Un anno, un mese, un'ora. Perdutamente, Josip Iličić.
Josip Iličić è l'emblema della difficoltosa rinascita della comunità di Bergamo durante e dopo la pandemia. Un addio doloroso, necessario, malinconico.
Crogiolo. Sostantivo maschile, dal francese croiseul, nome di una specie di lampada. Andiamo, Treccani, sappiamo che puoi dirci qualcosa in più. Recipiente usato per fondere metalli, vetri, ecc., in genere di forma cilindrica o tronco-conica, fatto di materiale refrattario o anche, per usi particolari, di metallo, di platino per analisi chimiche, ecc. Su Treccani, sforzati di essere meno asettica e insensibile. Parte inferiore dei forni a tino (altiforni, cubilotti), nella quale si raccolgono, per gravità, sia il metallo fuso sia la scoria, che vengono spillati periodicamente. Ma allora lo fai apposta? Sei consapevolmente ancorato al quotidiano concreto, asettico? Ti concedo un ultimo tentativo. Ambiente in cui si compie una fusione di elementi diversi. Finalmente, caro mio. Questa era la definizione che serviva.
Perché se si pensa alla penisola balcanica non ci si esime dall’indicarla così. Un crogiolo storico e geografico, nel quale tutto e il contrario di tutto si uniscono a formare una mistura intrigante, spaventosa, oscura e struggente. Contraddizione e antitesi. Difficilmente spiegabile, a stento comprensibile, tremendamente attraente, indelebilmente affascinante. Paradosso dei paradossi. Realtà nella quale un bambino, nato in una cittadina della Bosnia-Erzegovina da famiglia di etnia croata, è costretto a fuggire insieme alla madre come profugo di guerra in seguito all’assassinio del madre per mano di un uomo di origine serba. Della Bosnia non ha conservato, per sua fortuna, nessun ricordo. Della Croazia solamente il passaporto. Josip Iličić è cittadino sloveno. Slovenia che appartiene solo tangenzialmente, per storia e geopolitica, ai Balcani, da sempre col piede nelle due scarpe, una mitteleuropea e l’altra jugoslava. Josip, fuggito da un ossimoro geografico in un ossimorico momento storico. Ossimoro, figlio di un ossimoro, incarnazione di un ossimoro.
Venerazione
Lo ami e lo odi. Non hai alternative. In medio non stat virtus, in questo caso. Quando ti rendi conto di essergli particolarmente vicino, ti sobbalzano pensieri riguardanti i suoi aspetti più pungenti e impermeabili all’empatia. Appena ti allontani e cerchi di valutare razionalmente quello che ti comunica il suo calcio e la sua personalità, è impossibile non bramare nuovamente le vette raggiunte quando concedi alla tua disposizione emotiva di settarsi sulla sua rapsodica lunghezza d’onda.
Nascere a Prijedor il 29 gennaio 1988 è di per sé un marchio impresso dalla Storia. Sei destinato sin dai primi giorni a contestare la linearità. Nascere a Prijedor il 29 gennaio 1988 ti costringe a non abbandonarti a brame e desideri per il lungo periodo. Vivi nella precarietà, dove l’unica costante è il pericolo. Che vive dietro l’angolo, o alla porta accanto. Le dinamiche della morte del padre, ucciso presumibilmente da un vicino di casa, non sono mai state chiarite definitivamente. E forse è giusto così: tutto, nella vita di Josip, deve mantenere una componente oscura, una percentuale di irrisolto e inespresso. Mamma Ana ha paura. E ci mancherebbe. Riparare in Slovenia, nella cittadina di Kranj, è la soluzione. Dell’infanzia di Josip si sa poco o nulla. Nelle interviste rilasciate nel corso della carriera, Josip non è mai ritornato sull’argomento. Possiamo solo immaginare? Dobbiamo farlo. Gran parte dell’uomo che è diventato e che sarà risiede in quegli anni di paura, nei quali è pressoché impossibile crescere serenamente, rimandando la maturazione a un secondo momento. Ammesso che arriverà mai. Senza che questo diventi un obbligo.
I primi calci documentati al Triglav insieme al fratello maggiore Igor; i passaggi, a cavallo della maggiore età, tra Britof, Bonifika e Interblock, società di Lubiana gestita da Jože Pečečnik. Ha già 18 anni, Josip. Soprattutto in paesi come la Slovenia, incapaci di imporsi al livello dei maggiori campionati europei, non aver ancora esordito nella massima serie alla soglia dei vent’anni dovrebbe essere un limite per sviluppi rosei per una carriera professionistica. Però Josip è Josip. Qualsiasi parametro non è da cancellare: semplicemente, non è applicabile. Non per arroganza, tracotanza o superbia: è un altro ordine di grandezza. Non superiore né inferiore. Diverso, altro. All’Interblock è allenato da Alberto Bigon, padre del Riccardo conteso tra Salernitana e Parma per sostituire i rispettivi direttori sportivi. Esordio in Prva Liga datato 9 agosto 2008, primo gol alla ventitreesima. Esplosione lenta, per gli standard moderni.
Come se non bastasse, la società non vive giorni felicissimi. Per fortuna di Josip e altri giovani talenti di quell’Interblock, a concedere loro una seconda opportunità sul palcoscenico nazionale più ambito è Zlatko Zahovič, amico fraterno di Pečečnik. Ex trequartista, al tempo direttore sportivo, preleva Josip per portarlo al Maribor. Quello in maglia gialloviola non è altro che un idillio: tempo di qualche presenza tra campionato e preliminari di Europa League ed è tempo di fare nuovamente le valigie. Sempre sul filo del rasoio, a Josip non sembra concesso in alcun modo poter porre radici e fondamenta. In qualsiasi parte del mondo. Galeotta fu l’andata-e-ritorno contro il Palermo di Zamparini: pur passando il turno, agli occhi di un Renzo Barbera di metà agosto non passano inosservati il mancino e l’incedere sincopato del trequartista di destra degli sloveni. Il compianto patron rosanero si è innamorato: il 27 è speciale. Se per godere ogni fine settimana è necessario unire al pacchetto Bačinović e un assegno da 2,2 milioni di euro, Josip val bene una messa. Lo sbarco in Sicilia, all’ultimo giorno del calciomercato estivo 2011, dopo che gli scout palermitani avevano quasi convinto Zamparini a investire 150000€ un anno e mezzo prima sul talento sloveno. Colpo a 1 al Fantacalcio, concesso ai nerd del calciomercato, illusi dal talento nudo e crudo e dalle compilation di YouTube? Proprio lui.
Non posso parlare dell’Iličić di Palermo o Firenze. Nemmeno dell’Iličić blucerchiato, quando Ferrero era riuscito ad accordarsi per portare lo sloveno alla Sampdoria prima che saltasse tutto. In quelle realtà non sono entrato realmente in contatto con lui. Lo vedevo da lontano, con gli occhi trasognati dalle parabole disegnate col mancino e dalle intuizioni geniali, ma rimaneva qualcosa di lontano. Posso parlare dello Josip che ci ha salutati prima della sfida col Torino. Una serata dal cielo coperto, dopo che una pioggerellina fastidiosa ha bagnato il terreno del Gewiss. Quel cielo né sereno né minaccioso, malinconico al punto giusto. Malinconico e nostalgico, come solo Josip è saputo essere. Dal 5 luglio 2017, tutto è cambiato. Quando un tifoso di una squadra di calcio tasta per la prima volta il contatto con Josip, capisci che non hai capito nulla sino a quel momento. Vivi quella costante oscillazione tra il difenderlo a spada tratta qualsiasi cosa faccia e l’ostentare quel ghigno beffardo da “te l’avevo detto” quando simula, esagera, si perde a protestare con l’arbitro o incolpa il primo compagno a tiro anche quando è lui a sbagliare la giocata.
Con Josip è scontro, attrito fin da subito. La fastidiosa sensazione di concedergli uno status privilegiato nel sopportare un’apparenza accigliata, solo perché è un genio col pallone incollato agli scarpini. È controintuitivo, maledettamente scontroso. Recalcitra, viaggia a un ritmo diverso rispetto agli altri dieci nerazzurri, alieno ingranaggio della pressione asfissiante orchestrata da Gasperini.
Epifania
Atalanta-Roma è partita che ritorna spessissimo nella mia memoria da abbonato in Tribuna Giulio Cesare. Non c’ero nel 2004, ero troppo piccolo, ma il racconto di mio papà del giro di campo della squadra, applaudita dallo stadio intero nonostante la retrocessione, è ormai parte del mio vissuto atalantino. A un paio di partite coi giallorossi sono legati i momenti più eccitanti da sfegatato nerazzurro. Gli unici due momenti in cui, preda della rigorosa razionalità, sento di aver perso completamente il legame col logico ed essermi abbandonato all’istinto puro: il 3-3 di Zapata del 27 gennaio 2019 e il 2-1 di Pasalic del 15 febbraio 2020 raggiungono vette inesplorate. Atalanta-Roma è l’esordio di Josip con la nostra maglia. Sul colletto c’è la scritta “La maglia sudata, sempre”: prendete questo mantra e applicate un enorme adesivo con scritto “ECCEZIONE” per la numero 72. Il 20 agosto 2017 entra a venti minuti dalla fine. Ciondola fino alla fascia opposta, quasi sconsolato di dover sudare più del dovuto in un’afosissima sera dell’estate padana. Dalla curva sale il coro che lo accompagnerà per i cinque anni successivi, a prescindere che calchi il terreno di gioco, una cantilena pronunciata quella volta quasi come un auspicio.
Nessuno crede veramente a quello che diventerà Josip per tutti noi. Il dubbio, lo scetticismo, le mani avanti. Cosa aspettarsi da uno che si è lasciato così male con la Fiorentina? Cosa aspettarsi da uno che, praticamente firmato il contratto con la Samp, è venuto da noi solo perché gli offrivamo qualche migliaia di euro in più? Lo invochi all’ingresso sul prato verde, non potresti fare altrimenti. Sogni di suoi gol decisivi, dribbling ammalianti, esultanze iconiche, ma sempre sogni sono. Riceve palla. Se la accomoda sul sinistro. In quel preciso istante, comprendi come i pregiudizi e i preconcetti vadano a farsi bellamente benedire. Il tempo si ferma. Quel mancino, quel maledetto mancino. Un tocco, due tocchi. Kolarov si avvicina per affrontarlo, cercando di mandarlo sul fondo e impedirgli di rientrare sul piede forte. Josip la tocca ancora una volta, due. Da un paio di file sotto si alza il primo “Pahèla, bigòl”. Almeno non sarà solo il Papu a sorbirsi gli improperi dei vecchietti impazienti, d’ora in poi. Josip la tiene. La tiene effettivamente troppo. Una macchina perfettamente oliata com’era stata la prima Atalanta del Gasp ha appena inserito nel motore un ricambio dai cavalli e dalla potenza diversi. Stona. Josip alza lo sguardo. Muove impercettibilmente il tronco, suggerendo a Kolarov di spostare il baricentro verso l’esterno. Tocco d’esterno mancino e accelerazione verso il centro. Avversario saltato, esaltazione in tribuna, io innamorato.
Josip carica il tiro. Ma è lo Josip di agosto, non farà mai una cosa completamente giusta così a ridosso dei carichi della preparazione. Calcia col sinistro. Una mozzarella scaduta, che si spegne a una decina di metri dalla porta di Alisson. Poco importa. Nulla importa. Sono bastati pochi secondi, e la tua vita è rivoltata.
A livello di basket giovanile, il mio allenatore si rivolgeva al playmaker della squadra con toni burberi, invitando a passare la palla e mettere i compagni in ritmo. “Smettila di masturbarla”. Non so se il termine è applicabile anche ai veneziani, agli anarchici del pallone di cuoio, ma Josip non è mai stato davvero così. Le sue pause, frustranti e nervose per noi ignoranti, erano l’attesa febbrile per qualcosa di grande, che solo lui può scorgere sin dall’inizio. Mai stato fine a sé stesso, Josip. Innamorato del pallone sì, ma disposto a condividere il sentimento coi compagni di fascia e trequarti. Accentratore ed epicentro ma mai egoista. I fraseggi col Papu, i filtranti a Petagna o Zapata, gli scambi con Toloi. Persino un atleta fantastico ma dalla tecnica quantomeno discutibile come Hans Hateboer (sempre convinto che abbia due piedi sinistri, e quello preferito è il destro), nei pressi di Josip, è sostenibile in un contesto di così alto livello.
Per nostra fortuna le immagini dell’Atalanta di questo ultimo lustro si possono facilmente reperire. Tutti possiamo vedere e ripercorrere gol, assist, giocate del 72. Pochi, però, possono dire di averlo vissuto. Le istantanee sono innumerevoli: il primo slalom col Crotone, i gol al Westfalenstadion sotto gli 8000 bergamaschi, le triplette, la doppietta nell’attualmente revisionato e stigmatizzato 5-0 col Milan. 173 partite, 60 gol e 44 assist non significano nulla. Qualsiasi altro giocatore avrebbe potuto farli al suo posto. Josip va oltre al giocatore che è stato. Che è. Che sarà. A prescindere se la versione imbolsita vista con l’Empoli abbia davvero scritto davvero la parola fine al suo calcio giocato.
Ripensandoci ora, sono sempre più convinto. Non c’è mai stato un giocatore forte come Papu Gomez nella storia dell’Atalanta. Non ho visto dal vivo Domenghini, eroe della Coppa Italia del ’63. Non ero nato quando Evair, Caniggia e Stromberg hanno fatto vivere la prima epoca d’oro della nostra società. Ho apprezzato con consapevolezza solo l’ultimo Cristiano Doni, e le ben note vicende extra campo non hanno favorito un ricordo piacevole del 27. No, nessuno al livello del Papu. Ma in quanto a tecnica pura, Josip non si batte. Papu è stato più forte, più impattante, più valuable. Josip è andato oltre.
Non era capace di vincerti la partita da solo, ma era capace di essere l’unico motivo per sperare di gustarti anche la più amara delle sconfitte. La squadra poteva non girare, Josip poteva essere ancora più irritante del solito. Ma sapevo che, in un modo o nell’altro, dovevo stare incollato al seggiolino o al divano per gustarmi la sua essenza in ogni minima manifestazione possibile. Così esile e slanciato, così fragile. Una lucida follia. Tutti gli sguardi dei tifosi del Gewiss prima di matare il Toro erano rivolti all'uscita del tunnel. Anessuno importava realmente della partita. Erano tutti lì per lui. Non con lui: empatizzare con Josip è tanto apparentemente semplice quanto, ermeticamente e ossimoricamente, impossibile.
Crepuscolo
Se delirate per Josip solo una minima frazione rispetto al mio amore totalizzante, beh, non andate su Transfermarkt per raccogliere dati e statistiche sulla sua carriera. Non fatelo, vi scongiuro. Entrereste in un vortice di rimpianti, rimorsi e malinconia da cui sarebbe complicatissimo districarsi. Una coppa di Slovenia in maglia Interblock e un campionato nazionale col Maribor. Il palmarès non mostra altro. Prima pugnalata. Valore attuale di mercato: 1,00 mln €, aggiornato al 07/giu/2022. Seconda fitta al costato. Quanto ci facciamo del male a dover ricorrere a coordinate oggettive per pesare la grandezza di un individuo rispetto ad altri che riteniamo corretto paragonare a lui? Trofei, prezzo del cartellino. Cosa siamo diventati? Non manca forse una genuina e sana incoscienza nell’ammettere che, se si parla di pallone, siamo liberi di abbandonarci all’emozione pura? Invece no.
Dobbiamo incasellare, razionalizzare, classificare. I numeri raccontano, le immagini parlano. Ma i sentimenti valgono. Josip è epitome dell’inesprimibile, dell’incompreso, dell’impercettibile. Personificazione dell’ossimoro. Un crogiolo di figure retoriche, perché solo mascherando le parole e allontanandole dal significato originario si può avvicinarsi a una persona e un uomo così sui generis. Al centro sportivo di Zingonia, al Gewiss o in qualsiasi teatro calcistico europeo, Josip ha accolto l’intero spettro impulsivo, dall’estasi alla sciagura. Ma è tutto il resto di Josip che lo rende quello che è. Il fatto che il picco della sua carriera professionistica, il poker nel ritorno col Valencia, coincida con l’inizio della fine. In uno stadio vuoto, con la testa del suo popolo rivolta a parenti e amici in bilico tra vita e morte a causa di un nemico ancora sconosciuto. Da quel momento, banale a dirsi, Iličić è diventato Josip. Sempre Transfermarkt, per giustificare la sua assenza nelle ultime stagioni, specifica i motivi dell’infortunio. Sembra quasi godere a sentenziare, a definire categoricamente un qualcosa che sarebbe riduttivo contenere in un'unica diagnosi.
Depressione/sindrome da burnout. Covid e depressione, aveva detto Gomez in un’intervista. Una giungla in testa, aveva affermato Gasperini. Germogliati da un humus cattolico, dove la malattia è percepita come colpa o debolezza, come cazzo ci è venuto in mente? Cosa sappiamo davvero? Anche se ce lo dicesse Josip, quello che sta vivendo nel quotidiano, che vantaggio avremmo? La sofferenza della mente umana spinge a compatire e, contemporaneamente, ad avere paura. Eravamo insieme a lui? No. Allora non ci possiamo permettere di giudicare. Se non sappiamo cosa dire, per timore di peggiorare la situazione o peggio ancora se, per lo spettro di accollarci una minima porzione dello sforzo del sopravvivere quotidiano, ci rifugiamo nel silenzio, ogni sillaba proferita è di troppo. Nemmeno esprimere solidarietà ci farà essere migliori, fidatevi. In quei momenti scorre tutto addosso, cerchi appigli a ogni angolo ma rifiuti le mani tese. Non avremo la coscienza pulita né nel dire “Chissà cosa ha passato” né nell’esprimere vicinanza con la peggiore delle frasi possibili, “Posso solo immaginare”. No. Non si può lontanamente immaginare. Si può solo tentare e illudersi, sbagliando in ogni caso.
Dal massimo amore per l’idolo calcistico, dal marzo 2020 ho maturato il massimo rispetto per il padre di due splendide bambine. È diventato così affine alle fatiche e ai dolori di ogni giorno nel momento in cui non potevo venerare l’icona ogni fine settimana. Così lontano, altrettanto vicino. D’altronde, data la sua stessa etimologia, l’ossimoro stesso è un ossimoro. Bepi. Illusionista. Nonna. Professore. Iliciclone. Quante altre persone possono fregiarsi di soprannomi così disparati? Tutti parziali, ma tutti giusti. Tutti che raccontano solo una parte. Perché fonderli sarebbe impossibile. Un crogiolo utopico. Odi et amo, Josip.
Non avevo pianto per niente e nessuno in uno stadio. Non per le retrocessioni, non per la finale di Coppa Italia con la Lazio persa in modo bruciante. Nemmeno per Migliaccio e Raimondi, ultimi esponenti dell'Atalanta prima di Gasperini, che incarnavano l'anima operaia e contadina della Nord. Mai. Ma Josip è oltre tutto e tutti. Nella buona e nella cattiva sorte. Per sempre Josip.
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