Considerazioni sparse post Argentina-Francia (7-5 d.c.r.)
Non la dimenticheremo mai.
- L’Argentina vince per tre volte una finale Mondiale che esce dai confini dello sport e diventa vero psicodramma umano sotto le luci di tutto il mondo, due ore di carne viva e teatro. Abbiamo visto una partita generazionale, che verrà almeno menzionata quando un giorno si dovrà stabilire la partita più bella della storia del calcio. Un incontro che verrà tramandato di bocca in bocca, come una credenza popolare, fino a diventare anche più grande di quello che è stato, fino a diventare parte integrante delle icone sacre che popolano la narrazione di questo sport meraviglioso, oggi tirato a lucido nel suo giorno più importante, come un bambino il giorno della prima comunione. Non la dimenticheremo mai. Grazie;
- L’Argentina vince il Mondiale per un’ora di gioco. Azzanna la Francia, gioca per qualcosa e per qualcuno, è indomabile, quasi ineluttabile nella sua bellezza, figlia del destino che l’aspetta, come tutti sanno. Angel Di Maria si toglie l’inevitabile polvere di dosso e come un detective in pensione si trova a risolvere il caso più importante con i capelli già bianchi, nel momento che attendeva da una vita. Domina, dribbla, segna e piange in un momento di epifania argentina collettiva, 60.000 tifosi ubriachi di felicità, un’estasi. L’albiceleste sente il rumore dei clic dei fotografi, immagina il ritorno a casa tra la folla di Buenos Aires, si immerge nel sogno. Poi si spengono le luci e la partita diventa un labirinto, con un mostro, di nome Kylian Mbappè;
- Alimentata dall’entusiasmo, l’Argentina si pianta al palo non appena subentra la paura di non farcela, il timore della beffa atroce. La Francia di Mbappè, con la sua boriosa e strabordante solidità, figlia della perfezione, rappresenta il mostro perfetto per i demoni argentini. Deschamps mescola le carte, da fondo alle riserve in panchina e alla fine partorisce un episodio, una palla vagante sul limite dell’area, la prima volta in cui la Francia mette piede in area di rigore avversaria, a 15 minuti dalla fine. Tanto basta. È l’amo che serve alla Francia per mettere in moto la sua macchina del terrore e che condanna l’Argentina a vedere il diavolo. Inizia mezzora di paura e delirio, di rovesciamenti senza equilibrio, di calcio con il fumo negli occhi;
- L’Argentina peró vince una seconda volta, anche nei supplementari. Nel delirio psichedelico che si muove sul confine tra eroe nazionale e capofila della disfatta, si fa strada Lautaro Martinez. Il Toro per dieci minuti balla su quel confine come un equilibrista ubriaco. Si divora un paio di gol incredibili che lo marchierebbero a vita, ma crea spazi inesplorati, porta nuovo respiro alla manovra offensiva, tira con l’intenzione di spaccare la faccia a Lloris. La palla alla fine entra grazie al tocco del divino Messi e allora arriva la seconda esplosione, la seconda epifania collettiva. Non basta nemmeno stavolta, un’altra illusione. Ancora i demoni, ancora la paura, il gomito di Montiel è troppo largo, Mbappe fa ancora il sicario e la beffa torna a bussare;
- L’Argentina vince anche la terza volta, quella definitiva ai rigori, grazie all’esuberanza di Emiliano Martinez un uomo che diventa eroe, capace di cancellare le paure di un gruppo in maniera sfacciatamente sbruffona, con sotterfugi e piccole scorrettezze del mestiere, un Masaniello in scena. L’esplosione stavolta è definitiva. È la vittoria del merito, del collettivo, dell’ambizione che a volte supera il talento. Scaloni ha orchestrato una squadra intelligente, parsimoniosa nel suo calcio, ma capace di improvvisi lampi di bellezza e soprattutto, stasera lo abbiamo visto, scavata nella roccia, oltre tutte le paure, finalmente sconfitte;
- Una considerazione extra, ce la concederete, è dedicata all’uomo che ha realizzato la sua missione. Leo Messi ce l’ha fatta. Ha vinto un Mondiale e lo ha fatto da protagonista assoluto. Messi ha costruito e realizzato quello che tutti gli chiedevano. Muoversi di una luce propria, ammantarsi di divino, superare l’umano per tendere al sovrannaturale. Sembrava impossibile, sembrava un film, invece è stato reale. Lo abbiamo visto. Messi è andato in cielo, mostrandosi nel frattempo umano come non mai, nella battaglia rusticana contro l’Olanda, negli insulti a Weghorst, negli infiniti ripiegamenti difensivi di oggi. Come a Fabietto, il protagonista di È Stata La Mano di Dio (un film che stasera più di qualcuno secondo noi riguarderà), anche a Messi è stato chiesto se avesse qualcosa da raccontare. Ce l’ha raccontata, urlandocela in faccia. Dobbiamo essere grati di essere testimoni del suo talento. Grazie.
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