contributo e nel tie-break eleva il concetto di insicurezza, regalando il set a Nole con tre dritti sciatti tirati a rete.

A fine partita Tsitsipas ci ha comunque tenuto a rivendicare la sua prestazione: «Ci sono sicuramente cose che posso migliorare, visto le cose che sono successe oggi, ma non penso ci sia motivo per cui io debba farmi influenzare dalla sconfitta di oggi. È un passo avanti». Contro Djokovic anche le sconfitte sono coccarde da appuntarsi in petto.

Terzo set: Epilogo

Per Tsitsipas è stato un Australian Open che definirei della consacrazione. Dopo la sconfitta nella finale di Parigi – ancora una volta contro Nole – era entrato in un limbo in cui non poteva essere facile districarsi. Il suo 2022 era stato colmo di polemiche, impreziosite dal capolavoro artistico-performativo che Tsitsipas e Kyrgios avevano inscenato al terzo turno di Wimbledon, ma magro di successi. Si era imposto a Montecarlo, dove aveva vinto il secondo titolo, eppure potevamo aspettarci di più.

So che può sembrare crudele detto il giorno dopo quella efferatezza, ma la sua capacità di rimanere nello scambio dal lato del rovescio è notevolmente cresciuta nel tempo, e a oggi sono pochissimi i giocatori che possono ingabbiarlo in una morsa così spietata come Djokovic. Come ha detto Tsitsipas nel post-partita, con la sua ormai nota retorica, quella un po' a metà tra il cringe e la profonda riflessione filosofica: «Sono nato campione, lo sento nel sangue. Lo sento dal fatto che anche da giovane ero competitivo. È qualcosa che è dentro di me. Voglio raccoglierlo, farlo fiorire, renderlo più forte, lavorando sodo per raggiungere questi obiettivi. È quel bel numero, il numero ‘1’, che renderà le cose estremamente emozionanti quando lo raggiungerò».

Anche il terzo set si prolunga fino al tie-break, ma è chiaro già dai primi game che le energie psichiche sono tornate a bruciare nell'anima di Nole fino a distruggere l'avversario. Nei primi sei punti al servizio Tsitsipas serve una sola prima, e chiude il secondo game facendosi breakare con un doppio fallo. Ci aspettavamo una reazione rabbiosa a un tie-break giocato malino, perso più per inferiorità propria che per merito di Djokovic. E invece Tsitsipas non solo fa il solletico al tennis di Nole, ma finisce involontariamente per alimentarne la grazia: da sfidante di una finale Slam diventa una spalla per l'attore principale, per i suoi recuperi fuori dal mondo e la concretezza.

Guardate ad esempio come Djokovic lo muove con la scioltezza di un burattinaio sul 40 pari nel secondo game. Come scherza con gli angoli del dritto e le traiettorie profonde e piatte del rovescio. Persino nel momento in cui Tsitsipas lo chiama a metà campo e gli affossa la pallina con un back spettacolare, tutto va secondo i piani di Djokovic, che trova il modo di cambiare consistenza al suo fisico, passando d'un tratto dall'essere solido e reattivo nelle gambe alla fluidità di un ballerino.

In questa finale, come a Wimbledon e come forse in ognuna di quelle che ha giocato in carriera, è difficile trovare un'umanità in Novak Djokovic. E non parlo della storica mancanza di empatia col pubblico o del suo status da villain. Djokovic si è mostrato ancora infallibile, un atleta senza crepe attraverso cui abbattere il muro invalicabile che ha cinto tra sé e gli avversari. Djokovic ha 35 anni, ma a differenza di Murray o Nadal, è in forma come un ragazzino. Ha vinto 22 Slam, ma in ogni partita la sua storia ricomincia da capo.

Guardiamo a Djokovic come un Totem che prima o poi cadrà, e lui in qualche set ci illude persino di esserci vicino. Poi però quel crollo rimane potenziale, una caduta sospesa nel vuoto, come se anche per lui, oltre che per i protagonisti de L'Odio, il problema non consista nella caduta ma nell'atterraggio. Ecco, nessun tennista conosce i segreti dell'atterraggio come Novak Djokovic, i meandri più nascosti delle leggi oscure del tennis che gli permettono di vincere e dominare da oltre dodici anni.

Forse è arrivato il momento di riconoscerglielo, smettendola di trattarlo come uno stereotipo vivente. L'anti-eroe venuto al mondo per creare la Distruzione, il Djoker e tutta la retorica intorno al male assoluto prestato allo sport che incarna fin dal suo ingresso nel circuito. O meglio, possiamo continuare a raccontare questa porzione di realtà senza più oscurare l'altra, quella del talento leggendario di Djokovic, della sua capacità di piegare il mondo al suo volere con una racchetta in mano.

Quello che ci rimarrà di questi anni così assurdi per seguire il tennis è il presentimento del dominio di Djokovic. Un dominio tecnico, atletico, mentale: preservato da un'aura di energia oscura, di una eccezionale capacità di canalizzare i momenti più importanti a proprio favore. Djokovic non ci ha solo mostrato che è forse il più completo tennista mai visto, ma anche quello più schiacciante, un tennista capace di far sprofondare gli avversari in un Grand Canyon di corpi e psiche ammassati. Indistinguibili uno dall'altro.


  • Nato a Giugliano (NA) nel 2000. Appassionato di film, di tennis e delle cose più disparate. Scrive di calcio perché crede nella santità di Diego Maradona. Nel tempo libero studia per diventare ingegnere.

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