L'Italia va male? Dagli allo straniero!
Passano gli anni, i decenni, addirittura i secoli, l’Italia muta da monarchia povera e illetterata a repubblica democratica nella top-10 delle potenze mondiali passando per vent’anni di dittatura fascista, cambiano i confini, la piramide demografica, muta persino la composizione etnica, linguistica e religiosa del paese, ma un fatto rimane immobile, come scolpito su una roccia sacra alla cosmogonia italiana: se la Nazionale va male, è colpa dello straniero.
Ultimo capro espiatorio da sacrificare sull’altare dell’auto-deresponsabilizzazione, lo straniero – inteso come entità astratta e generale, non come uno straniero in particolare – è un colpevole contro il quale è sempre facile puntare il dito, particolarmente in un paese che da decenni affronta il proprio razzismo nello stesso modo in cui si affrontava una volta la mafia: negandone l’esistenza. Il ricorso a un nemico, a un colpevole esterno alla comunità, è una strategia vecchia come il cucco, utilizzata da che il mondo è mondo per tenere saldamente coeso un gruppo in momenti di difficoltà. Il tema dell’invasione di stranieri nel calcio – e ancor più nei settori giovanili – è un topos narrativo dell’opinionismo calcistico italiano che, come vedremo tra poco, nella storia sportiva del Belpaese non si è limitato al campo della retorica ma ha avuto anche gravi ripercussioni sul mondo reale.
La prima volta che gli atleti stranieri vennero ufficialmente individuati come un problema per il calcio italiano fu – non a caso – nel 1926, allo zenit delle cosiddette “leggi fascistissime”, l’insieme di norme straordinarie che trasformarono l’ordinamento giuridico del Regno d’Italia in chiave fascista. La Carta di Viareggio riorganizzò il sistema calcio rivoluzionando strutture e organigrammi, aprendo al professionismo ma chiudendo la neonata Serie A ai calciatori stranieri, che all’epoca provenivano in gran parte dall’ex Impero austroungarico. Tuttavia, questa misura non venne estesa agli oriundi, ai naturalizzati e a chiunque provenisse da una delle colonie o delle aree di recente conquista. Basti pensare alla formazione azzurra che vinse il mondiale del 1934, in cui tre titolarissimi – Orsi, Guaita e Monti – non solo erano nati, cresciuti e maturati in Argentina ma avevano anche svariate presenze in albi-celeste (Monti aveva addirittura giocato la finale del 1930!) o a Naim Krieziu e Riza Lushta, stelle albanesi di Roma e Juventus.
Con la caduta del regime fascista, gli stranieri vennero riammessi in Serie A e la nazionale decise addirittura di puntare forte sugli oriundi dopo le brutte figure di Brasile ‘50 e Svizzera ‘54 naturalizzando gli eroi del Maracanazo Ghiggia e Schiaffino, l’argentino Montuori e il brasiliano Da Costa. Tuttavia, gli azzurri non migliorarono e, anzi, mancarono clamorosamente la qualificazione a Svezia ‘58 e il “problema” di stranieri e oriundi tornò al centro del dibattito. Questi ultimi vennero esclusi dalle convocazioni dal 1962 mentre la vera e propria chiusura delle frontiere venne imposta dopo la disastrosa eliminazione contro la Corea del Nord a Inghilterra ‘66 con l’idea di promuovere maggiormente lo sviluppo di talenti nostrani. Due anni dopo l’Italia vinse il suo primo Europeo e quattro anni dopo giocò “la più grande partita della storia” e perse soltanto in finale contro “la squadra più forte della storia”. Tuttavia è chiaro come questi successi non possano essere in alcun modo messi in relazione con la riforma, visto che erano passati appena due e quattro anni e l’ossatura della squadra era la stessa che era stata eliminata dal gol di Pak Doo-ik. In compenso, il divieto di tesserare calciatori stranieri fu una delle componenti principali della perdita di competitività dei club italiani che, dopo aver dominato durante gli anni ‘60, caddero in due decenni di anonimato sulla scena internazionale. Le frontiere vennero definitivamente riaperte nel 1980. Le conseguenze non furono immediate, ma dalla seconda metà degli anni Ottanta i club italiani – abbondantemente rimpinguati di campioni stranieri – tornarono ai vertici del calcio europeo, mentre la Nazionale tornò con costanza tra le migliori del mondo. Guardando alla storia, quindi, possiamo concludere con buona certezza che la presenza di oriundi in nazionale, così come quella di stranieri nel campionato e nelle giovanili, non abbia effetti negativi diretti sui risultati della nazionale.
Secondo Transfermarkt, nel massimo campionato i giocatori non italiani sono 343, il 62% del totale. La Premier League, in termini relativi, ne ha ancora di più: 329 – il 65,5% del totale – sono giocatori non sono inglesi. Gli altri tre grandi campionati europei, invece, hanno tutti numeri più bassi: la Ligue1 ospita il 54 % di calciatori non francesi, la Bundesliga il 54,4% di giocatori non tedeschi, mentre nella Liga si scende addirittura al 43,6% di tesserati non spagnoli. Nonostante il secondo posto per quanto riguarda le rose, il calcio italiano vince invece la medaglia d’oro per il campionato in cui gli stranieri giocano di più: in Serie A i non italiani sono stati in campo per il 64% dei minuti totali, contro il 59,5% della Premier, il 54% di Bundes e Ligue1 e addirittura il 43,6% della Liga. Quando però si parla di sviluppo dei giovani e di presenza di talenti in ottica di nazionale, ha senso spostare il focus dal campionato in generale ai top club. In questo caso, la situazione è molto diversa: tralasciando l’eccezione Atalanta, che la scorsa stagione ha schierato giocatori non italiani per l’86% dei minuti passati in campo, Milan (74,3%), Inter (71,2%) o Juventus (65,8%) sono messe “meglio” di Manchester City (78%), Atletico (77,8%), Liverpool (76,4%), Real Madrid (75,3%) o PSG (75,2%). Guardando a questi dati, sembra molto difficile trovare una correlazione con la quantità di talento o i risultati delle rispettive selezioni nazionali.
Un altro aspetto interessante e – a mio avviso – molto più rilevante è il minutaggio totale dei giovani e in particolare il loro minutaggio nelle squadre di alto livello. Mettiamolo subito in chiaro: nessun under 20 è titolare fisso in una squadra di vertice e l’unico 2000 a scendere in campo con continuità è Dusan Vlahovic, a cui si aggiungono in coda Kalulu e Tonali. Tra i cinque grandi campionati europei, la Serie A è quella che da in assoluto meno spazio ai giovani: il 3,9% dei minuti, contro il 9,1% della Ligue1, il 7% della Bundes, il 4,4% della Premier e il 4,2% della Liga. Sotto di noi, soltanto Grecia (3,2%) e Turchia (2,3%). Al contrario di quanto si dice, però, gli under 20 che giocano con continuità sono in maggioranza italiani, statistica che confuta l’idea diffusa che acquistare e fare sviluppare giovani stranieri sia più conveniente, o comunque una pratica più diffusa. Tra i dieci giocatori nati dopo il 2002 che hanno più minuti in questo campionato ci sono cinque stranieri (Hickey, Ilic, Dragusin, Kallon, Antiste) e cinque italiani (Busio, Ricci, Rovella, Udogie e Viti). Più in generale, allargandoci ai “giovani” in senso più ampio, diciamo sotto ai 25 anni, titolari italiani di qualità non mancano nemmeno nella metà destra della classifica: Chiesa, Zaniolo, Locatelli, Scamacca, Raspadori, Barella, Bastoni, Tonali, Frattesi, Scamacca, Raspadori sono i primi che mi vengono in mente.
Nei vivai invece, i numeri sembrano spaventosi: quasi la metà – il 43% per precisione – dei calciatori nelle giovanili è straniero, una cifra più alta che in quasi ogni altro paese europeo. In questo caso sembrano non esserci dubbi: c’è poco da fare, ci sono troppi stranieri nelle nostre giovanili ed è per questo che si sviluppano troppo pochi talenti italiani. E invece no! I settori giovanili delle squadre italiane sono così zeppi di stranieri in gran parte a causa della legge sulla cittadinanza, la stessa legge che ci consente di naturalizzare calciatori nati in un altro continente perché hanno un qualche antico legame “di sangue” con il territorio italiano.
Nel nostro paese per un ragazzo nato e cresciuto in Italia da genitori stranieri è praticamente impossibile ottenere la cittadinanza prima della maggiore età e, anche in quel caso, si può incorrere in gravi problemi e lunghissimi ritardi nel caso si siano, per esempio, trascorsi dei periodi all’estero. Così, quando si guarda ai vivai, composti da giocatori principalmente minorenni, la quota di “stranieri” si alza enormemente e falsa il dato reale.
In conclusione, guardando alla storia e ai numeri sembra chiaro che il problema dell’Italia – o meglio della mancanza di calciatori italiani molto giovani e molto talentuosi in Serie A – non sia dovuto alla presenza di stranieri nelle prime squadre né nelle giovanili, così come non pare logico che la presenza di giocatori naturalizzati in nazionale non possa essere considerata una causa della mancata qualificazione al Campionato del Mondo 2022 (così come non può essere considerata, al contrario, la causa della vittoria di Euro 2020).
Invece, ci sarebbe da puntare l’attenzione su altri aspetti più strutturali, che necessitano di risposte molto più complesse di “limitiamo i posti per gli stranieri” o “smettiamola di convocare oriundi”. Questi aspetti sono lo scouting, i criteri di valutazione e sviluppo dei giovani, la mancanza pressoché totale delle cosiddette squadre B, la mancanza di fiducia da parte degli allenatori, un approccio a brevissimo termine che predilige l’uovo oggi alla gallina domani, ma anche una legislazione sulla cittadinanza rigida e a dir poco antiquata, la cui riforma è che paradossalmente è spesso osteggiata proprio dagli stessi che vorrebbero più giovani italiani e meno naturalizzati in maglia azzurra.
Questo articolo è uscito in anteprima su Catenaccio, la newsletter di Sportellate.it.
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