Ha senso separare il calcio dalla politica?
L’appello della FIFA al disimpegno è pericoloso, oltre che impossibile da realizzare.
Le condotte criminali intorno al mondiale in Qatar sono note a tutti. Sportellate ha deciso che così come non ha mai rinunciato a raccontare questi aspetti oscuri, allo stesso modo fornirà anche il racconto sportivo di quanto accadrà sul campo. È un modo per offrire un'informazione completa a 360°. Abbiamo approfondito le ragioni della nostra scelta in questo post.
Ai Mondiali il momento degli inni nazionali è una parte fondamentale della scaletta; una cerimonia che conferisce alla partita che sta per cominciare un’aura sacra, un senso di maggiore importanza rispetto alle partite normali. Da casa i telespettatori si sintonizzano abbastanza prima del fischio d’inizio per assistere agli inni, in campo i giocatori partecipano abbracciati e seri. Gli occhi chiusi, le mani sul cuore, le bocche che si muovono in coro. Pochi giorni fa, prima di Inghilterra-Iran, le telecamere sono cadute su una tifosa iraniana in lacrime per l’emozione durante il proprio inno. C’è qualcosa, in quei testi gridati che celebrano la grandezza morale e l’eroicità di un popolo, che in qualche modo responsabilizza i giocatori: il loro lavoro non si tratta più solo di calcio; durante l’inno diventano rappresentanti di una Nazione, gli avatar di un intero popolo. L’inno come rito di transustanziazione quindi: dei calciatori in eroi nazionali, del Mondiale in spazio dove diversi Paesi si contendono un’egemonia politico-culturale. Borges scriveva che nel Truco, un gioco di carte molto diffuso in Sudamerica, ogni partita è la continuazione di partite passate, ogni giocatore posseduto dagli avi che hanno giocato prima di lui. Durante gli inni nazionali è lo stesso: i calciatori diventano altro da sé, continuatori della Storia cominciata dai propri Padri Fondatori.
Sembrerebbe che cantare l’inno abbia un significato politico, dunque. Per contrasto, anche non cantarlo ce l’ha. Come hanno fatto i giocatori dell’Iran alcuni giorni fa, prima della partita con l’Inghilterra, quando sono rimasti muti mentre le note dell’inno iraniano scorrevano fuori dagli altoparlanti dello stadio. Una presa di posizione politica contro il regime di Teheran che lo scorso settembre ha ucciso la 22enne Masha Amini, e che da allora sta reprimendo le proteste di tutti gli iraniani e le iraniane che manifestano per la libertà. Ora si teme che il silenzio dei giocatori possa costar loro rappresaglie del governo, dopo che un politico di Teheran ha affermato che «non permetteremo a nessuno di insultare il nostro inno e la nostra bandiera».
Non è la prima manifestazione anti-governativa della rosa dell’Iran. Nelle scorse settimane Sardar Azmoun e Mehdi Taremi, i due principali talenti della squadra, tra gli altri, si sono esposti in difesa dei diritti delle donne iraniane: «Possono anche escludermi dalla squadra: è un sacrificio che farei anche per una sola ciocca di capelli di una donna iraniana» ha scritto Azmoun in una storia su Instagram. «Vergognatevi per la facilità con cui uccidete le persone. Lunga vita alle donne iraniane». A causa di quelle parole la partecipazione di Azmoun al Mondiale è rimasta in bilico fino alla fine.
C’era anche chi invocava l’esclusione d’ufficio dell’Iran a causa di quei fatti, ma la partita con l’Inghilterra – l’inno muto dei calciatori in mondovisione, le parole di solidarietà del capitano Hajsafi in conferenza stampa – è la dimostrazione che partecipare al mondiale può amplificare il messaggio di protesta più di quanto possa fare una punizione (l’esclusione).
Cantare l’inno è politico, non cantare l’inno è politico. Quella dell’inno è una cerimonia così intrinsecamente politica che, in verità, ogni cosa fatta durante l’inno assume significati politici. Nel 2016 Colin Kaepernick – quarterback afro-americano dei San Francisco 49ers in NFL – si è inginocchiato durante l’inno nazionale americano, per esprimere sostegno alla causa di Black Lives Matter. Un gesto politico quanto quello dei suoi colleghi rimasti in piedi a cantare, ma quello di Kaepernick gli è costato il licenziamento e un’emarginazione dall’ambiente del football che dura tuttora. La sua colpa sarebbe quella di aver “sporcato” la purezza dell’inno alludendo all’ingiustizia della società americana. Sembrerebbe che ci sono gesti politici e gesti politici: quelli che mettono in crisi il sistema al potere sono vietati.
Sembra questa la linea seguita dalla FIFA, questo l’assunto che emerge tacitamente dagli appelli a non politicizzare il Mondiale, diventati sempre più frequenti negli ultimi tempi. Come la lettera che a inizio novembre il presidente Gianni Infantino ha inviato alle 32 federazioni partecipanti. Un appello a tenere la politica fuori dal Mondiale, e a lasciare che il calcio soltanto prenda il centro della scena. Non si capisce se Infantino sia più cinico o più ingenuo ad augurarsi una cosa simile.
Probabilmente non è mai esistito nella storia un Mondiale in cui i sottotesti politici siano così evidenti come in quest’edizione in Qatar. «Assegnare la Coppa del Mondo al Qatar è stato in primo luogo un atto violentemente politico» ha scritto Barney Ronay sul Guardian. Dal momento dell’assegnazione, nel 2010, l’intera fase di preparazione del torneo è sembrata simile a un processo di costruzione di una nazione attraverso lo sport. La politica non ha fatto irruzione solo a Qatar 2022, certo: i Mondiali – come le Olimpiadi, come le Esposizioni Universali – sono da sempre una ghiotta occasione per esprimere il “soft power” di una Nazione, per mostrare al mondo la sua potenza organizzativa e culturale.
Non è nemmeno una questione di convenienza economica, dal momento che organizzare la Coppa del Mondo è sempre negativo per l’economia. Se i governi di tutto il Mondo gareggiano ciclicamente per accaparrarsi l’appalto della Coppa, allora, è per un unico motivo (tangenti e altri vantaggi individuali sommersi a parte): il prestigio politico che essa garantisce. Una lezione che conosciamo almeno dal 1930, quando per la prima edizione del Mondiale molte Nazioni europee, tra cui l’Italia, presentarono la propria candidatura, salvo poi rifiutare l’assegnazione all’Uruguay e boicottare per protesta la competizione.
"Sabbia" è un podcast in quattro episodi scritto e realizzato da Sportellate. Un progetto nato con l'obiettivo di descrivere le fondamenta criminali su cui poggiano - tanto metaforicamente quanto letteralmente - gli stadi di Qatar 2022. Online dal 14 novembre su tutte le piattaforme di streaming podcast.
Non è un fatto politico soltanto organizzare il Mondiale, ma anche parteciparvi. Altrimenti non si spiega perché il presidente statunitense Joe Biden abbia telefonato alla nazionale di calcio, il giorno prima dell’esordio contro il Galles, e abbia ricordato ai giocatori che «Rappresentate questo paese», e li abbia esortati a metterci tutto l’impegno possibile per fare bella figura. Di nuovo gli sportivi come supremi rappresentanti di una Nazione.
L’invito di Infantino a lasciare da parte la politica va in contraddizione con il permesso dato ai tifosi di portare con sé le bandiere nazionali, di sventolarle all’interno degli stadi, di pitturarsi il viso con quei colori che, nella migliore delle ipotesi, raccontano una storia di conflitti e di sangue versato per contendere pezzi di territorio ad altri gruppi di persone – a loro volta rappresentati da altri colori, altri simboli.
Le bandiere non sono forse simboli nazionalisti, e dunque politici? E non sono i Mondiali stessi una manifestazione che si nutre e prolifera grazie ai sentimenti nazionalistici? D’altronde a tutti noi sono sembrate strane, se non buffe, le immagini di questi giorni di tifosi asiatici avvolti dalle bandiere spagnole, inglesi, tedesche. Se nel calcio per club stiamo – faticosamente – sdoganando l’idea che si possa tifare per motivi diversi dall’appartenenza territoriale – per uno stile di gioco, per un calciatore che ci emoziona – nel calcio per nazionali è diverso: l’unico fattore di tifo che accettiamo è il nazionalismo.
La FIFA non è nella posizione migliore per pretendere il disimpegno politico, dopo aver preso in prima persona la decisione politica di escludere la Russia dalle qualificazioni mondiali lo scorso marzo. Eppure i suoi appelli alla non belligeranza sono diventati frequenti negli ultimi anni. Quattro anni fa la FIFA multò, codice etico alla mano, Xhaka, Shaqiri e Lichtsteiner per aver mimato l’aquila albanese dopo aver segnato alla Serbia, nel Mondiale di Russia 2018. Lo stesso codice etico che, però, non ha impedito alla FIFA di assegnare il Mondiale al Qatar, e di farsi complice di un Paese che viola i più basilari diritti umani.
Un codice etico che non impedirebbe alla FIFA nemmeno di assegnare il Mondiale alla Corea del Nord, se si presentasse l’occasione – lo ha detto letteralmente Infantino, in uno di quegli interventi in cui il presidente della FIFA dice di voler “unire il mondo”, con una convinzione che ha qualcosa del troll e qualcosa dell’aspirante Premio Nobel per la pace. (Per dire: ha anche lanciato un appello perché la guerra in Ucraina si fermasse durante il Mondiale).
Inghilterra-Iran, la partita in cui i calciatori iraniani non hanno cantato l’inno per protesta, è stata anche la partita in cui Harry Kane, il capitano degli inglesi, ha rinunciato a indossare la fascia da capitano con la scritta “1 Love” che era stata tanto pubblicizzata prima del torneo. Anche quel simbolo è stato messo fuori legge dalla Fifa, che ha minacciato di punire con sanzioni sportive (un’ammonizione) i capitani che l’avrebbero indossata. Tanto è bastato per distogliere Harry Kane. I media di tutto il mondo hanno accusato più o meno velatamente di vigliaccheria il capitano inglese, specie perché nella stessa partita i calciatori iraniani hanno protestato contro il proprio regime rischiando non l’ammonizione ma la disoccupazione, l’umiliazione, la reclusione, le minacce per loro e i loro famigliari che vivono in Iran. «La vera misura dell’attivismo sta in ciò a cui sei disposto a rinunciare», ha scritto il Guardian.
La fascia One Love aveva il disegno di un cuore con le strisce arcobaleno all’interno, ma il richiamo all’universo iconografico LGBTQ+ era solo superficiale, collaterale. In verità le strisce erano rosse, nere, verdi, rosa, gialle e blu – non esattamente un arcobaleno – e il suo significato di solidarietà rispetto ai diritti delle persone LGBTQ+ solo presunto, dal momento che la promozione ufficiale non lo aveva specificato. L’intenzione ufficiale della fascia era di “promuovere l’inclusione e inviare un messaggio contro la discriminazione di qualsiasi tipo”. E basta: nessuna presa di posizione netta sull’antirazzismo, sull’uguaglianza di genere, sui diritti dei disabili e dei lavoratori accompagnava la sua promozione. Il significato della fascia era così vago e sciattamente politically correct che in fondo sembrava anche ipocrita – un’iniziativa di facciata, l’ennesima spilletta appuntata al petto di persone a cui non costa niente. E infatti è bastata la terribile minaccia di un cartellino giallo per riporla nell’armadietto.
Un piccolo passo avanti lo ha fatto la Germania, che non potendo indossare la fascia One Love ha posato nella foto di squadra prima della partita contro il Giappone con una mano sulla bocca. «È il segno che la FIFA vuole metterci la museruola», ha spiegato il CT Flick nella conferenza post-partita.
Se da un lato la fascetta arcobaleno era così vaga e accomodante da essere inoffensiva, il fatto che sia stata proibita dice molto dell’incoerenza della FIFA. Siamo arrivati al punto che per la FIFA ha un connotato politico pericoloso la parola “amore”? Che differenza c’è tra la fascia One Love e quella che la FIFA ha invece autorizzato, con la scritta “No discrimination”? Il problema è forse nel simbolo dell’arcobaleno, considerato divisivo in un Paese – il Qatar – che sconsiglia di baciarsi in pubblico? Di nuovo, allora, siamo davanti alla contraddizione capitale della FIFA, che da un lato punisce le ingerenze della politica negli affari sportivi, dall’altra prende essa stessa decisioni politiche e – peggio – lo fa “a pagamento”, su commissione degli organi politici che di volta in volta ci mettono i soldi per promuovere i propri interessi.
Mentre il mondiale intensamente politicizzato del Qatar si appresta a entrare nel vivo, i vaneggiamenti della FIFA intorno a un calcio libero da sovrastrutture politiche appaiono contraddittori e insensati. Beffardi, anche, come beffardo è stato il discorso di Infantino in cui ha detto di sentirsi arabo, africano, gay, lavoratore migrante, con una superficialità e un piglio da attivista un tanto al chilo che hanno avuto l’unico effetto di banalizzare le lotte dei veri arabi, dei veri africani, dei veri gay, dei veri lavoratori migranti.
I Mondiali, lo sappiamo, sono di fatto delle rievocazioni pacifiche delle vere guerre. Ai Mondiali tutto è fatto per rinsaldare i sentimenti nazionalisti dei partecipanti, e l’epica stessa del Mondiale – il suo successo, anche economico – si nutre degli eventi geopolitici che gli fanno da contorno. Argentina-Inghilterra a Messico ’86, la partita della “Mano de Dios” e poi del “Gol del Siglo” di Maradona, uno dei match che più hanno contribuito al lustro del brand FIFA World Cup, non avrebbe avuto la stessa carica simbolica senza la guerra delle Falkland. Se si dovesse lasciare la politica fuori dal Mondiale, come richiede la FIFA, semplicemente il Mondiale e l’intero calcio per Nazionali non esisterebbero.
Ma non è solo questo. Ciò che è più paraculo e pericoloso, nell’invito della FIFA al disimpegno, è che promuove una visione del mondo in cui calciatori e tifosi sono privati della possibilità di esprimere la propria opinione. I primi sfruttati come meri manovali dello spettacolo, costretti a giocare senza uscire dal copione; i secondi ridotti a semplici consumatori passivi. Nel frattempo, chi ha scoraggiato la partecipazione politica avrà azzerato le occasioni di dissenso, e riservato per sé il diritto di opinione. Sembra una distopia cupa e lontana, ma di fatto è quello che sta già accadendo: nel caso Kaepernick, nel “bavaglio” denunciato dalla Germania al Mondiale, in tutte le occasioni in cui lo sport ha censurato, guardacaso, proprio le opinioni di protesta.
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