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Pelé e il non gol più bello di sempre copertina.
, 31 Dicembre 2022

Pelé e il non-gol più bello di sempre


La sua invenzione geniale nella semifinale del Mondiale 1970 tra Brasile e Uruguay.

Giovedì sera intorno alle 20 la notizia della morte di Pelé ha cominciato a spargersi nelle nostre timeline. L’abbiamo accolta con una malinconia burocratica, il tipo di dispiacere sincero ma al contempo distaccato che proviamo per la morte di un parente molto lontano, una persona che non abbiamo mai conosciuto davvero. Nessuno di noi ha visto giocare Pelé. Nessuno di noi ha vissuto l’epoca in cui Pelé è stato un personaggio mediatico davvero rilevante. Eppure in qualche modo negli anni ci siamo affezionati a quel personaggio come a un Padre Fondatore. Alla sua morte ci siamo accorti di nutrire per lui un affetto genetico, dovuto. Come se le nostre cellule di appassionati di calcio provassero una riconoscenza involontaria per uno dei pionieri del nostro gioco preferito. Se siamo ciò che siamo lo dobbiamo anche a Pelé, abbiamo pensato.

Durante tutta la nostra vita Pelé è stato soprattutto un nome. Un’entità vaga inserita il più delle volte nella stessa frase con Maradona, termine di un’equazione impossibile che avrebbe voluto risolvere il dilemma di chi fosse il Più grande di sempre. Abbiamo sentito Pelé e Maradona contrapposti nei canti dei tifosi argentini, brasiliani, napoletani. Pochi anni fa Maradona e Pelé è diventato il titolo di una canzone tormentone estivo che non parla di calcio. Abbiamo sentito parlare vagamente di quando “Trapattoni annullò Pelé”, abbiamo sentito qualcuno riferirsi a Wayne Rooney col soprannome di “Pelé bianco”. Pelé, o quantomeno il suo nome, non è mai uscito davvero dal discorso collettivo sul calcio. Pelé è un nome pop, eppure la cosa contrasta con la scarsa conoscenza che abbiamo di lui.

In fondo anche vedere i social network inondati di notizie su Pelé giovedì è stato strano: un personaggio appartenente alla leggenda, dai contorni indefiniti, che entra in contatto con la sfera dell’iperconnessione e dell’iperrealismo digitale attuale.

Tutto nella carriera di Pelé è oscuro, sfumato. A partire dal numero di gol segnati: i 1281 segnati secondo la FIFA, amichevoli incluse, diventano 1303 secondo la RSSSF, la Fondazione Statistiche del calcio. Nel conteggio delle statistiche di Pelé c’è tutta una controversia sul valore da dare ai gol segnati nelle partite amichevoli: quei gol vanno ignorati come siamo soliti fare per i calciatori contemporanei? (In quel caso i gol di Pelé sarebbero 757 secondo la FIFA, 778 per la RSSSF). Oppure è giusto conteggiarli, onesto riconoscimento al valore superiore che le amichevoli avevano in quell’epoca remota? Un’epoca in cui i calendari erano molto meno densi rispetto a oggi, e le amichevoli preziose occasioni di confronto tra scuole calcistiche lontane. Match importanti quasi quanto finali di Coppa del Mondo nello stabilire le gerarchie calcistiche mondiali (memorabile, ad esempio, l’amichevole Inghilterra-Ungheria 3-6 del 25 novembre 1953, che per molti incoronò la “squadra d’oro” ungherese come team migliore al mondo).

A dire il vero nel caso di Pelé il problema non sarebbe nemmeno solo quello delle amichevoli, quanto l’esistenza di tutto un apparato di partite non riconosciute che rende i suoi dati estremamente illeggibili. La questione è diventata attuale durante il Mondiale in Qatar, quando Neymar ha segnato il suo 77esimo gol in Nazionale eguagliando il record di Pelé. Il record secondo la FIFA, almeno. Secondo la Federcalcio brasiliana i gol di Pelé con la Seleçao sono 95, comprensivi di quelli segnati nelle amichevoli contro club e rappresentative locali.

Pelé portato in trionfo.

La confusione intorno ai numeri di Pelé è diretta conseguenza della confusione intorno alla figura di Pelé. Un personaggio dai contorni sfumati, mezzo uomo e mezzo mito, proveniente da un passato lontano e imperscrutabile. Le immagini delle sue giocate sembrano provenire da una diversa era geologica rispetto alla nostra. Immagini in bianco e nero, traballanti, sfocate al punto che i calciatori sono a volte indistinguibili tra loro. Immagini provenienti letteralmente dall’altro mondo: dal Nordamerica o dal Sudamerica, dai campi dall’erba cespugliosa dello stato di San Paolo – Pelé che ci pattina sopra vestito tutto di bianco come una creatura più luminosa e leggera delle altre, il bianco della divisa del Santos.

Pelé come prodigio lontano ma anche incredibilmente vicino. Puoi immaginarlo inarrivabile come un divo hollywoodiano, e poi ritrovarlo in una foto scattata allo stadio Via del Mare di Lecce dopo l’improbabile amichevole Lecce-Santos del 24 giugno 1967. Sono frammenti come questi che restituiscono l’inafferrabilità di Pelé: un calciatore che ha giocato sempre in America, ma che eppure ha girato in amichevole il mondo intero, che sembra aver calcato almeno una volta il prato di ogni singolo stadio del pianeta. Un calciatore che esiste tra realtà e fantasia, le cui gesta appartengono soprattutto alla dimensione soggettiva del racconto, alla tradizione orale come i miti nell’Antica Grecia.

Per quanto ci sembri assurdo pensando all’iper-esposizione mediatica dei calciatori contemporanei, non tutti i gol e i momenti salienti di Pelé su un campo da calcio sono stati filmati. Molti sono sfuggiti, smarriti nel tempo o, banalmente, mai ripresi. È specialmente attorno a quegli episodi che germoglia l’epica: l’assenza delle immagini colmata dal racconto orale, a volte dalla fantasia. È impossibile stabilire il confine tra realtà e finzione in molti aneddoti che riguardano Pelé. Pelé che - si dice - sapeva pure fare il portiere, e che il 19 gennaio 1964 dopo aver segnato una tripletta al Gremio in Coppa del Brasile va in porta per l’espulsione del proprio portiere e se la cava bene negli ultimi quattro minuti, salvando il risultato. Pelé che nel 1969 ferma per due giorni la guerra civile nigeriana, gli eserciti in lotta che indicono una tregua per permettere a tutti di andare a vedere il Santos che si trova in Africa occidentale in tournee.

Non esistono immagini, ad esempio, di quello che secondo Pelé è il suo gol più bello. Lo avrebbe segnato il 2 agosto 1959 in un Clube Atlético Juventus-Santos 0-4 del Campionato Paulista. Un cross teso dalla destra che Pelé controlla con uno stop orientato. Il primo difensore superato con il controllo orientato stesso. Poi un sombrero per eludere il secondo difensore, un altro sombrero sul terzo difensore, un tocco di ginocchio per portarsi il pallone avanti, un terzo sombrero sul portiere in uscita e infine un colpo di testa a porta vuota. Cinque tocchi e tre dribbling senza che il pallone tocchi mai terra. Un’azione da leggenda, e nella leggenda destinata a rimanere. L’unico filmato che abbiamo è questa ricostruzione digitale realizzata in base ai racconti di Pelé e ad altre testimonianze d’epoca.

In una carriera di oltre 1000 gol una singola marcatura è come una goccia nell’oceano. Le compilation delle sue giocate che si trovano su YouTube sono frammentarie, ma eppure barocche, ricolme di finte e di sombrero e di corse alla massima velocità e di tiri scoccati alla massima potenza. Collages per molti versi nauseanti come solo le grandi raccolte di gesti eccezionali sanno essere. La straordinarietà che nella ripetizione diventa ordinarietà, il sapore più buono che alla lunga induce assuefazione e perde la propria forza seduttiva.

Per questo forse nella carriera di Pelé un singolo gol sbagliato ha finito per diventare più iconico degli altri 1000 segnati. Iconico poiché unico, un errore che si distingue come un raro momento di discontinuità nel flusso infinito di gesti perfetti. Accade nei minuti di recupero di Brasile-Uruguay, semifinale dei Mondiali messicani del 1970.

Messico ’70. «Nell’immaginario popolare l’apogeo del calcio», ha scritto Jonathan Wilson, il Mondiale in cui il Brasile raggiunge l’apice di quella visione del calcio chiamata futebol arte. Un’idea di gioco che pone al centro il genio, la fantasia, l’imprevedibilità. Che incoraggia l’espressione dell’individualità del giocatore, della sua libertà. Per realizzare questa visione il CT Mario Zagallo segue l’unico criterio di schierare tutti i giocatori più tecnici a sua disposizione: Gerson, Jairzinho, Tostão, Rivelino e Pelé compongono il pentagono più offensivo e spettacolare che il mondo avesse mai visto fino a quel momento. Il Brasile vince tutte e 6 le partite, segna oltre tre gol di media a partita. È il primo Mondiale trasmesso a colori, e le maglie giallo brillante dei calciatori brasiliani in qualche modo amplificano il senso di grazia e leggerezza espresso dalle loro geometrie in campo. Prima che il Brasile distrugga l’Italia per 4-1 in finale, così il Guardian presenta la partita: «Questa finale è una battaglia per il cuore filosofico del calcio, l’estro e il brio dei sudamericani contro l’astuto catenaccio degli azzurri». A dispetto di un’Italia che non riesce a far coesistere Mazzola e Rivera, il Brasile schiera un pentagono offensivo senza alcun compromesso.

Pelé arriva a quel Mondiale all’apice della carriera e anche se non è ancora vecchio – ha 29 anni – quel torneo finisce per rappresentare un compimento della sua carriera: il capolavoro conclusivo, il puntale sull'albero. Solo un anno dopo lascerà la Nazionale. Molti anni più tardi dirà che dopo la vittoria del ’70 ha provato «Sollievo». Nel 1958 si era presentato al mondo non ancora maggiorenne e aveva strappato record su record: il più giovane di sempre a segnare al Mondiale (segnando al Galles ai quarti), il più giovane a segnare una tripletta (alla Francia in semifinale), il più giovane a giocare, a segnare e a vincere una finale (doppietta alla Svezia). Nel ’62 il Brasile vince ancora, ma Pelé gioca solo le prime due partite prima di infortunarsi alla coscia. Nel ’66 la Seleçao esce contro il Portogallo, in una partita in cui Pelé esce in barella per i troppi falli subiti.

Il ’70 è l’ultima grande occasione di Pelé per scrivere il suo commiato dalla Coppa del Mondo in modo epico. Realizza 4 gol e 6 assist in 6 partite. Con la vittoria finale diventa il primo giocatore a vincere tre Mondiali, un record tuttora ineguagliato. Contro la Cecoslovacchia nei gironi segna uno dei gol più iconici di quel Brasile, un esempio della perfezione estetica che quella squadra era capace di creare: lancio dolcissimo di Gerson in verticale, Pelé addormenta il pallone col petto e lo scarica in porta sul secondo palo con una sufficienza che appare offensiva. Poi, in semifinale, quel leggendario non-gol contro l’Uruguay.

Il brasiliano che recupera palla vicino alla linea laterale è l’ala sinistra Jairzinho. Il modo in cui sottrae la sfera al difensore uruguaiano è di per sé un atto di una superiorità imbarazzante – togliere la palla a un bambino, schiacciare una mosca con le ali spezzate. Il minuto è il 90’ e il risultato di 3-1 per il Brasile. Jairzinho finta un dribbling e poi passa a Tostão, che di quella squadra è il centravanti ma che tende ad arretrare sulla trequarti per cucire il gioco e agire, di fatto, da rifinitore. Tostão se la porta avanti con tre tocchi, poi si accorge che Pelé si sta inserendo a tutta velocità a destra e con un altro tocco gli serve di punta una palla che aggira l’ultimo difensore.

È una palla bella ma anche nervosa, veloce, che rimbalza un paio di volte a pelo d’erba come un sasso sulla superficie dell’acqua. Pelé accelera, con la testa alta e il petto in fuori, l’estetica potente di un centometrista. Il portiere Mazurkiewicz ha capito tutto in anticipo ed esce bene, arriva sul pallone quasi insieme a Pelé, ma non va a terra perché è fuori dall’area e non può bloccare con le mani. E anche perché si aspetta che Pelé lo provi a scartare palla al piede, probabilmente alla propria destra. Così orienta il corpo per scattare in quella direzione. È questa l’opzione più probabile, questa la giocata che si aspetta tutto lo Stadio Azteca, quella che forse ha visto Tostão quando ha servito il filtrante. Invece Pelé fa la cosa più controintuitiva: senza toccare il pallone lo lascia scorrere da un lato del portiere, mentre lui prosegue la corsa e scarta Mazurkiewicz dall’altro lato. Poi frena, sterza per riprendersi il pallone e calcia in torsione chiudendo tutto l’angolo di tiro per cercare di metterla sul secondo palo. Fuori di un niente.

Far passare il pallone da un lato e superare l’avversario dall’altro. Nel continente sudamericano si chiama “cola de vaca”, letteralmente “coda di vacca”, e pare alludere al modo in cui i primi giocatori nei campi improvvisati in campagna dribblavano le mucche al pascolo. Pelé però realizza il suo dribbling senza toccare il pallone. Beffa il portiere, a dire il vero, senza nemmeno una finta vera e propria, ma solo adottando una coordinazione di corsa ingannevole. In sostanza, Pelé vince la sua sfida delle tre carte con Mazurkiewicz nel momento in cui devia leggermente la sua corsa verso sinistra e accelera come se sul pallone volesse arrivarci in anticipo per scartare il portiere.

In un gioco che si fonda sul pallone è piuttosto controintuitivo, se non diabolico, il proposito di manipolare il contesto senza toccare la palla. Non mi riferisco alla rinuncia del possesso da parte di una squadra, ma alla scelta volontaria del singolo giocatore di fingere di toccare il pallone per avere un vantaggio. I brasiliani sono maestri in questa arte sottile e maliziosa. Nessuno storicamente è più esperto di loro nella specialità della “finta di corpo”, della simulazione del contatto con la palla, dell’elusione. Generazioni di dribblatori brasiliani hanno affinato la tecnica, ampliato il repertorio di depistaggi possibili: Garrincha con la finta di andare da un lato per poi sterzare dall’altro; Ronaldo con il doppio passo; Ronaldinho con l’elastico e con il gol segnato al Chelsea da fermo, ingannando il marcatore solo col movimento “da twist” del piede e del corpo.

La finta classica di Garrincha.

L’inclinazione dei brasiliani per un calcio dell’elusione trova le sue origini in ragioni etnico-sociali, nella società brasiliana razzista di inizio Novecento che vietava letteralmente ai calciatori neri di toccare quelli bianchi. «E allora i primi di loro studiano movimenti, finte, proprio per sfuggire al controllo, al contatto con i bianchi» scrive Olivier Guez in Elogio della finta. La finta, quindi, come strumento per spostare il corpo dell’avversario da un lato e passare dall’altro senza toccarlo. L’ultimo discendente dei dribblatori brasiliani, Neymar, è così refrattario al contatto coi difensori al punto che appena sfiorato cade.

Un’altra vetta storica dell’arte di manipolare il gioco senza toccare la palla è in questa giocata di Riquelme.

La filosofia del tocco soltanto accennato è un modo barocco di intendere il calcio, perché apre a una gamma di giochetti altamente spettacolari e coreografici, ma al contempo ha qualcosa di minimalista, nel senso che appare legata alla volontà di ottenere il massimo col minimo. Dopotutto l'aspirazione è quella di piegare il contesto al proprio desiderio senza intervenire davvero. Manipolare l’azione attivando un gioco d’ombre, inducendo il marcatore a prefigurarsi nella mente immagini inesistenti. Giocate come quella di Riquelme, di Garrincha, di Pelé rappresentano il massimo della rarefazione della tecnica calcistica perché realizzano l’utopia di un calcio giocato con la mente e non col corpo. Per questo il velo di Pelé contro l’Uruguay è forse la giocata che meglio racchiude, anche meglio dei 4 gol segnati, tutta l’essenza di Pelé a Messico ’70. È una giocata rappresentativa di un calciatore maturo, che avvicinandosi alla fine della carriera ha imparato ad aggirare i limiti del corpo affinando un calcio più spirituale.

Per tutto il torneo Pelé gioca un Mondiale minimalista. Guardando le partite si può rimanere stupiti di quanto poco Pelé tocchi il pallone, di quanto il suo coinvolgimento nelle azioni si risolva a volte in piccole cuciture sulla trequarti. Pelé non è il regista della squadra (lo è Gerson), non gli è richiesto di dribblare in fascia con serpentine barocche per creare superiorità numerica (compito delle ali Rivelino e Jairzinho), né di rifinire l’azione (Tostão). Eppure fa un po’ tutte queste cose insieme, con la duttilità dei calciatori migliori e la saggezza di chi in ogni momento sa prendere la scelta giusta. Sulla carta parte in attacco accanto a Tostão, ma di fatto, compensando il movimento a venire incontro di questo, Pelé taglia spesso in area come il più sfuggente degli attaccanti ombra. In un Brasile di maestri del tocco che si esaltano col pallone tra i piedi, Pelé tocca la vetta di maturità della sua carriera limitandosi a fare da contrappunto ai movimenti fluidi dei suoi compagni. Vivendo un Mondiale di spazi clandestini, di tagli sul lato debole dell’azione.

Pelé è sempre stato piuttosto estraneo alla tradizione calcistica della futebol arte. Non è mai stato un giocatore attratto dall’idea di bellezza fine a se stessa. Era molto concreto, efficiente, sempre proiettato a eseguire la giocata più breve per arrivare al gol. In lui si indovina la tensione verticale che anima alcuni calciatori contemporanei, l’energia che a ogni possesso di palla sembra scuotere il campo e inclinarlo verso la porta avversaria. A Messico ’70 non fa eccezione, anzi: scava ancor di più il suo gioco fino a mettere in risalto la sua vena più pragmatica. La finezza delle letture, l’intelligenza nel vedere tre o quattro giocate avanti, il gusto per un calcio mentale. Il non-gol contro l’Uruguay è la sintesi del Mondiale ’70 di Pelé: c’è un inserimento sul lato debole, la potenza atletica (presente proprio perché risparmiata per i momenti giusti), la capacità mistica di controllare il contesto con la sola attività cerebrale.

Veniamo da un Mondiale, quello del 2022, in cui abbiamo celebrato il compimento di Messi come calciatore. Lo abbiamo indicato come il suo Mondiale-capolavoro, il torneo in cui ha compensato l’inevitabile decadimento fisico aumentando i livelli di attivazione mentale ed emotiva. Abbiamo sottolineato i parallelismi del suo Mondiale con quello di Maradona del 1986. Un confronto fin troppo semplice, a portata di mano. Eppure, allargando lo sguardo a Messico ’70, ci accorgiamo che l’ultimo Mondiale di Pelé ha forse più elementi in comune con quello di Messi di quanti non ne abbia il Mondiale di Maradona, se non altro perché quelli di Pelé e di Messi sono arrivati verso il tramonto delle rispettive carriere. Due mondiali che, capolavori di età matura, hanno blindato il loro mito mostrando non la versione onnipotente ma quella più intima del loro talento.


  • Salentino e studente di Architettura. È nato il 23 dicembre come Morgan, Carla Bruni e Vicente Del Bosque.

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