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Considerazioni sparse su "Winning Time- L'ascesa della dinastia dei Lakers"


La National Basketball Association – più nota a tutto il mondo con l’acronimo NBA – non è sempre stata la lega che conosciamo oggi: ha vissuto alti e bassi, ha attirato l’interesse del grande pubblico ed è andata incontro a periodi in cui gli americani si mostravano poco coinvolti dalle vicende sui parquet di tutto il Paese e poi, negli ultimi 40 anni, ha definitivamente spiccato il volo. I giocatori che trattano la palla a spicchi tra il Canada e la Florida sono tra le maggiori icone sportive del globo e le vicende delle franchigie della Lega sono seguite in ogni angolo della terra. Ed è proprio a partire da questo grande successo che prendono spunto le nostre considerazioni sulla serie tv, disponibile sul catalogo di Sky Italia e sull’equivalente servizio streaming “Now”, “Winning Time: The Rise of the Lakers Dynasty”.


- Tratta dal libro “Showtime. Magic, Kareem, Riley: la dinastia dei Lakers” di Jeff Pearlman, edito in Italia dall’interessantissima casa editrice 66thand2nd, i 10 episodi in cui è suddivisa la narrazione concentrano la propria attenzione sulla squadra della città degli Angeli dopo la loro acquisizione da parte dell’istrionico Jerry Buss interpretato dal bravo John C. Reilly. Ed è quello, molto probabilmente – e da qui il motivo del cappello introduttivo -, il momento in cui prende il via l’inarrestabile internazionalizzazione della fama di questo campionato e la progressiva importanza che questo assume all’interno del catalogo “Sport cool da seguire se si vuole stare al passo con i tempi”;

- Per evitare che queste parole vengano spese più per descrivere il fenomeno culturale, economico e politico che rappresentano gli sport americani piuttosto che delle vere e proprie valutazioni sulla serie stessa, concentriamoci subito su alcuni degli aspetti tecnici più rilevanti che la riguardano direttamente: Adam Mckay, deus ex machina dell’intero progetto e regista del primo episodio, impone al prodotto quelle che sono le sue peculiarità di orchestratore e ossia un ritmo sostenuto, un montaggio che non permette allo spettatore di distrarsi e una fotografia che richiama al 100% i magici anni trattati, anche se, per la volontà di non essere superficiali, occorre ricordare che gli eventi narrati sono tutti relativi alla stagione cestistica 79/80, a partire dalla scelta al draft di un rookie già soprannominato Magic e conclusasi con una partita nel fu palazzetto Spectrum di Philadelphia. Partita che suggellerà un risultato importante che non vi anticipiamo in nessun caso;

- Adrien Brody, Jason Segel, Sally Field e Quincy Isaiah. Questi, oltre il già citato Reilly, alcuni degli attori che compongono il nutrito cast della serie e che riempiono la storia. Lo stile della narrazione è tale che i professionisti della recitazione non sono tenuti a dover colmare con la loro esperienze e le loro capacità eventuali buchi di trama, quanto, invece, vengono a chiamati a servire fedelmente i fatti. Da questa opinione si può facilmente dedurre che nessuno di questi colpisce particolarmente per la caratterizzazione dei personaggi a loro affidati, ma, allo stesso tempo, senza paura di essere smentiti, ciascuna delle prove viste nell’arco di tutta quanta la storia risulta più che sufficiente. È strano sarebbe stato se fosse accaduto il contrario;

- Donne, soldi, affari si mescolano tra di loro in un risultato non scintillante, ma di certo molto intrigante. “Winning Time” è caratterizzata da una coerenza visiva e narrativa che lascia poco spazio a delle analisi più o meno intellettualistiche. La volontà è quella di mettere in risalto un cambio di rotta socio-economico e culturale di cui oggi godiamo i grandi benefici. E ci si prende l’azzardo di affermare che le più o meno note vicende sportive intorno alle quali il tutto prende le mosse sembrano avere un’importanza relativa. Certo la Storia viene scritta dai vincitori – pochi dubbi al riguardo – e i trofei conquistati hanno un peso specifico non indifferente nella bilancia dell’esistenza, ma, qui, tutta la vicenda sembra quasi indipendente dai nomi iscritti alla fine delle stagioni negli albi d’oro. L’intera operazione, a prescindere da un calore non troppo caldo che le permea e di una strana volontà (?) di non farsi coinvolgere dall’epos della narrativa sportiva, ha comunque il grosso merito di mettere in luce personaggi che magari i non aficionados non hanno ben presenti nel loro cono di interesse. Mister Logo Jerry West (Jason Clarke) – probabilmente il personaggio più sfaccettato tra tutti quanti i presenti – e Jeanie Buss (Hadley Robinson), attuale presidentessa dei gialloviola, riescono a prendersi l’aria che meritano e probabilmente ciò è dovuto al maggior spazio che la loro “minore” popolarità garantisce. Ed infine – piccola nota personale – dispiace per il tratteggio appena abbozzato che il probabile poco tempo a disposizione ha garantito a quello che ancora oggi è il marcatore più prolifico della storia del campionato Nba e che, comunque, gli americani e molti altri cittadini del mondo conoscono anche, se non soprattutto, per il suo profondo impegno intellettuale: scontato dire che stiamo parlando del sempre interessantissimo Kareem Abdul-Jabbar;

- E dunque in attesa di vedere un'eventuale seconda stagione che potrebbe vedere – traslando l'oggetto della narrazione in avanti di almeno un decennio – gli alter ego del nostro compianto Kobe Bryant e del colosso Shaquille O’Neal, questa prima “parte” può essere un gustoso aperitivo. Purché ci si arrivi senza la pretesa di saziare interamente il proprio appetito. Sarà che sono di pretese “ottime e abbondanti”, ma mi sono alzato da tavolo non completamente soddisfatto.

  • Mi diplomo al Centro Internazionale “La Cometa”, dopo un intenso triennio di studi, nell’ottobre del 2016, aggiudicandomi la patente dell’attore, del “ma che lavoro fai? “e di appartenente al gruppo “dei nostri amici artisti che ci fanno tanto ridere e divertire” (cit.). Appassionato di sport, ottimo tennista da divano, calciatore con discrete potenzialità in età pre puberale, se non addirittura adolescenziale, mi appassiono anche al basket Nba e alla Spurs Culture. Discepolo non riconosciuto di Federico Buffa, critico in erba, ingurgitatore di calorie senza paura, credo che il monologo di Freccia nel film di Ligabue sia bello, ma che Shakespeare ha scritto di meglio. Molto meglio. Mi propongo di unire i tanti puntini della mia vita sperando che alla fine ne esca fuori qualcosa di armonioso. Per me e gli altri.

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