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, 28 Settembre 2022

Nemo profeta in patria. Come un italiano vinse la Coppa d'Africa e venne dimenticato.


Italiano, etiope, eritreo, meticcio, calciatore, meccanico, eroe nazionale, allenatore, reietto... queste sono soltanto alcune delle categorie, delle etichette, nelle quali si manifesta l'infinitamente sfaccettata identità coloniale e transnazionale di Luciano Vassallo, prima capitano eroe e recordman dell'Etiopia regina d'Africa del 1962, poi rifugiato politico, meccanico e allenatore dimenticato sul lungomare di Ostia.


In un paese che non ha mai fatto i conti con il proprio passato coloniale e con le sue conseguenze, in cui penne considerate esponenti di primissimo piano del mondo intellettuale esaltano sul principale quotidiano nazionale la «storia imperiale» e derubricano l’anticolonialismo a una baruffa social, in un momento storico nel quale ci si trova ancora a discutere se chi nasce e cresce in Italia abbia il diritto ad essere italiano, in cui gli “oriundi” sono tema di dibattito sportivo e per tanti l’italianità può essere messa in dubbio a causa del colore della pelle, ritengo sia necessario e attuale raccontare la storia di Luciano Vassallo, morto il 16 settembre 2022 a 87 anni.

Si tratta di una storia nata dagli aspetti peggiori del colonialismo italiano e diventata incarnazione di un mondo post-coloniale di cui ci si è prontamente dimenticati, una storia transnazionale e transculturale che intreccia la storia d’Italia e quella delle sue ex colonie nel Corno d’Africa e, soprattutto, la storia di un grande campione ripudiato e dimenticato da entrambe le sue patrie.

Il Cinema Impero, simbolo del razionalismo italiano ad Asmara e patrimonio UNESCO dal 2017.

La vicenda comincia ad Asmara, capitale della Colonia Eritrea, a metà degli anni Trenta. La città, occupata dagli italiani nel 1889, stava vivendo un periodo di crescita tumultuosa. Il regime fascista, infatti, aveva deciso di trasformarla in una “piccola Roma”, nel simbolo di un nuovo corso del colonialismo italiano in cui – secondo i piani del Pelato – si sarebbe reindirizzato verso l’Africa Orientale l’enorme flusso di migranti che fino a pochi anni prima scorreva verso le Americhe. Mentre le vie di Asmara venivano abbellite da costruzioni in pieno stile modernista, futurista e art déco e ovunque si vedevano fiorire caffè, ristoranti e boutique italiane, nel 1935 la città veniva invasa da soldati pronti a invadere la vicina Etiopia e la discriminazione razziale cominciava a farsi spazio nel discorso istituzionale.

Tra le decine di migliaia di soldati che raggiunsero l’Eritrea in quegli anni, c’era anche il padre di Luciano: «Nostro padre, Vittorio Vassallo, era un ufficiale dell’esercito coloniale di Mussolini, ma noi non lo abbiamo mai conosciuto» raccontava pochi anni fa. «Di suo c’è rimasto solo il cognome». Lui e suo fratello Italo – di cinque anni più giovane e anche lui calciatore – sono due dei tantissimi figli del madamato, ovvero le relazioni temporanee simil-matrimoniali tra uomini italiani e donne locali.

A causa della sua doppia condizione di orfano e meticcio la sua infanzia fu particolarmente difficile: «Era un inferno per quelli come noi. Quando avevo circa due anni mio padre fu trasferito ad Addis Abeba e di lui non abbiamo saputo più niente. […] Al fatto di essere rimasti senza padre, si aggiunse la vergogna delle leggi sui meticci del 1940, con la quale venivamo di fatto considerati ufficialmente una razza inferiore» e si proibiva l’adozione dei figli meticci illegittimi. Una misura che rese orfani oltre diecimila bambini. Alla discriminazione da parte degli italiani, poi, si sommava il disprezzo da parte degli «eritrei purosangue», racconta nella sua autobiografia «Per loro eravamo dei bastardi, figli di nessuno, se non addirittura figli di puttana. Eravamo sfottuti e umiliati tutti i giorni, così in terza elementare ho abbandonato gli studi».

Un soldato italiano con la sua "madama"

Da quel momento la sua scuola diventa la strada, dove, anziché dedicarsi al crimine come molti giovani nelle sue condizioni, si dedica – sempre insieme al fratellino – a infinite partite di calcio. Il suo talento è cristallino, ma il calcio non serve a portare a casa la pagnotta. Così, ancora ragazzino, comincia a lavorare nell’officina delle ferrovie e scopre di essere un ottimo meccanico. Finito il turno continua a giocare a calcio tra i vicoli e le piazze di Asmara fino a che viene ccolto nel Gruppo Sportivo Stella Asmarina, una squadra di serie C eritrea composta da soli ragazzi meticci. Si allena la mattina presto, al buio, senza quasi riuscire a vedere la palla, perché alle 7.30 bisogna entrare in officina. Durante le partite, lui e suoi compagni vengono massacrati di insulti: «ci rompevano le ossa con le parole».

A sedici anni, poi, ottiene una doppia promozione: promosso a caporeparto in officina e chiamato per giocare prima nella squadra delle Ferrovie, poi nel GS Gaggiret in serie B – dove cambia ruolo da terzino a centrocampista – e infine, intorno ai vent’anni, al GS Asmara, la squadra “italiana” della città. Nel frattempo, Vassallo entra nel giro della nazionale etiope (Eritrea ed Etiopia erano stati federati dal 1952) con la quale racconta di una mitica tournée in URSS, nella quale segna un gol al mitologico “Ragno Nero” Lev Jašin, senza avere idea di chi ha davanti. Grazie alle sue prestazioni viene ingaggiato nel Cotton FC, all’epoca la squadra più forte di Etiopia, e grazie all’ottimo stipendio da caporeparto nelle Ferrovie riesce a risparmiare abbastanza per mettersi in proprio.

Poi, nel 1962, il momento più alto della sua carriera: la vittoria della Coppa d’Africa, giocata in Etiopia, insieme a suo fratello Italo. «Allora ero ormai un giocatore consacrato. Avevo 27 anni, da tempo ero il capitano della Nazionale. Anche nella vita privata le cose andavano bene. Avevo un’officina autorizzata Volkswagen, decine di dipendenti. All’inizio della competizione, però, accadde qualcosa che mi fece infuriare. I dirigenti erano consapevoli che avremmo potuto vincere. Molti di loro consideravano disdicevole che la coppa potesse essere sollevata da un meticcio, oltre tutto dal cognome italiano. Ancora discriminazione, ancora razzismo! Prima della prima gara l’allenatore comunicò alla squadra che la fascia di capitano passava al nostro portiere. In modo che in caso di vittoria finale la coppa potesse sollevarla un etiope purosangue. Ci fu una rivolta della squadra. […] E io mi presi la più grande soddisfazione della mia vita: ricevere la coppa direttamente dalle mani dell’Imperatore Hailé Selassié! Non come certi compagni che erano abituati a prostrarsi di fronte all’Imperatore. In quel momento fu la rivincita di tutti i meticci».

Grazie al suo contributo decisivo in entrambe le partite giocate – al tempo la Coppa d’Africa contava solo quattro partecipanti, in quell’edizione Etiopia, Uganda, Egitto e Tunisia – Vassallo vinse anche il premio di miglior giocatore del torneo.

Luciano Vassallo (in primo piano) e suo fratello Italo (con gli occhiali da sole) ricevono la Coppa d'Africa dalle mani dell'imperatore.

Quella vittoria e quel riconoscimento rappresentarono moltissimo a livello personale. Da allora Luciano Vassallo diventa un simbolo per migliaia di etiopi, stimato e osannato da tutti. Sul piano tecnico molti lo iniziano a paragonare a Di Stefano e ad altri grandi fuoriclasse della sua generazione.

Alla fine degli anni Sessanta viene invitato a Coverciano dalla Federazione Italiana per partecipare ai corsi da allenatore, dove conosce alcuni dei suoi idoli, tra cui Cesare Maldini. Tornato in Etiopia, comincia a fare l’allenatore-giocatore al Cotton FC, dove introduce i nuovi sistemi di lavoro appresi in Italia: disciplina, maggiore intensità negli allenamenti, orari precisi, attenzione alla dieta, studio degli avversari e altri elementi per cercare di professionalizzare l’approccio al calcio della propria squadra.

Grazie agli ottimi risultati, nel 1970 passò alla guida della nazionale, nella quale però viene accolto con reticenza sia in quanto meticcio sia per il suo approccio innovativo e scientifico, lontano. Nel 1974 però la Federazione assume al suo posto un tecnico tedesco, tale Peter Schnittger, e Vassallo viene relegato al ruolo di assistente senza ricevere alcuna spiegazione. Furioso, decide di tornare ad allenare il St. George di Addis Abeba, dove nel frattempo vive in una grande tenuta con piscina e dirige una sua officina con oltre trenta dipendenti. Ma anche quest’esperienza si rivela una delusione: «i tifosi erano troppo razzisti e decisi di lasciare».

Nello stesso anno, l’Etiopia viene sconvolta prima dalle carestie e poi dalla rivoluzione: l’imperatore Hailé Selassié viene rovesciato da un colpo di stato e l’Etiopia diventa uno stato socialista mono-partitico sotto la dittatura del Derg, un governo militare dalle maniere piuttosto brutali. Nel frattempo, Vassallo scopre che Peter Schnittger, l’allenatore tedesco della nazionale, impone ai propri calciatori un massiccio uso di medicinali dopanti tra i quali il Captagon, anfetamina nota per essere stata “la droga dei nazisti” (e dell'ISIS). «Lo denunciai sulla stampa locale. Successe il pandemonio. Mi ritrovai tutti contro. Diventai il nemico giurato del calcio di Etiopia».

Tuttavia, questo fu il minore dei problemi a cui va incontro dopo la rivoluzione: «Nel 1974 salì al potere Mengistu Halie Mariam. Uno che conoscevo, un attaccabrighe che creava sempre casini, intascava tangenti, insomma un poco di buono. Io essendo un personaggio famoso e proprietario di un’officina dove si riparavano grosse auto straniere, conoscevo molti potenti locali che portavano da me le loro macchine. Mi arrestarono per complicità col vecchio regime! Mi portarono negli uffici della polizia. In quel periodo era dura nel nostro paese. Tanti sparivano e venivano fucilati senza che le famiglie ne sapessero più nulla. Per strada trovavi cadaveri ovunque. Durante il tragitto dall’officina alla stazione di polizia vidi passare davanti ai miei occhi tutta la mia vita. Ero convinto che mi avrebbero ucciso. Ne ebbi conferma quando mi misero in una sala d’attesa e cominciarono ad insultarmi. Poi mi portarono dal loro capo. Non ci crederà: fu la mia salvezza. Era un mio tifoso! Mi tranquillizzò e mi lasciò andare. Ma io non ero tranquillo per niente. Appena tornato a casa radunai i miei quattro figli e li feci partire per l’Italia. Poi qualche tempo dopo fuggii anch’io».

Luciano Vassallo sui banchi di Coverciano, 1968

Dopo avere attraversato le montagne fino al Gibuti, Vassallo trova spazio in un campo per rifugiati locale. Da lì riesce a prendere un aereo per Roma, dove però viene di nuovo arrestato per problemi legati ai documenti. Risolta la questione, deve comunque ricominciare la propria vita da zero: i soldi, l’officina e tutti i suoi beni erano rimasti in Etiopia, confiscati dal regime. Così comincia a lavorare come meccanico di strada a Ostia, correndo da un capo all’altro della città con la sua borsa degli attrezzi. Con il tempo riesce ad aprire un’officina e, soprattutto, riesce a tornare ad allenare e persino a fondare una propria scuola calcio, l’Olimpia Ostia. Negli ultimi anni della sua vita, ha continuato sempre a lottare. Da un lato per trasmettere i valori dello sport e del lavoro, dall’altro per cercare di poter tornare in Etiopia, rivedere suo fratello Italo che nel frattempo era stato esiliato in Eritrea, e riavere i beni che il regime gli aveva confiscato. Purtroppo, senza successo.

Luciano Vassallo, probabilmente il più forte calciatore della storia dell’Etiopia, con 99 gol segnati in 102 partite uno dei migliori marcatori della storia del calcio per nazionali, ma soprattutto uno dei più straordinari simboli viventi delle dinamiche coloniali e post-coloniali italiane, è morto lo scorso 16 settembre a Ostia, in una delle sue due patrie che, a turni alterni, lo hanno accolto e ripudiato. Nel nostro piccolo, cerchiamo di mantenere viva la sua storia, sia per l’importanza della memoria, sia per tenere a mente la condizione di tutti gli “italiani a metà”.


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  • Genovese e sampdoriano dal 1992, nasce in ritardo per lo scudetto ma in tempo per la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni. Comincia a seguire il calcio nel 1998, puntuale per la retrocessione della propria squadra del cuore. Testardo, continua imperterrito a seguire il calcio e a frequentare Marassi su base settimanale. Oggi è interessato agli intrecci tra sport, cultura e società.

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