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L'eternità di Messi
Il suo Mondiale è stato un'esperienza irripetibile.
Pochi secondi dopo che il diagonale di Gonzalo Montiel spiazza il tuffo estremo di Hugo Lloris, non lo vediamo più. I calciatori dell'Argentina replicano le corse barbare e indemoniate che da sempre seguono i calci di rigore alla fine di una partita del Mondiale. Lionel Messi non fa in tempo a inginocchiarsi sulla linea del centrocampo e ad allargare le braccia per festeggiare che si ritrova un nugolo di corpi intorno, addosso, ovunque. Di fronte a lui c'è Leandro Paredes, che lo abbraccia disperato. Dalla voce del centrocampista, una voce disperatamente orgasmica, a un certo punto sentiamo: «¡Somos campeones del mundo!».
Pochi secondi dopo, in quell'abbraccio che – sì, capisco sia un'immagine banale – rappresenta mai come stavolta il giubilo di tutti gli argentini, spunta un intruso. Con la maglia dell'albiceleste sui pantaloncini da turista c'è El Kun Agüero, l'intruso di lusso nel trionfo della Seleccion, presente come quell'amico di un'altra classe incontrato in viaggio con la scuola, per mettere la propria effimera firma su un successo che per gli almanacchi non gli apparterrà.
Il salvatore
Non lo vediamo più, nel momento in cui non vorremmo vedere altro che lui. La sua gioia, il suo appagamento, l'estasi dopo un decennio di giudizi gratuiti. È servita l'età della maturazione, a Messi, per marchiare la psiche e il cuore degli argentini in modo indelebile, sfatando il falso mito del «pecho frío». Era considerato uno che in Argentina non riusciva a sentirsi a casa, la sua narrazione autoctona imbevuta di frustrazioni, come il Mondiale del 2014 o le due Copa America successive.
A fine partita il suo romanzo di formazione arriva al capolinea. Messi che abbraccia la madre in campo, aspetta la premiazione con i tre figli in braccio, e dice ai giornalisti: «Sapevo che Dio mi avrebbe dato la coppa». Chi si sente più a casa di lui?
Il bacio alla Coppa del Mondo mentre ha in mano il premio di migliore giocatore del Mondiale è apparso ai nostri occhi come il finale più epico possibile per un remake di Messico '86. Aguero, che ha dormito con lui prima della finale come per tutta la vita prima del ritiro obbligato, innalza Messi al cielo, per calcare l'ultima orma percorribile di Diego. La missione del vicario di Dio che si compie, l'ultimo tassello di una carriera sfarzosa. Quando l'emiro del Qatar gli poggia sulle spalle il bisht, indumento-simbolo di regalità e ricchezza che in qualche modo ci ricorda che anche il più grande calciatore al mondo (e il più popolare sport del mondo) è stato semplicemente usato per fini politici, gli occhi fissi e il petto inorgoglito di Messi riecheggiano già nel mito.
In quel tripudio, mentre è issato sopra tutti i comuni mortali, Messi si è fatto custode del destino dell'Argentina calcistica, ha finalmente assunto al ruolo di salvatore che gli è stato appiccicato sulle spalle da inizio carriera. Per la prima volta si sarà sentito in pace con l'Argentina, avrà pensato di aver fatto sentire il suo popolo eletto come Diego trentasei anni fa. Invecchiato e vicino alla fine, forse il sapore di quella pace interiore per Messi è stato ancora più dolce.
È impossibile spiegare a parole l'influenza ultraterrena sul Mondiale di Leo Messi. Consapevoli che non ci sarebbe stata un'altra opportunità, che questa si sarebbe rivelata come atto conclusivo della trama della sua carriera, abbiamo vissuto le sue giocate con la paura che fossero davvero le ultime, e perciò le abbiamo rese, inconsciamente, ancora più speciali. Con gli occhi segnati dal tempo che è passato anche su di lui – Messi con la barba da uomo di mezz'età, la schiena irrimediabilmente ingobbita, i capelli più corti e ordinari – ci siamo chiesti quanto sarebbe durato Messi in bilico su quel filo sottile e fideistico su cui poggiavano le speranze dell'Argentina.
Quanto sarebbero durati, cioè, quei dribbling rallentati, di un moto ormai uniforme, senza strappi accelerativi, eppure ancora impossibili. Il suo corpo non poteva più regalarci opere d'arte universali, quanto dei frammenti puri ma scollegati. Per aggirare i limiti del fisico in un calcio persino più atrofizzato rispetto ai primi passi della sua carriera, Messi ha affinato il controllo del pallone e dello spazio che lo circondava, l'influenza sui compagni. Ha trasceso i limiti materiali del corpo puntando le sue fiches su ingegno e strategia. Nelle ultime partite di Lionel Messi abbiamo visto materializzarsi in campo il limbo invisibile che separa la giovinezza dalla morte, intesa come fine di tutte le cose umane. Le sue gesta più appaganti, come il filtrante per Molina o il dribbling a Gvardiol, o ancora il tocco d'esterno in finale per il gol di Di Maria, hanno recitato il requiem della sua carriera.
Anche in Messi c'è epica
Nella finale soprattutto, Messi e Mbappé si sono calati nel ruolo di protagonisti di epiche opposte. Uno, l'eroe tragico e romantico di un'epoca passata, metonimia del dolore che si compie nella leggenda, l'altro l'anti-eroe moderno per eccellenza, il freak ammantato di un'apatia e una superiorità ridicole, cristallizzate prima nel riso sardonico durante la Marsigliese e poi nella tripletta in partita.
Quando ci ricapiterà di vedere i due calciatori migliori al mondo sfidarsi in una finale del Mondiale ed essere così decisivi per le proprie squadre? Se in Messi riusciamo a distinguere collettivamente la natura stessa del calcio, non possiamo negare che anche i geni di Mbappé abbiano a che fare con la predestinazione.
Più i minuti scorrevano più pensavamo a come Messi ha affrontato questi quindici anni, riuscendo sempre a illuderci che non potesse aggiungere altre skills al suo bagaglio, o forse pensavamo al fatto che non lo avremmo più visto in un Mondiale. Lui, nel frattempo, continuava a piegare il calcio alla sua volontà, la tecnica di Messi resiliente al tempo come se gli appartenesse per diritto di nascita. Messi, a 35 anni, ci stava mostrando un'altra versione di se stesso, ma quello che non avevamo capito era che questo nuovo Messi sembrava più vivo che mai.
A inizio Mondiale anche il suo gioco rarefatto non bastava all'Argentina. La nazionale messa in campo da Scaloni era coriacea e verticale, aveva le idee chiare, ma senza giocatori in grado di assumersi responsabilità nelle scelte era risultata anemica negli ultimi metri di campo. È servito ricorrere alle forze più fresche, al pressing e al coinvolgimento tecnico di Julian Alvarez ad affiancare Messi nella coppia d'attacco e alla regia di Enzo Fernandez, essenziale per la prima costruzione dell'albiceleste. Due talenti poco più che teenager e un parco di pretoriani guidati da un vecchietto: dove poteva arrivare l'Argentina?
«Noi scendiamo in campo per la maglia, ma giochiamo anche per Messi» aveva detto De Paul dopo la semifinale, in rappresentanza della rosa di scudieri cinta intorno al proprio capitano.
Questa forse è la vittoria che appartiene di più a Messi. Essere riuscito, cioè, a dipingere a lato della narrazione dei muchachos, quella per cui i calciatori dell'Argentina sono i primi tifosi e tutti i tifosi allo stadio o davanti alla tv sudano come i calciatori in campo, la sua storia personale. Per chi è comparso, "Dibu" Martinez, chiudendo la porta a Kolo Muani con una delle parate più eccezionali dei Mondiali? Per Messi o per l'Argentina?
Stavolta semanticamente non c'è stata differenza.
Messi è stato l'Argentina, e tutta l'Argentina si è rispecchiata in Messi. Nel suo esultare in faccia a van Gaal con l'esultanza tipica del Mudo, Juan Román Riquelme, nel mandarlo a fanculo («Que mirás, bobo? Anda pa’llà») proprio di fronte alle telecamere, nel suo rivelarsi finalmente umano. Un'umanità pure contrappuntata da apparizioni assurde, come il gol al 63' della partita contro il Messico, quando l'Argentina pareva troppo poco – mentalmente, fisicamente, tecnicamente – per aspirare al primo posto nel girone.
Le ultime partite di Messi ci hanno riconciliato con la natura artistica e performativa del calcio. In uno sport noioso e intricato, pieno di azioni in cui tutto sembra al posto giusto e invece per un centimetro, per una sporcatura o per un contrasto giunge la delusione, Messi ci ha donato novanta minuti di uno spettacolo così etereo da materializzarsi a ogni pallone toccato. La nostra eccitazione, per una volta, era slegata dal risultato: si consumava per Messi stesso, per l'atto di vederlo passare lentamente dinanzi a noi, fotogramma per fotogramma, come quei time lapse in cui i fiori sbocciano. Ancora una volta, la vita e la morte si sono amalgamate in quei brevi istanti di rito collettivo.
Stavamo solo guardando Messi creare lo spazio subatomico per far filtrare il pallone, scomparire e riapparire come un fantasma attraverso i corpi dei difensori? Oppure quelle scene erano propiziatorie per uno spettacolo più profondo?
Art for art's sake
A Barcellona, in una stanza della Fundació Joan Miró viene proiettato in loop uno degli ultimi video in cui l'artista è vivo. Il documentario ne segue il processo creativo. Un anziano che taglia la tela con un'accuratezza e una concentrazione che crediamo appartenere un altro mondo, poi la brucia negli angoli. Infine, lo vediamo riversarci sopra varie secchiate di vernice, venendo per osmosi inondati a nostra volta dalla potenza di un linguaggio così surreale e incomunicabile.
Un esercizio gioioso e infantile, nonostante Mirò avesse all'epoca tra gli ottanta e i novant'anni, che mi è ritornato in mente quando Messi ha deciso di dribblare tre volte nella stessa azione Josko Gvardiol, il migliore giovane difensore al mondo, in semifinale.
In quella serie di dribbling, oltre che sul difensore croato, tutti gli sforzi di Messi assumono la forma di una danza intorno alle granate del tempo burrascoso, che lo ha martoriato nella rapidità. Non può più bruciare gli avversari sullo scatto, le sue gambe sono più fragili, e perciò si comporta con i difensori come con il tempo stesso: li aggira, scherza con loro, gli nasconde la palla. Li inganna per donarci, da sovrano misericordioso, un ultimo momento di onnipotenza.
Leo Messi has reduced Josko Gvardiol's transfer fee.🙃pic.twitter.com/QZR26hcIda#FIFAWorldCup
— Hrach Khachatryan (@hrachoff) December 13, 2022
Stavamo guardando Messi, dicevamo, eppure eravamo spaesati, ci sentivamo schiacciati a contemplare una bellezza tanto immarcescibile. Di fronte a certe giocate di Messi, così come dinanzi a La Ballerina o The Red Sun di Mirò, non c'è niente da aggiungere. La perdizione è solo l'altro risvolto della trance contemplativa. L'esterno sinistro con cui Messi apre il campo prima che Julian Alvarez verticalizzi per MacAllister nell'occasione del 2-0 contro la Francia, è stata solo l'ultima performance artistica del suo Mondiale.
Se la vittoria della Copa America nel mesto teatro di un Maracana senza spettatori era stata qualcosa di vicino alla liberazione da un maleficio (il primo trofeo dell'Argentina dopo 28 anni, il primo di Messi con l'albiceleste), la Coppa del Mondo che Messi solleva, bacia, si porta a letto il 18 dicembre somiglia invece a un atto di giustizia.
Il singolo istante in cui lui ha raggiunto la pace e noi insieme a lui.
«Si è fatta desiderare» ha detto Messi sulla Coppa «ma è la cosa più bella che ci sia».
Per eguagliare Maradona abbiamo chiesto a Messi di rivelarsi della sostanza metafisica di un demiurgo, l'unico essere umano in grado di assurgere a trait d'union con la dimensione più intangibile del calcio. Fino a quando non ha compiuto la missione di cui lo avevamo irrazionalmente incaricato, la paura latente con cui abbiamo guardato il suo Mondiale ha forse fotografato più noi che lui: è stata la manifestazione della nostra angoscia di fronte a una bellezza che conteneva in sé un briciolo di morte. Una parte del nostro cervello esorcizzava la desolazione grazie ai dribbling e ai gol di Messi, e forse è per questo che assistere al coronamento della sua storia è stata un'esperienza indescrivibile. Che possiamo dire di aver vissuto fino in fondo, venendo ripagati dal compimento di una gloria eterna.
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