DAZN e le bolle del Pallone
Il cambio dell'offerta DAZN, la bolla dei diritti tv del calcio, la guerra alle commissioni dei procuratori e le difficoltà delle società di Serie A nell’operare su un mercato iperinflazionato: alcune riflessioni.
Era una novità annunciata. DAZN ha modificato la sua offerta mensile, eliminando dal pacchetto base la possibilità di condividere l’account su ip differenti. E di nuovo, gli abbonati hanno mostrato un vivo disappunto, per usare un eufemismo. Uno dei punti forti del passaggio allo streaming delle partite era, oltre alla possibilità di averlo a disposizione rapidamente su ogni device, il costo contenuto rispetto ai pacchetti Sky degli scorsi anni. Ora questa convergenza è caduta, in vista di una prossima annata calcistica che si annuncia all’insegna dei rincari su tutti i fronti per il pubblico e dell’austerity per le società.
Glissando su un prevedibile e parzialmente già in atto rincaro dei biglietti e dei nuovi abbonamenti (ritornati in essere dal lockdown del 2020), dal lato del pubblico sportivo “televisivo” siamo nel pieno di quella che pare una nuova ondata di inflazione, che peraltro colpisce generalizzata e su beni alquanto più necessari del calcio. E questo lo renderà particolarmente sensibile, e ostile, a rincari per attività, per così dire, ludiche. Tanto per chiarire: l'operazione del media group londinese sarà difficilmente spacciabile come stretta contro la pirateria, quanto piuttosto un incentivo ad essa. Ma andiamo oltre.
La "rivoluzione" di DAZN, ovverosia il transmigrazione verso la trasmissione in streaming delle partite, probabilmente era ineluttabile. Ma tanto il paese quanto l'operatore stesso erano ampiamente impreparati a tale operazione, in primis sul piano infrastrutturale e organizzativo. DAZN partita da prezzi all'utenza molto concorrenziali, ha inizialmente presentato un prodotto discutibile, con non rari disguidi tecnici, e impiegando quasi l'intera stagione per render presentabile la qualità del servizio e per migliorare quella dei contenuti. Arrivati i miglioramenti, ecco il rincaro.
Resta da capire se quella del media group londinese sia una mossa a carattere prettamente speculativo, oppure al netto del fatto che un aumento del servizio si è verificato anche in Germania (pur con un pacchetto più ampio), ci sia una specificità del teatro italiano nel rincaro con annessa virata contro la concurrency (espressamente prevista all’inizio della scorsa stagione).
Ma la platea degli attori è più ampia. Nella virata contro la concurrency c'è una fase generale (tanto per cambiare) di ridiscussione del tema, anche fuori da DAZN e partite in streaming. Lo sta facendo Netflix, che ha basato le sue fortune sui prezzi ridotti e una politica morbida in tema di condivisione account, e che ora, finito il boost del lockdown e delle normative anti-covid, pare scivolare in crisi anche per l'aumento della concorrenza nel settore. E i due operatori, su binari paralleli ma convergenti, interverranno contro l'emorragia di abbonati facendo pagare una pratica che tanti gliene aveva portati, ovvero quella di condividere l'account. Qualcuno direbbe un azzardo.
Ma anche Tim, partner di DAZN nella trasmissione delle partite, e la stessa Lega Serie A hanno più o meno apertamente spinto in questo senso. La prima per una questione di mancati ricavi: l'operazione calcio non pare forse così conveniente, seppur i diritti tv siano stati assegnati a una cifra pari circa al 60% del valore di quelli della Bundesliga (con più partite). La seconda, d'inverso per il timore che i diritti si svalutino, e infatti sono stati assegnati a una cifra ecc. ecc. Cifra che non si smuove da quel valore (anzi, è calata rispetto al trienno precedente), per quanto con la fine dell'accordo con Infront e relative spese i club siano riusciti a "grattare" qualcosa in più.
Probabilmente, c’è un problema di fondo che permane nella bolla del sistema-calcio italiano: l'effetto dopante che hanno i diritti televisivi sulle capacità economiche del sistema stesso. Diritti che oltretutto non solo hanno come detto un valore ridotto rispetto a quello di altri campionati (meno di metà della Premier), ma all’atto pratico sono anche fortemente squilibrati in favore nelle squadre big (rispetto alla Premier, la quota fissa di introiti per le squadre maggiori è di 1/3 contro la metà d’oltremanica: l’Inter prende il triplo della Salernitana, mentre il City prende meno del doppio rispetto al Norwich).
Quasi una forma di dipendenza finanziaria per un comparto orfano di investitori “pesanti”, ancora chiamato a scontare i postumi delle chiusure degli stadi causa covid - con annessa riscoperta improvvisa e disperata dell'importanza anche economica dei tifosi sugli spalti - e incapace oramai di calmierare le uscite. Si pensi, a tal proposito, alla guerra aperta ai procuratori e alle commissioni, legittima e necessaria a correggere storture degli agenti in termini di doppia se non tripla rappresentanza, ma che glissa sul fatto che le società si appoggiano ormai in maniera strutturale agli agenti per muoversi sul mercato dei giocatori.
Aumenti di biglietti e abbonamenti, aumenti dei costi dei pacchetti tv, necessità di comprimere il costo del lavoro (ovvero gli stipendi dei calciatori) accettando perfino di perderli a zero, tendenza a operare sul mercato al risparmio per stabilizzare i conti e di contro cercare di spingere al massimo sul player-trading, massimizzando le richieste per i cartellini e cercando plusvalenze in ogni dove. Non è quasi nulla di veramente nuovo, eppure permane quella sensazione che tutto il comparto nazionale pallone-tv bruci perfino più denaro di quanto ne guadagni. L'estrema attenzione delle società rispetto al mercato dei free agent sembra esserne un sintomo. O un primo assaggio di evoluzione, anche traumatica, delle dinamiche economico-finanziarie del pallone.
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