La realtà non è come ci appare
Bergamo è una città piccola. Non si parla di provincia, quella è una delle più estese d'Italia. Tra Città Alta, i Propilei e il Sentierone, Bergamo è la definizione enciclopedica della città a misura d'uomo. Circondata dai monti, all'ombra della metropoli Milano ma distante il giusto per goderne della luce riflessa senza venirne abbagliata. L'ideale per chi ricerca la tranquillità, con solo un piccolo assaggio del turbinio vorticoso milanese. Bergamo, città ricca e benestante, culla per antonomasia dell'etica dei piccoli passi, del lavoro quotidiano e della crescita graduale. Guai a fantasticare, badare al concreto quotidiano, con la consapevolezza di avere tra le mani risorse e materie da far invidia a chiunque. Tutti i calciatori della Dea, dai veterani come Hateboer agli ultimi arrivati come Lookman, abitano a un tiro di schioppo dal Bortolotti.
L'umanità del divino
Passeggiando tra via XX Settembre, Piazza Pontida e via Broseta, capita spesso di incrociare calciatori o allenatori, con famiglie, passeggini o amici. D'altronde, il bergamasco è testa bassa e pedalare. Nessun vizio consentito, neanche a chi potrebbe ergersi sul piedistallo della celebrità: il quartetto Gasperini, Tullio Gritti e rispettive mogli è un habitué delle vie del centro. Papu Gomez ha aperto un ristorante argentino a pochi metri dal Tribunale, frequentato oggi da Musso e gli altri argentini. Djimsiti e soci albanesi si fermano sovente per un caffè in Botega. Persone, uomini, che nei piccoli gesti perdono l'aura di invincibilità che la professione di calciatore garantisce agli occhi dei tifosi.
Ce li immaginiamo invincibili, intoccabili, superiori rispetto a noi comuni mortali. In virtù di cosa, in fondo? Grazie a polmoni ipertrofici, piedi fatati o capacità aerobiche inquantificabili? Cos'hanno di migliore rispetto alle mani vellutate di un artigiano, all'udito sopraffino di un meccanico che riconosce il guasto del motore, alla maniacale precisione di un orologiaio? Nel caso dei calciatori, degli sportivi, non è il lavoro in sé ad assicurarsi sguardi, occhiate, urla, richieste di foto o autografi. No: è la conseguenza delle corse, dei passaggi, delle parate e dei gol.
Ho un'immagine ben chiara in testa: nel giro di pochissimi minuti, un paio di mesi fa incrocio Roberto Piccoli e Alekseyj Miranchuk. Uno con maglia e pantaloni bianchi, cinta Gucci, occhiali da sole e monopattino elettrico. L'altro con cappellino, canotta dei Nirvana, pantaloncini che sembrano un costume da bagno e ciabatte Adidas arancio fluo. Lascio a voi l'associazione tra nome e abbigliamento. Saluto entrambi. Entrambi, sorriso a 32 denti, rispondono con un cenno del capo. Niente di più, niente di meno.
Cosa aspettarsi di diverso? Sono due giovani uomini, vestiti come giovani uomini, salutati da un giovane uomo che non conoscono di persona. Non avrebbero dovuto calcolarlo, in nome di uno status sociale più elevato? Avrebbero dovuto elemosinare una parola o un gesto, come se dovessero fare della beneficienza? No. Ma nell'immaginarlo del semplice frequentatore dello stadio, hanno e sempre avranno un qualcosa in più.
L'insostenibile leggerezza dell'essere calciatori
Venerdì 16 settembre incrocio una delle mie nemesi sportive.
Richiedo un piccolo sforzo creativo. In un immaginario 2060 nel quale i nonni ancora raccontano gesta e imprese dei tempi che furono ai nipotini davanti al tepore di un camino, Jaume Domenech scoppia a piangere. Per l'ennesima volta, ricorda un aneddoto della propria carriera da portiere del Valencia. Stavolta, però, il destino crudele si incarna nella voce e nel dito puntato di uno dei pargoli. "Sì, ma tu hai subito gol da Hans Hateboer. Due volte. Nella stessa partita". Questi giovani, non hanno proprio rispetto per le vecchie generazioni. E giù lacrime.
Hateboer. Hans Hateboer. IgnorHans Hateboer. Ancora non te lo spieghi, come faccia a giocare in Serie A. Un tuo amico, col quale condividi inclinazioni e pregiudizi nei confronti dei giocatori dell'Atalanta, ama ripetere: "Questo ha due piedi sinistri montati al contrario. Ed è destro di piede". Prima la frustrazione era per la lentezza di Cristante nelle transizioni offensive, ora sono per i passaggi sbagliati e le rimesse laterali sbilenche dell'olandese.
Ma si può non saper fare le rimesse laterali, se sei un giocatore professionista? Senza più gli spazi e le imbucate celestiali di Ilicic, tutti i suoi macroscopici limiti tecnici sono venuti a galla. Non ti spieghi quale relazione clandestina abbia con Gasperini o famiglia, per calcare così tante volte la fascia destra del Bortolotti (scusate, ma Gewiss Stadium non ce la faccio proprio a chiamarlo). Castagne era sua riserva storica, Zappacosta e Soppy sono stati spostati sulla sinistra, pur di mantenere Hans nell'undici titolare. Classico esempio di come gli occhi e la mente di un genio come Gian Piero Gasperini diradino la nebbia della mia visione del pallone.
Venerdì 16 settembre incrocio Hans Hateboer.
Spinge una carrozzina con all'interno due guance paffute, piedini minuscoli coperti da calzini sgargianti e due occhi pieni di vita. Nella mano destra un guinzaglio, che termina al collo di un carlino ansimante. Te lo immaginavi diverso. Non necessariamente più alto, più grosso, più bello. Semplicemente diverso. La tua occasione. Ti ritornano in mente tutti gli insulti a madri, padri e generazioni precedenti rivoltigli dopo un cross sbagliato. Tutti i "Ma questo come c***o fa a giocare in Serie A?". Tutte le chat con amici e tifosi atalantini, nelle quali l'ex Groningen è capro espiatorio delle sconfitte e delle delusioni dell'incompiuta Atalanta del Gasp. Tutte, in un unico momento. Lì, a un metro da te.
"Ciao Hans".
Alza lo sguardo da quel bambino magnifico nel passeggino, occhi fieri di un padre orgoglioso del primogenito nato a febbraio.
"Ciao! Buona giornata anche a te!".
Un mondo di aspettative, pensieri, scemenze ed errori crolla.
Come hai potuto permetterti? Come? Solo perché uno, a tuo giudizio, fa male il suo lavoro, ti senti giustificato a infangarlo? Per uno stop sbagliato, una copertura coi tempi errati, una scivolata scomposta? Un uomo. Un ragazzo, un giovane, un papà come milioni nel mondo. E tu dietro a sbuffare, ogni singola volta che leggi il suo nome nello schieramento iniziale.
Un conto è criticare, un altro è insultare. Augurare la morte. Costringere un giovane alla prima esperienza in Serie A a chiudere i profili social dopo una prestazione sottotono. Anche i tifosi dell'Atalanta, che hai sempre parzialmente giudicato migliori degli altri per il rispetto e il sostegno incondizionato per i propri beniamini. Anche loro sono caduti in basso. Anche tu. L'era dei social network, come un SUV dai finestrini oscurati, permettono di gettare il sasso e nascondere la mano.
Lo trovi davanti ai tuoi occhi, il caro e vecchio Hans, e vivi una sorta di Epifania.
Lo ringrazierai in eterno, lui come tutti quelli di questo ciclo. Perché non ci potranno mai essere emozioni così forti come le notti europee di Dortmund e Lisbona. L'esodo per la finale di Coppa Italia contro la Lazio, a prescindere dal finale, lo ricorderai sempre come una delle giornate in cui hai voluto più bene a tuo papà, ringraziandolo per averti fatto nascere atalantino. Emozioni anche spiacevoli, come le frustrazioni e le delusioni del post Gomez. Nel bene o nel male, lo scostamento dalla monotonia e dall'anonimato del vivere quotidiano ha un valore inestimabile.
Grazie, Hans Hateboer.
Scusa, Hans Hateboer.
(Magari azzeccalo un cross, la prossima volta.)
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