I nostri dieci ricordi sportivi del 2022
Un anno di eventi che ci hanno segnato nel cuore e nella mente.
Il Mondiale di Leo Messi (di Federico Sborchia)
“Se c’è giustizia, lo vince Messi.” Questo mi dicevo un paio di mesi fa, quando ancora il mondiale in Qatar era solo un cumulo di storture messo in piedi dalla FIFA. E, in fondo, cos’è più giusto di vedere uno dei più grandi della storia vincere il trofeo più bello a cui si possa ambire? In questi 18 anni, Leo Messi ha dato al calcio, e allo sport in generale, delle cose mai viste e alla fine era giusto che qualcosa gli venisse restituito.
Il suo mondiale è stato un romanzo di formazione perfetto, dalla caduta contro l’Arabia Saudita ai fantasmi contro il Messico fino al suo lampo, teso a incrociare, che squarcia le tenebre e dà il via alla sua rinascita. Prima di questo mondiale, Messi non aveva mai segnato in un’eliminatoria. In questo ha segnato sempre. Si è preso tutti i rigori: ne ha sbagliato uno solo – probabilmente il meno importante – ma poi li ha segnati tutti, fino all’ultimo, che poi sarà anche decisivo. Alla fine ha vinto lui. E ha vinto da protagonista: sette gol, tre assist, cinque volte uomo partita e alla fine anche MVP. A 35 anni. Al suo ultimo mondiale. Una storia talmente bella e perfetta da sembrare irrealistica.
Questo è stato il mondiale della scaloneta, simbolo di un collettivo umano prima che sportivo e in cui tutti si sono sentiti valorizzati e al centro. È stato anche il mondiale del Dibu Martinez, del Cuti Romero, di Enzo Fernandez e di Julian Alvarez. È stato anche il mondiale del Marocco di Regragui, di Kylian Mbappé e di Luka Modric ma, alla fine, con buona pace di tutti, è stato soprattutto il mondiale di Lionel Messi.
In questo mondiale ho trovato tanti momenti incredibili ma il mio preferito l’ho scoperto qualche ora dopo la fine della partita. Messi è abbracciato ai suoi compagni durante la serie di rigori in finale, noi non lo vediamo ma il rigore è l’ultimo, quello di Montiel. Capiamo solo quando entra la palla perché Leo si lascia cadere sulle sue ginocchia. È forse il primo momento in cui realizza. Tutti lo abbracciano, tutti cercano Messi, tutti sono felici per Messi. Lo aveva detto anche Mac Allister prima del mondiale: “Vogliamo vincere per lui.” Alla fine hanno vinto con lui.
L'ultimo atto dell'era Federer (di Marco Bellinazzo)
Anche soltanto pensare di poter raccontare in poche righe quello che è stato Roger Federer per il tennis, ma più in generale per lo sport, è un esercizio non solo impossibile, ma persino presuntuoso per noi che forse nemmeno ci rendiamo conto di quanto siamo stati fortunati ad essere testimoni di una carriera di quelle che incidono la storia di una disciplina, cambiandone il suo corso.
Roger Federer è stato una meravigliosa rivoluzione e, il 23 settembre di questo 2022, ha voluto regalarci l'ultima pennellata di una carriera alla quale tanti di noi, negli anni, si sono uniti in una simbiosi quasi mistica, religiosa, in una devozione incondizionata verso uno di quegli atleti che non è stato soltanto un brillante rappresentante della sua disciplina, ma che è stato a tutti gli effetti la disciplina stessa, almeno per molti dei suoi innamorati.
Per un'intera generazione Roger Federer è stato più di un fantastico tennista, è stato “il tennis” e, se è impossibile rinchiudere in questo spazio il suo significato più profondo, è bastato vedergli pestare il campo per l'ultima volta, in quella sera di Laver Cup di 3 mesi fa, per rivivere tutto quanto senza bisogno nemmeno di una parola.
Ha scelto di annunciarlo dopo mesi di silenzio, di speranze ed incertezze, con un messaggio sereno, elegante come è sempre stato, quasi come se fosse lui a doverci convincere che andasse bene così, che non fosse successo niente. Che la vita va avanti, e forse anche il tennis.
Ha scelto un doppio al fianco del suo rivale di sempre, l'uomo che, togliendogli il dominio incontrastato del mondo, ha contribuito a rendere quest'epoca sportiva irripetibile, segnata da una rivalità che verrà inevitabilmente presa a paragone da qui all'eternità.
E ha perso, mancando un match point, ricordandoci ancora una volta che, dietro quelle cristalline sembianze divine, è il Federer umano che abbiamo amato così visceralmente, e che ci ha avvicinati così tanto a questo sport.
È stato l'ultimo atto dell'era Federer. E noi abbiamo avuto il privilegio di viverla.
Rossi di gioia (di Luca Barbara)
Finalmente. Ci sono voluti 13 lunghissimi anni ma finalmente uno dei “nostri” è tornato a vincere il campionato del mondo piloti di MotoGP. Sembrava che qualcuno avesse lanciato una maledizione sulla testa di Valentino Rossi e dei suoi eredi nell'anno 2009, subito dopo la conquista del nono titolo mondiale da parte del 46. Finché, dopo stagioni di amari secondi posti, nelle quali Morbidelli e, soprattutto, Dovizioso hanno provato a sovvertire le ormai definite gerarchie ispanico-francesi, un pilota italiano è tornato a primeggiare in classe regina. Francesco Bagnaia, classe 1997, torinese di nascita, romagnolo d’adizione, illustre prodotto della VR46 Academy, già trionfatore in classe 250, è campione del mondo di MotoGP!
Corre l’anno 2022, per l’esattezza il 13 d.V. (dopo Valentino) ma ricorre soprattutto il cinquantennale dall'ultima vittoria del binomio pilota italiano su moto italiana. Giacomo Agostini sulla sua “Superveloce” MV Agusta, per l’appunto, era stato l’ultimo fiero centauro a condurre la gloriosa tre cilindri Made in Italy sul tetto del mondo.
Una vittoria per nulla scontata quella di Pecco, nonostante la rossa di Borgo Panigale, quest’anno, sia stata evidentemente la moto migliore (e la top 10 finale è lì a dimostrarlo) .
La lunghissima annata motociclistica, infatti, ha condensato tante stagioni in una, ma più passavano le gare e più il campionato entrava nel vivo, più Pecco sembrava destinato al successo, complici gli opposti stati di salute di Yamaha e Ducati. La moto giapponese ha faticato praticamente per tutta la durata della stagione. Poco efficace la ciclistica, ancora meno il motore, evidentemente inferiore a Ducati, Suzuki, Honda e probabilmente KTM. La rossa, al contrario, andava che era un piacere. Sono stati tanti, infatti, i piloti che sono riusciti a sfruttare al meglio le performance delle loro Desmo, da Martin a Zarco, da Marini (uscito bene nell’ultima parte di stagione) a Bezzecchi, rookie of the year e promessa più lucente del motociclismo italiano.
Adesso è ancora tempo di festeggiare, nonostante in Ducati si stia pensando al futuro già da un po’. Il lavoro fatto negli anni da piloti ed ingegneri (Andrea Dovizioso, in particolare, è stato uno splendido sviluppatore) non può essere dissipato. La Ducati, finalmente, è la moto di riferimento del mondiale ed è chiaro come adesso per vincere non sia necessario avere in scuderia un manico come Casey Stoner, ultimo campione del mondo rosso prima di Pecco. È sufficiente che il pilota sia talentuoso al punto giusto, sappia leggere i momenti della stagione, sia rispettoso nei confronti suoi e del suo team, sia serio e meticoloso nei dettagli ma soprattutto che sappia lavorare in armonia con il resto della squadra. Semplicemente, basta essere Francesco Bagnaia.
Milan, visto, non visto, vissuto (di Nicola Balossi)
L’essenziale è invisibile agli occhi. In effetti mentre l’Inter gioca lo scontatissimo recupero del Dall’Ara per incassare la cambiale che da mesi zavorra la classifica tu sei fuori a cena e nemmeno controlli il livescore. Poi un commensale di fede neutrale annuncia che l’Inter pareggia, anzi no, perde.
Quasi a malincuore ti rassegni a crederci, perché due indizi fanno una prova: il gol di Tonali al 92esimo con la Lazio aveva una tinta tricolore che l’amnesia di Radu ha reso più vivida. Ti tocca smettere di dormire, ti tocca rivedere i dieci anni anzi undici - più dannati che belli – dall’ultimo scudetto.
La prodezza di Sansone ti costringe ad abbandonare l’atarassia per riscoprire il brivido di chi vede il traguardo. Giorni amabili e complicati; ti comporti come un padre di famiglia che fa cose da padre di famiglia ma l’occhio rosso e pallato tradisce il tuo cuore in subbuglio.
Nella mente ti scorre in loop il film di ignobili torture, allenatori di dubbio gusto, campagne acquisti penose, stagioni di schiaffi in cui la legge di Murphy sembra scolpita a caratteri rossoneri, giorni tetri in cui prendi gol dal portiere al 95esimo o cinque fichi a Bergamo da girare per strada con le orecchie rosse. Anni in cui la Juve ti toglie anche le briciole di Coppa Italia, anni di susismo (patologia semicronica che spinge a scambiare la piaga per la cura), in cui cerchi qualcosa nel Principito Sosa o in Gustavo Gomez, ti emozioni per un colpo al citofono di Mattia Destro o per l’arrivo di un Ricardo Rodriguez. Ma è tutto vanificato dall’effetto Piatek, il fenomeno che trasforma chiunque - anche Higuain - in un paracarro.
Pioli e Ibra hanno visto il cigno nell’anatroccolo e l’hanno guidato fin qui ma non basta la papera (sic) di Radu: manca un poker di gare da vivere con il destino in mano e bisogna mostrarsi all’altezza della metamorfosi. Rivedi i fantasmi di Istanbul e la Coruña e già che ci siamo pure l’intruso Wimbledon 2019 che non c’entra ma c’entra sempre – ove per poco il cor non si spaura. Ti appelli ai numi tutelari, Baresi, Shevcenko, persino Van Basten con il giubbotto di renna e le lacrime discrete.
Con la Fiorentina la voce di San Siro scaccia la tremarella, poi la zampa di Leao e la mano di Mike. Parte il tam tam sulla Verona due volte fatal, ma ci pensa Tonali, vecchio cuore in corpo giovane. Gli incubi assumono i colori dell’armata gasperiniana ma Theo cavalca dalla cima al fondo come se Giorgione Weah gli avesse infuso il suo grande spirito. Di Sassuolo non è il caso di parlare se non per dire che si è girato Giroud, come ha girato il derby che ha girato la stagione.
Il resto è una festa confusa e inattesa in cui Paolino ti guarda dal double decker della dirigenza (sì, tra tutti proprio te!) e con quell’occhiata conferma senza parole che questa è solo la parte visibile di un immenso iceberg di lavoro, passione, memoria e travaglio, insomma l’essenziale.
Albertville-Col du Granon, ovvero il coup de théâtre (di Massimiliano Bogni)
Se il ciclismo su strada è riuscito a ricostruirsi credibilità dopo gli scandali legati al doping lo deve a una generazione di talenti dalla qualità senza precedenti. Van der Poel, Van Aert, Pidcock, Ganna, Evenepoel, Roglič. E potremmo andare avanti a lungo. La completezza e la sensazione di invincibilità che dal 2019 Pogačar ha trasmesso in sella a una Colnago, tuttavia, è qualcosa che ha trasceso la logica. Pogi è riuscito nell’impresa di rendere le vittorie altrui nient’altro che sconfitte sue. Quando lo sloveno dell’UAE aveva voglia di imprimere il sigillo su una classica o un Grande Giro, non ce n’era davvero per nessuno.
Il 13 luglio 2022 è data spartiacque nella storia delle corse a tappe. Pogačar è parso umano, stanco. Si è forse creduto superiore. Ma ha perso.
L’undicesima tappa del Tour de France, dopo l’antipasto del giorno precedente sulla Super Planche des Belles Filles, è la regina incontrastata dell’edizione 2022. Pogačar comanda già la classifica con 39’’ sul più immediato inseguitore: Jonas Vingegaard. La giovane carriera del danese sembra creata in laboratorio per ricostruire l’identikit del perdente di successo: secondo dietro a Tadej nel Tour 2021, indietro nelle gerarchie iniziali della Jumbo rispetto a Roglič.
Nonostante i soli 26 anni, quella nelle gambe di Vingegaard è paradossalmente una delle ultime occasioni della carriera per cambiarla. Pronti via e scattano Van Aert e van der Poel: il pomeriggio è stato un crescendo rossiniano di emozioni. Primož, dopo la caduta di Arenberg, ha in canna l’ultima cartuccia: a 70 km dal traguardo, in cima al Télégraphe, i gialloneri sferrano l’attacco a Pogačar. Nel fondovalle prima del Galibier non si contano attacchi, allunghi e contrattacchi tra i due della Jumbo e Pogačar: un momento sembra che Primož voglia allungare per fare da testa di ponte, un attimo pare che Tadej riesca a staccarli prima dell’ascesa sul Granon, un istante e Jonas mostra chiaramente chi ne ha di più.
Prendetene e godetene tutti.
L’Italvolley maschile Campione del Mondo (di Andrea Ebana)
Piccola e doverosa premessa: per la pallavolo italiana questo 2022 è stato un anno magico e ricchissimo di titoli. Le squadre azzurre hanno portato a casa ben 11 titoli, tra nazionali giovanili e seniores, da aggiungere al Mondiale per Club recentemente vinto da Perugia (al maschile) e Conegliano (al femminile). Il movimento funziona ed è all’apice della sua competitività, dai settori giovanili alla qualità delle categorie e nazionali seniores ed anche del suo appeal, risultando il secondo sport più seguito dopo il calcio nel nostro paese.
Il punto più alto e più memorabile di questo magic moment è stato indubbiamente il trionfo nel Campionato Mondiale di Volley maschile, ottenuto a Katowice l’11 settembre, a seguito di una cavalcata trionfale in cui gli azzurri superarono la Francia campione olimpica nei quarti di finale ed i padroni di casa della Polonia in finalissima, di fronte a 12 mila sostenitori avversari.
Tutti gli appassionati di volley, ed anche i neofiti, si sono identificati in una nazionale formata da un gruppo giovanissimo, totalmente rinnovato, che non partiva certo con i favori del pronostico, a differenza del recente passato ricco di campioni che però in azzurro non hanno mai raccolto grandi risultati: il merito principale nell’aver creduto in questo passaggio generazionale è del CT Ferdinando De Giorgi, per i cultori “Fefè”, che ha insistito sulla strada del ricambio senza tergiversare, mietendo peraltro vittime illustri nel diramare le convocazioni, lo Zar Ivan Zaytsev su tutti, e confermando solo 2 reduci dalla disastrosa avventura olimpica di Tokyo.
Messi da parte i monumenti ed i curricula, il tecnico ha fatto qualcosa che nessuno, in Italia, ha il coraggio di fare: dare piena e totale fiducia ai giovani, rischiando sulla propria pelle, senza se e senza ma. La scelta ha pagato eccome, e se l’Europeo vinto l’anno prima poteva esser figlio di una casualità, questo titolo Mondiale ha mostrato come quella linea fosse quella giusta: oltre alla certezza Giannelli, sono esplosi i Michieletto, i Lavia, i Romanò, e tutta una serie di atleti che sono presente e futuro della nostra pallavolo.
Questo manipolo di giovani campioni, con una età media pazzescamente bassa rispetto al risultato raggiunto (24 anni), è stato più forte di avversari ostici come USA, Brasile, Cuba, Francia, Slovenia, Polonia, ma soprattutto è stato più forte delle perplessità che questo paese mostra ogni qualvolta si punti sulle rassicurazioni dell’usato sicuro: il bello deve ancora venire, e viene facile pensare a Parigi con un gruppo dalla carta d’identità così verde.
Oggi però è il momento dei bilanci, del presente, e il presente dice che siamo Campioni del Mondo dopo più di vent’anni di digiuno, con un movimento ed una ricetta che potrebbero esser un esempio da seguire non solo sul taraflex.
Nadal nel suo giardino (di Giuseppe Menzo)
Ora, con tutta la buona volontà del mondo, uno sportivo lo si può ammirare, lo si può amare, lo si può invidiare e lo si può addirittura odiare, ma che con la sua forza di volontà fuori dal comune, con la sua capacità di soffrire oltre l’umana comprensione e con la sua resilienza quello stesso sportivo oggetto della tua venerazione e/o antipatia possa in un qualche modo farti sentire umiliato, beh, questo mi pare un po' troppo.
Ecco, Rafael Nadal Pereiro da Manacor, Maiorca, nell’arco di questo 2022, è riuscito a fare questo: a farmi sentire umiliato.
Pur essendo un suo tifoso e pur avendo gioito come mai prima per un evento sportivo, il suo 14° sigillo al Roland Garros di quest’anno mi ha fatto sentire beatamente inadatto all’esistenza e felicemente consapevole di che abito di positività e resistenza si debba indossare ogni singolo giorno della nostra vita.
I più sapranno che il maiorchino ha sofferto nel corso della stagione tennistica che ci siamo lasciati alle spalle di gravi dolori al suo piede sinistro, causati dalla sindrome Műller- Weiss dalla quale è affetto almeno dal 2005, e che mai come quest’anno si è vociferato, proprio in occasione dello Slam di Rue De Boulogne, di un suo possibile ritiro e che tra dolori atroci palesati a Roma contro il canadese Denis Shapovalov e punture che mirassero ad anestetizzare tutto l’arto inferiore interessato, le possibilità che lo spagnolo alzasse domenica 5 giugno, sul Philippe Chatrier la sua ennesima Coppa dei Moschettieri erano pressoché nulle.
E invece. E invece è successo l’impensabile a partire dalla maratona vinta contro Felix Auger Aliassime, passando per l’epico scontro serale contro Novak Djokovic, oltrepassando la straziante semifinale disputata contro uno sfortunatissimo Alexander Zverev e chiudendo in bellezza, con l’incontro più facile di tutti, con il Norvegese Casper Ruud.
Perché Rafael Nadal non ha solo messo una tacca in più alla sua splendida carriera, ma si è anche immolato per gli appassionati che – sono sicuro – ne hanno ammirato la sofferenza apprendendo una preziosa lezione.
Gli straordinari mondiali di nuoto dell’Italia a Budapest (di Antonio Mazzolli)
Un movimento mai così competitivo e in grado di giocarsela con le potenze mondiali di tutte le discipline. Se poi pensiamo che l’età media dei medagliati a Budapest 2022 è clamorosamente bassa, possiamo pensare di toglierci ulteriori soddisfazioni negli anni a venire. Nei mondiali a vasca lunga, il medagliere azzurro segna 9 medaglie d’oro, 7 d’argento e 6 di bronzo, dietro solamente alle superpotenze Stati Uniti e Cina.
Una rassegna mondiale con diverse facce protagoniste. La prima è quella di Gregorio Paltrinieri, oro nei 1500 libero e nella 10 km di fondo, argento nella 5 chilometri: sarà lui a fare da traino ancora per alcuni anni. E dietro di lui Domenico Acerenza, argento nella 10 chilometri. Nel fondo siamo presenti anche con il bronzo di Giulia Gabrielleschi nella 5 chilometri e con l’oro di Dario Verani nella 25 chilometri.
Un’altra faccia da ricordare è quella di Benedetta Pilato, capace a soli 17 anni di conquistare un oro nei 100 rana e un argento nei 50. Poi abbiamo la conferma di Simona Quadarella, ormai punto fermo del nostro nuoto, bronzo negli 800.
Tra gli uomini Thomas Ceccon e Niccolò Martinenghi si candidano a dominare il futuro, così come Alessandro Miressi e Federico Burdisso, che rendono le nostre staffette tra le più vincenti di sempre.
Entusiasmanti e mai pienamente celebrate sono le imprese di Giorgio Minisini e Lucrezia Ruggiero, doppio oro nel duo misto sincronizzato. Così come nel nuoto di velocità, anche in quest’ultimo, a squadre, non ci facciamo ridere dietro.
A chiudere il fantastico argento nei tuffi, raggiunto da Chiara Pellacani e Matteo Santoro, rispettivamente di 19 e 15 anni.
Una crescita costante in acqua, proseguita con il primo posto nel medagliere agli Europei di Roma e successivamente nei recenti Mondiali in vasca corta a Melbourne. L’era d’oro delle Pellegrini, dei Magnini, delle Cagnotto e dei Rosolino è pronta a essere sostituita da – si spera – una generazione di fenomeni.
La Champions del Real Madrid (di Matteo Briolini)
La vittoria della Champions League da parte del Real Madrid è per romanticismo sportivo, seconda solo al Mondiale vinto da Messi.
La quattordicesima delle "Merengues" è stata finalmente il palcoscenico tanto atteso da Karim Benzema, un talento, ma soprattutto un personaggio troppo a lungo bistrattato. Il copione della sua carriera gli ha offerto tante volte la parte di Robin, ma nel suo favoloso 2022, culminato con il pallone d'oro, il francese ha smesso i panni del deuteragonista per diventare Batman e prendersi una rivincita contro i tanti detrattori.
Che dire poi di Carletto? Ogni parola su di lui è un inutile orpello, ma ci proverò comunque. La capacità che ha avuto di gestire il gruppo è stata come al solito decisiva, non essendo questo Real la squadra dominante sul piano tecnico di anni fa. A riprova di questo ci sono le vittorie rocambolesche che, alla luce dell'esito finale, non fanno che aumentare il livello di epicità del trionfo. L'ex Milan, oltre a essersi riconfermato il più grande d'Europa, ha dimostrato che per vincere nelle grandi squadre bisogna essere gestori del materiale a disposizione più che esteti del gioco. La bellezza è inconsistente e fugace, il palmarès invece concreto e duraturo.
Ah quasi dimenticavo: le vittorie contro City e Psg sono state di importanti anche fuori dal campo, viste le controversie di politica sportiva tra i club in oggetto. Senza volersi dilungare su tale spinosa tematica, il Real ha dato un segnale forte, dimostrando che non basta un accozzaglia di campionissimi o gli allenatori più evoluti al mondo per vincere. Serve anche la storia, la tradizione, e quella i soldi di uno sceicco non possono comprarla.
Il nostro primo Festival della Cultura Sportiva (di Lorenzo Lari)
Una tre giorni in cui siamo riusciti a creare spazi di discussione ed ascolto per gli amanti dello sport e delle sue storie, interessati ad approfondire anche gli aspetti meno noti ed affrontati. Un weekend in cui abbiamo avuto la fortuna di avere a che fare con dei giganti, nello sport e nella vita, come Giacomo Sintini, Mauro Berruto, Valentina Petrillo e tanti altri.
Una tre giorni piena e intensa che personalmente, mi ha dato pure la possibilità di intervistare su un palco Federico Buffa, idolo d'infanzia con la quale son cresciuto e con cui oggi posso messaggiare tranquillamente di sport, teatro, musica e quant'altro. Un weekend insolito, che su Rimini non si era mai visto e che speriamo di replicare il prima possibile, con contenuti ancora più interessanti.
Il primo Festival della Cultura Sportiva organizzato da Sportellate.it è stato un ricordo che buona parte della redazione, porterà dentro per un bel pò di tempo.
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