Una storia di rivolte e di provincia: i 100 anni del San Severo
«Se mi dovesse succedere qualcosa, voglio solo un po' di terra a San Severo, e un albero sopra»
A. Pazienza.
Fondata da Diomede. Federico II, i Normanni e poi i Borboni l'hanno eletta a feudo e loro residenza. Giacobina proclamatasi e per questo assediata dai monarchi e soffocata nel sangue. La natura di questa gente non si è mai piegata all'oppressione e a nessun monarca. Sede del Comitato di Liberazione Nazionale, non volle dare le sue armi ai nazisti nel '43. Le sue strade sono piene di sangue ribelle. I volti rugosi, chiusi come le sue vocali, segnati dalla cura della terra e scuriti dal sole cocente estivo, come la Madonna Nera sua patrona, la spigolosità dei lineamenti e degli animi dei suoi abitanti paiono tratteggiati dalla matita di Paz, che qui ha visto i suoi natali e ha voluto viverci in eterno sotto un albero e un pò della sua terra.
La società calcistica compie 100 anni. Per celebrare questo traguardo, occorre andare indietro con la memoria perchè il punto più alto a livello sportivo, ma anche sociale e politico, lo si raggiungerà nel giro di tre anni cruciali per la storia locale: 1947-1950.
Nonostante la fine del conflitto mondiale, la situazione occupazionale, specie al sud, era drammatica. Le campagne, prima fonte di reddito e di lavoro, erano ancora sottoforma di latifondo. Pochi padroni, troppi braccianti mal pagati e sfruttati nelle terre.
Il lavoro nei campi è difficile, stancante, ti spezza in due. Come per le working class inglesi alla fine dell'800, unico svago e ristoro era rappresentanto dal calcio. La squadra locale era sotto la presidenza del fondatore della Antica Cantina Sociale che aveva allestito, visto il passaggio in Serie C, una formazione assolutamente competitiva.
I risultati non tardano ad arrivare con vittorie anche di prestigio come quella contro il Catanzaro per 2-0. Lo stadio è affollato ed affamato. Le macerie sociali della guerra e quelle della ricostruzione in corso pesano moltissimo. Ma c'è entusiasmo e gioia e su questa onda i giallogranata riescono a fare sempre il tutto esaurito allo stadio.
Raffaele Recca, costituente/membro del CLN, di estrazione Democristiana, ben vedeva l'ascesa della squadra locale. A braccetto con l'allora segretario locale del PCI girava per le strade del paese creando sdegno nelle famiglie latifondiste locali. Quando potevano andavano anche allo stadio assieme per fare un'occhiata a ciò che accadeva sul prato verde locale. Entrambi sapevano che la città era una pentola a pressione pronta per esplodere nella rivolta. Conferma la ebbero con la nomina di Scelba quale Ministro degli Interni e la successiva creazione della "celere": reparto nato per "gestire" l'ordine pubblico ma che fattivamente, non poco tempo dopo, sarà artefice di un bagno di sangue proprio tra quelle vie dove i due passeggiavano assieme.
Prima e dopo le partite i contadini si ritrovavano presso la Camera del Lavoro. Questi, però, erano tenuti sott'occhio proprio dalle questure per la loro presunta pericolosità politica, nonostante il ruolo centrale che qualche anno prima avevano avuto nella liberazione del paese.
La Stagione calcistica volgeva al termine e il San Severo Calcio finiva quinto in classifica. Questo gli avrebbe permesso la permanenza nella serie ma la FIGC riordinò l'intero assetto dei campionati e d'imperio la squadra venne retrocessa nelle serie inferiori.
Il fermento, però, non passava. Anzi. L'esplosione era imminente. I braccianti, infatti, erano sempre più spesso vittime di agguati, repressione e fatti di sangue.
Il 1950 arrivò e il 22 Marzo venne proclamato dalla CGIL lo sciopero generale, fissato dalle ore 6 alle 18 secondo il disposto del neonato art. 40 della Costituzione. La Camera del Lavoro di San Severo aderì in massa allo sciopero generale. Il Segretario della Camera del Lavoro, Carmine Cannelonga, diede il via alla manifestazione, invitando però i presenti all’autocontrollo e al senso di responsabilità.
Si svolse, dunque, fino a mezzogiorno un corteo non autorizzato ma comunque ordinato e senza incidenti. La polizia si tenne in disparte. Nel pomeriggio circolò la notizia che durante un’analoga manifestazione a Parma si erano verificati incidenti gravi con l’uccisione di un operaio. Questo infervorò gli animi dei braccianti, degli organi di partito e dei sindacati, tanto da promulgare lo sciopero per il giorno successivo.
I dirigenti locali, specialmente Carmine Cannelonga e Matteo D’Onofrio, avevano esternato una certa perplessità rispetto a tale decisione imposta dai dirigenti provinciali. Dopo un’accesa discussione Carmine Cannelonga prese atto delle decisioni foggiane e promulgo lo sciopero anche al giorno successivo.
Arriviamo alla notte del 23 marzo. Tutto era predisposto: posti di blocco (senza, però, ostruzioni o sbarramenti di strade) lungo le vie di accesso alla Città. Il Commissario locale di P.S., il dr. Gaetano Ricciardi, chiese rinforzi alla Questura di Foggia, da dove partirono 70 agenti al comando di Gioacchino Ventura. Dalle ore 5.00 alle ore 7.00, su ordine del Commissario dr. Ricciardi e del Capitano della locale Stazione dei Carabinieri dr. Mollo, si provvide a smantellare i posti di blocco arrestando i più resistenti. L’atmosfera, intanto, si andava surriscaldando.
Furono ricostituiti i posti di blocco, mentre le vie di San Severo andavano riempiendosi di braccianti, donne e bambini, e s’imponeva ai negozi di chiudere i battenti. Verso le ore 7.30 un gruppo di scioperanti ordinò la chiusura della macelleria di Francesco Schingo, nella quale tre agenti di P.S. stavano effettuando la loro spesa. Questi ultimi cercarono di impedirne la chiusura, ma finirono con l’essere disarmati. Uno di questi, svincolandosi dalla presa della gente, entrò nella macelleria, afferrò un coltello e lo lanciò sulla folla, ferendo tre lavoratori. Nel frattempo sopraggiunsero altri agenti di P.S., che tentarono di prelevare i loro colleghi. Vennero costretti a retrocedere. Intanto cominciavano a udirsi i primi spari dai tetti. Quattro, fra poliziotti, agenti di custodia e un vigile urbano furono disarmati.
Cannelonga e Ferrara (dei PSI) e l’assessore Giuseppe Cellini, intuendo il peggio, allo scopo di concordare uno sblocco della situazione ed evitare così prevedibili drammatiche conseguenze, si recarono alla caserma dei carabinieri, dove vennero arrestati e violentemente malmenati.
Alcuni scioperanti assalirono le armerie, dalle quali sottrassero fucili, pistole e cartucce. Nel frattempo, mentre si andavano rafforzando i posti di blocco con carri rovesciati, per le strade si eressero barricate, tutte presidiate da lavoratori armati di fucili, pistole, mazze, pietre e zappe. Polizia e carabinieri si asserragliarono presso la locale caserma. Intanto da Foggia ancora nessun rinforzo fino alle ore 10.30 e, quando finalmente giunsero, furono costretti a fermarsi a Porta Foggia. Nel frattempo le forze dell’ordine tentarono di rompere l’assedio dei dimostranti, ma inutilmente. Alcuni agenti di P.S. entrarono lo stesso in Città, ma attraverso la campagna.
Dopo mezzogiorno, sempre da Foggia, arrivò un’autocolonna composta da una Batteria del 14° Reggimento Artiglieri (150 uomini), da agenti di P.S. (150 uomini) e da una Sezione di carri armati (nel numero di 4).
Rapidamente l’autocolonna si diresse verso le sedi del PCI e della CGIL: qui trovarono e arrestarono una settantina di persone, vennero messi a soqquadro i locali, rinvennero e sequestrarono denaro, qualche fucile, tre bombe e alcune mazze. Certamente si sparava da alcune parti, ma non era una guerra: quanti morti si sarebbero contati se fosse stato così. Gli arrestati, nel frattempo, scortati dai carri armati furono trasferiti al carcere di Lucera.
A sera, sul tardi, ritornò forzosamente la calma.
Il bilancio di quella terribile giornata fu di un morto (Michele Di Nunzio, di 33 anni, padre di 4 bambini) e 40 feriti (tra i quali 25 lavoratori e un ragazzino di 10 anni). Il giorno dopo, il 24 marzo, il sen. Allegato, tornato repentinamente da Roma dopo essere messo a conoscenza dell’accaduto, si recò in Prefettura con i nomi dei militanti del MSI in possesso di armi, indicando in essi i veri provocatori della situazione. I dirigenti locali più coinvolti nella vicenda erano Carmine Cannelonga, Matteo D’Onofrio, Antonio Berardi (Segretario della IV sezione del PCI) e l’avv. Erminio Colaneri. Il 3 aprile 1950 il rapporto dei carabinieri fu inviato di competenza, per la fase istruttoria, alla Procura di Foggia. I quattro dirigenti su indicati rientravano fra quelli punibili in base all’art. 284 che prevedeva la pena capitale (tramutata da un’altro articolo in ergastolo) per chi dirigeva le insurrezioni. Dalla Procura di Foggia venne confermata l’ipotesi di reato di insurrezione armata e la Corte di Bari, confermò la tesi dell’insurrezione, respingendo la posizione del Pubblico Ministero che propendeva per “concorso in violenza e resistenza alla forza pubblica”.
Il 5 aprile 1952, dopo 62 udienze e 17 ore di discussione in Camera di Consiglio, la Corte emetteva la sentenza di assoluzione per Cannelonga, Colaneri, D’Onofrio e Berardi; 49 venivano condannati a pene varie per reati minori; rimanevano in carcere 12 imputati su 110. Usciti dal carcere lucerino, gli ex detenuti assolti, preceduti da motociclisti appositamente giunti da San Severo, arrivarono in Città con due pullman e furono accolti da una folla entusiasta e festante.
Un noto brano celebra quegli eventi e recita: "Il venditrè di màrzo / succèssë ‘na rruwínë pë ddu bbèllë Sanzëvírë. / Nnànd’â Càmmëra del lavórë vulèvënë ccídë a li lavoratórë. / ‘U cummëssàrjë e Ffratèllë / hànnë pèrzë ‘i cërëvèlle a ndërrugà li fëmënèllë. / Avèvën’a dícë ccúmë dëcévë jìssë / pë rrëstà li comunìstë. / Alleghèt’è jjút’a Rrómë, / purtètë ‘i connutètë dë li pòvërë carcërètë, / ha ppëgghjètë la parólë: / – Caccètë fórë li lavoratórë. / Ha ppëgghjètë la parólë: / – L’avítë mìssë jìndë pë ppèn’e llavórë ("Il 23 marzo che giorno di coraggio, / uomini e donne siamo stati coraggiosi. / Alle 10 eravamo in sezione / e gli scelbini salivano dal balcone, / col mitra ci hanno fatto alzare le mani, / di parole siamo stati insultati. / Alle 10 il maresciallo e i suoi uomini / ci hanno aggrediti, ma non siamo spaventati, / perché loro lo sanno, siamo coraggiosi. / Ma la lotta continuerà e bandiera rossa trionferà. / Con autoblindo e carrarmati ci hanno trasportati / e alle carceri di Lucera ci hanno portati. / Siamo stati consegnati al presidente. / Noi tutti coraggiosi siamo stati spontanei: / signor presidente, siamo innocenti, / sono stati i fascisti a infamarci. / Ma la lotta continuerà e bandiera rossa trionferà".)
La provincia, spesso, nasconde storie di calcio che si intrecciano profondamente con il territorio e le sue radici come per questa storia post bellica dove una città ha vissuto il suo apogeo sportivo e sociale fatto di vittorie, rivolte e, come poi accade sempre, cocenti sconfitte e sue damnatio memoriae.
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