
- di Chiara Finulli
Cinque ritiri eccellenti di ciclisti nel 2022
Nel 2022 cinque ciclisti hanno deciso di appendere la famosa bicicletta al chiodo, chi per limiti d'età, chi per motivi di salute. Ognuno di loro, a modo suo, ha lasciato una traccia, sportiva e umana, nel mondo delle due ruote.
Il 2022 è stato un anno importante per il ciclismo maschile. All’inizio di ottobre, dopo che Tadej Pogacar ha tagliato il traguardo su Lungo Lario Trento a Como che ha sancito la fine del Giro di Lombardia, l’ultima corsa dell’anno, nella stessa gara, facevano le ultime pedalate due giganti del ciclismo, due protagonisti delle corse degli ultimi dieci anni: Vincenzo Nibali e Alejandro Valverde. Tuttavia, non sono gli unici ritiri importanti di quest’anno: fanno loro buona compagnia altri tre ciclisti che per motivi diversi tra loro hanno appeso, o sono stati costretti dalle circostanze, ad appendere la bici al chiodo. Ognuno di loro, a modo suo, ha lasciato una traccia profonda nella storia del ciclismo internazionale e nazionale: per temperamento, vittorie, cadute e rinascite. Il ritiro di ciascuno di loro ha posto degli interrogativi alla comunità sportiva, che ora è chiamata a rispondere.
Per Vincenzo Nibali non bastano queste poche righe per descrivere in modo nitido tutta la grandezza della sua carriera e che cosa ha significato per il ciclismo mondiale e italiano. È stato uno dei cinque corridori della storia del professionismo a vincere tutti e tre i grandi Giri: Vuelta nel 2010, Giro d’Italia nel 2013 e nel 2016 e il Tour nel 2014, ha vinto due volte il Giro di Lombardia e la Tirreno-Adriatico. Nel 2019 l’ultima vittoria importante, e a mio avviso, una delle più belle, romantiche: la Milano-Sanremo, con l’attacco finale, in solitaria sulla Cipressa. In mezzo tanti grandi imprese in salita, ma soprattutto in discesa, la sua specialità: la sua abilità nel guidare la bicicletta lanciato a 80 km orari non ha avuto eguali in questi anni.
La facilità con cui all’attacco della discesa riusciva a dare 20-30 metri in pochi secondi, metteva in imbarazzo gli altri corridori: memorabile l’attacco in discesa sull’asfalto bagnato dopo il colle dell’Agnello al Giro d’Italia del 2016 o al Giro del 2010 sul Monte Grappa, quando un giovane Nibali cerca in tutti i modi di rallentare, di andar piano per aspettare quello che ai tempi era il suo capitano Ivan Basso, ma è talmente superiore tecnicamente che nonostante gli sforzi, stacca Basso in poco tempo. Ci mancherà Vincenzo Nibali, mancherà in particolare al ciclismo italiano che non ha ancora trovato il suo degno erede. Chissà se anche per questo motivo non riusciva a scendere dalla bicicletta.
Se Nibali è stato uno squalo sui grandi giri, uno dei momenti più emozionanti della lunga carriera di Alejandro Valverde, che quest’anno ha compiuto quarantadue anni, è stato il 30 settembre 2018: a Innsbruck va in scena il campionato del mondo su strada e Valverde è ai nastri di partenza a Kufsten. Dopo 253 km, passa a braccia alzate sotto il traguardo di Innsbruck precedendo di pochi metri Romain Bardet e Michael Woods. Non è una vittoria qualsiasi, come le altre della sua carriera, come le quattro Liegi-Bastogne-Liegi, le quattro Freccia Vallone, come la tappa al Giro d’Italia e le quattro al Tour, più la vittoria alla Vuelta del 2009, con tredici vittorie di tappa e un record difficilmente superabile: 7 podi finali in classifica generale.
No, per Valverde la maglia arcobaleno era diventata un’ossessione: tre secondi posti, il primo nel 2003, e quattro terzi, ma non aveva mai centrato la vittoria. Sicuramente a trentotto anni, con i migliori anni alle spalle e avversari più quotati in rampa di lancio, non pensava più di poter dire la sua. E invece, in modo imprevedibile, la dea bendata gli rende omaggio proprio sul più bello.
Nibali e Valverde, di questi due atleti ricorderemo le immagini più belle delle vittorie e soprattutto quella di loro due che in sella alla bicicletta, abbracciati, passano tra le due ali di compagni e avversari prima della partenza del Giro di Lombardia di quest’anno, la loro ultima gara. Adesso comincia il secondo tempo, forse li rivedremo nel mondo del ciclismo o forse no.

Se il ritiro di Nibali e Valverde era in qualche modo un momento che il mondo delle due ruote si aspettava almeno da qualche anno, del tutto inaspettato è stato il ritiro di Tom Dumoulin. Con un post su Instagram a giugno ha annunciato che alla fine del 2022 sarebbe sceso dalla bicicletta definitivamente. La vicenda sportiva e umana del ciclista olandese è una di quelle che scopre sempre un poco il velo che a noi appassionati di sport impedisce di vedere e capire che cosa significhi essere un atleta professionista: non ci sono solo i trionfi e le sconfitte, i soldi e gli allenamenti, ma anche tanti sacrifici fisici, psicologici e affettivi, magari fin da giovanissimi.
Dumoulin nel 2017 era in rampa di lancio: dominatore a cronometro, al primo vero tentativo ha conquistato il Giro d’Italia: non proprio una corsa per specialisti della strada piatta. Poi il buio: il covid, lo stop alle corse, e la decisione di fermarsi a gennaio del 2021: ha bisogno di una pausa, parla di troppa pressione e di necessità di schiarirsi la mente. Poi a giugno, la decisione di tornare alle corse: sprazzi del vecchio Tom, nella sua specialità, la prova contro il tempo, l’argento alle Olimpiadi a Tokio. Le aspettative per l’anno successivo sono rosee. Ma nel 2022 Dumoulin non trova mai la forma da corsa, anzi spesso è un tormento per gli appassionati vederlo affannarsi sui pedali: è come se avesse dei macigni al posto delle gambe.
A giugno 2022, la decisione drastica del ritiro definitivo a fine anno, con la segreta speranza di poter partecipare alla cronometro iridata a Wollongong a fine estate: tuttavia il 15 agosto un altro colpo di scena con la decisione di smettere con effetto immediato. Qualche giorno dopo esce una sua foto proprio a Wollongong, in maglietta a tinta unita, con il braccio destro alzato forse a salutare qualche fan. Il sorriso è ampio: speriamo che sia il preludio a una nuova fase della sua vita più serena.
Se la salute mentale ha inciso sulla carriera di Dumoulin, quella fisica è stata determinante per il ritiro di Sonny Colbrelli. Non dimenticheremo le immagini epiche di Sonny Colbrelli circondato dai fotografi, coperto di fango dalla testa ai piedi, irriconoscibile, mentre piange, urla, buttato sull’erba verde del velodromo di Roubaix: ha appena tagliato per primo il traguardo, davanti a Mathieu Van der Poel, di una delle gare più dure del calendario, la Parigi-Roubaix che se già di solito è una gara dai contorni drammatici, quella del 2021 fu corsa a ottobre invece che ad aprile a causa pandemia di Covid, in un contesto da tregenda.

Allo stesso modo non dimenticheremo i concitati momenti dopo all’arrivo della seconda tappa del Giro di Catalogna di quest’anno, il 21 marzo: Colbrelli, non appena tagliato il traguardo di San Feliu di Guixols al secondo posto, crolla a terra colpito dalle convulsioni e poi da un arresto cardiaco. Sembra il preludio di una tragedia. L’intervento dei medici, i momenti di incertezza, la grande paura, e poi il sollievo: Colbrelli è fuori pericolo. Da quel momento comincia un lungo periodo di riabilitazione, con un solo quesito: quando potrà tornare alle corse e soprattutto: tornerà? Dopo mesi di incertezza, di studio su come gestire la sua carriera professionistica con questa disabilità, alla fine Colbrelli si trova a malincuore ad annunciare il ritiro.
Come per Christian Eriksen, con cui ammette di aver parlato in seguito, deve indossare un defibrillatore sottocutaneo, che però in Italia non ti permette di svolgere l’attività professionistica. Si era anche parlato di un cambio di nazionalità, ma alla fine Colbrelli opta per il ritiro. Rimarranno le immagini di un uomo coperto di fango, in quell’edizione della Parigi-Roubaix e dell’altra grande vittoria della sua carriera, il campionato europeo del 2021.
L’ultimo di questo elenco è qui non perché meno importante, ma perché il suo nome è diventato tristemente noto: Davide Rebellin, travolto e ucciso da un camionista una manciata di giorni fa. Dopo una carriera lunghissima, cominciata nel 1992, a cinquantuno anni Rebellin aveva alla fine deciso di scendere dal sellino – da professionista, ma da amante della bici era ancora in sella – e di smettere con le corse. Specialista delle classiche da un giorno, aveva cominciato a pedalare in un ciclismo di altri tempi, quando i caschetti non erano ancora obbligatori. C’è una bellissima foto che lo ritrae alla partenza di una qualche corsa, un sorriso appena accennato, accanto a un certo Marco Pantani: entrambi indossano quei primi caschi, che sembrano i palloncini che i pagliacci o animatori modellano con le mani per creare cagnolini o spade per i bambini.

In carriera tante soddisfazioni, inclusa quella fantastica settimana dell’aprile 2004 quando in pochi giorni vinse Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi. Poi l’argento nella prova in linea a Pechino nel 2008. Soprattutto quell’atteggiamento di abnegazione, segno di un amore per la bicicletta che lo ha reso un ciclista amatissimo, sia dai compagni storici, sia dai giovanissimi con cui negli ultimi anni si è ritrovato a correre: lui stesso aveva ammesso di sentire la responsabilità nei confronti dei ragazzi più giovani. Forse così si spiega la sua carriera longeva: mancherà, con la speranza che la sua morte non si stata l’ennesima morte “inutile”.
TI POTREBBE INTERESSARE ANCHE...
Chiara Finulli, milanese, classe 1992. Nutro una passione smodata per Tadej Pogačar e per il calcio in ogni sua forma: ogni volta che posso sono allo stadio o sulle strade di qualche corsa. Nel tempo libero lavoro sommersa tra i libri in una casa editrice.
Cos’è sportellate.it
Dal 2012 Sportellate interviene a gamba tesa senza mai tirarsi indietro. Sport e cultura pop raccontati come piace a noi e come piace anche a te.
Newsletter
Iscriviti e la riceverai ogni sabato mattina direttamente alla tua email.
Canale YouTube
La famosa "A" di Franco Armani e molto altro.
Segui il nostro canale youtube per non perderti i nostri video.