Considerazioni sparse su “Break Point” di Netflix
Tra protagonisti ammiccanti e la presunta maledizione di Netflix, Break Point si rivela un prodotto generalista e ben confezionato, che però non scalda i cuori. L'Impero del neutro divora anche il tennis?
- Seguire le nuove stelle del tennis mondiale, raccontandone il dietro le quinte della stagione 2022, tra partite, gestione della pressione e vita privata. Questo l'obiettivo di Break Point, la nuova serie Netflix sul mondo del tennis, sull'onda del successo della sorella grande, Formula 1: Drive to Survive, sempre dell'azienda di Los Gatos. 5 gli episodi in onda e 5 quelli che arriveranno a metà anno con la seconda parte e nomi come Alcaraz e Tiafoe. Curiosità: Break Point è uscita di venerdì 13, cosa che ha scatenato i superstiziosi. Dopo la messa in onda infatti, quasi tutti i protagonisti del documentario si sono infortunati o hanno perso ai primi turni dell'Australian Open, facendo urlare alla "maledizione di Netflix". Sortilegi a parte, queste débâcle sembrano piuttosto il sintomo di un tennis volatile, dove (specie nel femminile) oggi tutti possono perdere da chiunque. E dove la pausa di recupero natalizio non sembra bastare a rigenerarsi dopo la lunga stagione, che chiude sempre più i tennisti nell'eterno presente della bolla del circuito;
- Ma veniamo alla docu-serie: in primis la scelta dei protagonisti è la più ammiccante e mirata possibile. Da Kyrgios alla Badosa, passando per Fritz, Sakkari e Berrettini con la Tomljanovic, i personaggi sono ben bilanciati tra chi sta dentro e chi sta fuori dalle righe, con ampio sfoggio di fidanzate e del lato romance. D'altronde in casa Netflix l'attenzione all'appeal del prodotto è maniacale, tanto quanto le inquadrature (come noto, Netflix nei suoi prodotti originali utilizza inquadrature specifiche volte semplicemente a ricatturare l'attenzione dello spettatore nei momenti morti, es. primissimi piani);
- La sensazione generale di Break Point è però quella di comprendere tutto senza concentrarsi su nulla in particolare. La pluralità dei punti di vista, che in partenza poteva essere un punto a favore, non arriva a dare nessun messaggio forte, nessuna visione urticante, ma un ritratto pre-confezionato del mondo del tennis, che dosa le emozioni evitando quelle forti e fugge dalle questioni scottanti non appena si fanno troppo vicine. Non è un caso l'omissione completa dell'affaire Djokovic-vaccino in Australia, ma anche la questione del burnout dei giocatori, tratteggiata qua e là senza inserirne le cause e i nessi, dal calendario troppo fitto alla scissione interna dei giocatori tra ATP e PPTA, fino all'assenza di riferimenti alla giungla dei Challenger, ai sacrifici prima del successo e a quelli della vita on-the-road dei tennisti, che a guardare il documentario sembrerebbero transitare da un servizio in camera all'altro. Break Point si rivolge ad un pubblico ampio che non è necessariamente appassionato di tennis. Non è un prodotto per esperti: la narrazione delle singole partite si lascia più volte sfuggire un set sulla grafica, bypassando il punteggio come a dire che tanto non ce ne accorgeremo neanche;
- Il critico Aubron ha definito Netflix un “Impero del neutro”, evocando quei film che sotto forma di “narrazioni circolari, avanzano camminando nel vuoto”. Con Break Point siamo sulla stessa linea. Oltre al dietro le quinte dei giocatori, di per sè interessante in quanto inedito (vedi infortunio di Fritz prima di trionfare su Nadal a Indian Wells), la serie diventa interessante nel dipingere più le sconfitte che le vittorie, eludendo il facile schema dell'eroe sempre vincente. Break Point soffre però della Sindrome del Don Giovanni. Lui che insegue sempre la novità e la pluralità (delle amanti, nel nostro caso dei punti di vista) finisce per diventare schiavo di sé stesso e della ripetizione dell'uguale. A differenza del Don Giovanni, con Break Point non arriviamo alla noia: ma mentre lo sguardo resta catturato dal montaggio serrato e dagli one-to-one con gli atleti, le emozioni rimangono tiepide ed evanescenti, lasciandoci un sapore indefinito e la pallida consolazione di avere in qualche modo passato la serata. Game, set e match per il colosso dello streaming, il cui fondatore Reed Hastings, dichiara che il principale competitor dell'azienda sarebbe il sonno;
- Un dialogo e un prodotto seriale che ben dipingono le caratteristiche del tennis odierno. Standardizzato, tecnicamente perfetto, statisticamente efficiente: eppure privo di colori originali ed eroi carismatici. Il Federer sconfitto che piange a dirotto, il Nadal insicuro che si nasconde dietro i suoi tic, l'Agassi a cuore aperto che aggredisce l'ennesima odiata pallina. Eroi fragili, fortissimi e imperfetti, con uno stile di gioco non riproducibile. Vicini e irraggiungibili. Ormai lontani da questo futuro che ci è stato programmato. In Break Point passa comunque l'amore per il gioco, la straziante sospensione della pallina di una pratica dove psicologia e superstizione accadono insieme, rompendo qualsiasi schematicità tecnico-tattica e rendendo questo sport e le sue narrazioni ancora ed eternamente affascinanti.
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