Amarcord: Chelsea-Barcellona 4-2
Il racconto della partita con "quel" gol di Ronaldinho, ma anche molto altro.
José Mourinho sbuca fuori dal tunnel ma invece di dirigersi in panchina si ferma sugli ultimi gradini prima del prato di Stamford Bridge. Gli sfilano accanto le squadre, distribuisce saluti. La prossemica è quella del padrone della festa che accoglie gli ospiti sull’uscio. Controlla se sono arrivati tutti, poi si volta indietro verso il tunnel e aguzza lo sguardo per vedere in profondità. È chiaro che aspetta ancora qualcuno. Comincia così, con tutti gli occhi puntati su Mourinho – personaggio affascinante e misterioso, ancora in fase di modellazione del proprio culto – il ritorno degli ottavi di Champions tra Chelsea e Barcellona. Una partita che per spettacolarità e avanguardia tattica rappresenta forse l’anno zero del calcio iper-professionalizzato contemporaneo.
Le squadre si abbracciano a centrocampo, parte la musichetta, la camera scorre da destra a sinistra su Ronaldinho, Valdes, Deco, Gerard, Oleguer, van Bronckhorst, Iniesta, Belletti, Eto’o, Xavi, Puyol. Il Barcellona veste una maglia color tortora coi bordi blu e il colletto: una seconda maglia anonima e dimenticabile, se non fosse per Ronaldinho che di lì a breve segnerà un gol generazionale e fisserà per sempre l’immagine della sua coordinazione straordinaria a quel colletto beige che balla con lui.
Per un attimo compare la terna arbitrale, guidata da Pierluigi Collina, poi inizia la fila del Chelsea. Il primo è John Terry, il capitano, quindi la regia stacca e guarda altrove per qualche secondo, quando torna ci sono le facce di Makelele, Duff, Gudjohnsen, Paulo Ferreira, Carvalho, Gallas. Nello stacco si sono persi alcuni giocatori – un Cech ancora senza caschetto, Lampard, Kezman, Joe Cole – l’inquadratura però doveva tornare nella zona del tunnel per svelare il mistero dell’attesa di Mourinho. Non poteva perdersi il momento in cui Mourinho e Rijkaard, i due tecnici, si sarebbero salutati dopo il veleno delle ultime settimane.
Pre-partita
Tutto è iniziato tredici giorni prima, il 23 febbraio, nella partita di andata al Camp Nou. Il Chelsea aveva segnato nel primo tempo ma poi nel secondo era cambiato tutto, con l’espulsione di Drogba e il Barcellona che ribalta il risultato con Maxi Lopez ed Eto’o. Mourinho è furioso e salta la conferenza stampa post-partita. Parlerà nei giorni successivi, mostrando al mondo forse per la prima volta la sua abilità nera di manipolatore: dalle colonne di un giornale portoghese Mourinho accusa Rijkaard di aver avuto un incontro illecito con l’arbitro Frisk nell’intervallo della partita. «Quando ho visto Rijkaard entrare nello stanzino dell’arbitro non potevo crederci. Non ero stupito quando poi Drogba è stato espulso». L’informazione si rivelerà falsa e Mourinho verrà squalificato per due partite europee. Ma solo a partire dai quarti, però.
Le accuse di Mourinho aizzano i tifosi del Chelsea che nei giorni dopo la partita minacciano di morte Frisk e i suoi familiari. Frisk, che già alcuni mesi prima era stato ferito da una monetina all’Olimpico durante un Roma-Dinamo Kiev, non regge altre molestie e decide di ritirarsi. «Ne ho abbastanza; non so nemmeno se lascerò che i miei figli vadano all’ufficio postale», dirà. In quei giorni Volker Roth, ex arbitro e presidente della commissione arbitrale dell’Uefa, accusa Mourinho di essere un «nemico del calcio» per quello che ha fatto.
Arriva così l’8 marzo, la partita di ritorno a Londra, la cura di Mourinho nell’aspettare Rijkaard fuori dal tunnel e riservargli un minimo di gentilezza. Il portoghese tende la mano al collega e ha la faccia sinceramente (?) dispiaciuta. Sembra anche ciancicare qualche parola, non sappiamo se sono scuse. L’altro risponde alla stretta di mano ma finisce lì. È un saluto «gelido come un pupazzo di neve», scrive il Guardian.
Non potevamo saperlo, ma in quel momento stavano nascendo alcune delle antipatie calcistiche degli anni a venire. Quella tra Chelsea e Barcellona, rivalità nuova nel cartellone della Champions ma che si ritaglierà un proprio culto. E il duello più grande e totalizzante tra Mourinho e il Barcellona. È un momento seminale per il calcio europeo come Glastonbury ’94 per la rivalità Blur-Oasis.
Nodo alla gola
Il calcio d’inizio è del Barcellona e dopo 3 secondi la palla è già arrivata, come attratta da un campo magnetico speciale, a Ronaldinho. Smorza al volo un rilancio della difesa, Deco gliela ridà alta e Dinho la appoggia all’indietro di spallina. Tre tocchi volanti e rilassati di una Tedesca sulla spiaggia. Poi il Chelsea distrugge ogni traccia di spensieratezza e inizia a infondere un’energia violenta nella partita, già al quarantesimo secondo, quando Iniesta controlla un pallone nella trequarti difensiva e si sente saltare al collo Gallas e Lampard, che gli ruba palla in scivolata da dietro. Il recupero alto non porta a nulla, se non a conficcare nella mente dei giocatori del Barcellona che la partita sarà molto dolorosa.
Iniesta ha vent’anni e gioca ala destra al posto dell’infortunato Giuly. Rijkaard non ha toccato il tradizionale 4-3-3 nonostante qualche assenza. Oleguer gioca al posto dell’infortunato Marquez al centro della difesa, in mediana Gerard Lopez sostituisce Albertini che aveva giocato all’andata. Per il resto tutto ordinario: Gio van Bronckhorst, Puyol e Belletti completano la difesa; Xavi e Deco costruiscono a centrocampo, Eto’o è la punta e Ronaldinho svaria su tutto il centro-sinistra andandosi a prendere il pallone dove preferisce.
Eto'o e Ronaldinho giocano molto vicini per combinare nello stretto, allora il terzino destro blues Paulo Ferreira stringe verso il centro per marcare a uomo il brasiliano, con il centrale del suo lato, Ricardo Carvalho, che pure si stacca dalla linea per opprimere Eto’o. Al terzo minuto Eto’o riceve e prova un tunnel su Carvalho, quello recupera palla un po’ fortunosamente e capovolge l’azione servendo Gudjohnsen che a sua volta lancia Kezman in profondità sulla destra. Fuorigioco. L’azione è una fotografia di come Mourinho vuole rovesciare lo svantaggio: difesa aggressiva con orientamento sull’uomo, recupero e transizioni verticali vertiginose. Una tattica anche spregiudicata, che accetta di rompere la linea di difesa e rischiare uno contro uno in zone pericolose, come quello di Carvalho contro Eto’o che se riusciva nel dribbling aveva campo libero fino alla porta.
Il pattern si ripete all’ottavo minuto e stavolta il Chelsea passa. Carvalho allontana di testa su una manovra del Barça, Xavi recupera al centro della trequarti ma in un lampo gli si para davanti Lampard. Lampard non sembra neanche interessato alla palla, ma solo a ostruire lo spazio fisicamente: si avvicina all'avversario in modo cauto ma deciso, si ferma a due centimetri di distanza come i coatti in cerca di rissa, la fronte appoggiata sul naso del rivale. Xavi tenta di sterzare ma scivola, Lampard ruba palla, poi lancia Kezman appostato sempre a destra nello spazio tra terzino e centrale.
Un momento Lampard è stato ferro, quello dopo è piuma: la sua palla rasoterra per Kezman è perfetta, una di quelle che rallentano al momento giusto e contengono le istruzioni di come vanno usate. Kezman sprinta contro Oleguer sotto una tribuna eccitata, raggiunge il pallone nella trequarti e mette un traversone basso, di prima, che aggira la difesa catalana come un boomerang. Dall’altra parte Gudjohnsen annulla Gerard col primo controllo e batte Valdes in scivolata. È il primo tiro in porta della partita e il Chelsea conduce la serie per i gol in trasferta.
Il Chelsea schiera una difesa a quattro coi terzini bloccati, Makelele mediano e Kezman di punta (per Drogba squalificato). In mezzo, una fila di quattro centrocampisti che fanno avanti e indietro in verticale come una batteria di nuotatori: Duff a sinistra, Gudjohnsen e Lampard al centro, Joe Cole a destra (per Robben infortunato). Sono loro quattro a determinare il contesto tattico della partita, le loro corse a regolare l'eccitazione di Stamford Bridge. All’11esimo c’è un corner per il Chelsea dopo l’ennesimo affondo sulla destra, batte Duff di mancino, Puyol allontana, Terry la rimette dentro e Lampard si avvita al limite dell’area piccola in una elegante volee. Palla alta di un metro ma la partita è troppo veloce per quelli del Barcellona. La camera inquadra Mourinho in panchina. Ha le braccia conserte, lo sguardo alto e fiero, le mandibole serrate in una posa da don Vito Corleone.
Mourinho. Nel 2005 Mourinho non è ancora una figura negativa; «l’epigono calcistico di quel ministro che definiva la politica “sangue e merda”», come lo definirà Paolo Condò. È una personalità rilucente, se in qualche modo incute paura è la paura che fa l’avanguardia. L’anno prima ha vinto la Champions con il Porto; in estate si è definito “Special One” alla prima conferenza al Chelsea e il 27 febbraio, tra le partite di andata e ritorno col Barcellona, ha vinto la Coppa di Lega – il primo trofeo inglese per lui e per il fiammante Chelsea di Abramovich. La sua aura in quel momento è quella del profeta che legge più a fondo i segni del mondo, de «L’eletto che ha decriptato la matrice del calcio contemporaneo», come scriverà Emanuele Atturo.
Al 16esimo Ferreira si ritrova un pallone sull’out destro e lo dà lungolinea a Joe Cole che arma l’ennesimo sprint in profondità. Il match sta diventando una partita a scacchi truccata dove il Chelsea ha una prima linea di sole torri che schizzano in verticale appena possibile. Si capisce perché Mourinho ha lasciato in panchina Tiago e messo Gudjohnsen mezzala. Cole sta correndo verso il fondo quando fa quello che farebbe Robben: rientra col tacco sul sinistro mandando Gio al bar, si accentra in orizzontale e tira un sinistro che viene sporcato da Oleguer. La deviazione inganna Valdes che può solo respingere corto e guardare Lampard ribattere in rete. Al 17esimo il Chelsea è avanti 2-0, il Barcellona non riesce a uscire da quando ha preso il primo gol, Ronaldinho non tocca palla dallo stesso tempo.
Passano due minuti. Oleguer conduce palla a centrocampo, cerca un filtrante per Eto’o che è spalle alla porta e francobollato da Terry. La palla rocambola dalle parti di Carvalho che non perde tempo e serve Kezman in avanti con un filtrante di prima. Nel contesto psicologico crudele messo su dal Chelsea, il passaggio di Carvalho ha un layer ulteriore di sadismo: è lo stesso gesto tecnico che Oleguer ha appena fallito, come a dire: “è così che si faceva”. Kezman fa da sponda a Cole e inizia a correre. Cole sceglie però Duff che è scattato a sinistra, e lo lancia con una palla deliziosa, in mezza volee, piegando il corpo per dare al pallone l’indicazione giusta su quando rallentare. Duff è più veloce di Puyol, arriva sul pallone al limite dell’area e tira tra le gambe di Cech in uscita. Carvalho-Kezman-Cole-Duff hanno toccato il pallone una volta ciascuno, muovendolo solo in verticale per sessanta metri e confezionando il 3-0 Chelsea in 19 minuti di partita.
C’è qualcosa allo stesso tempo della Bella e della Bestia in questo. Nel minimalismo con cui i giocatori del Chelsea non inventano le occasioni ma le stanno producendo in serie, una volta brevettata l’azione-tipo. Sembrano un laboratorio costruttivista del Bauhaus. Oppure un gruppo di hacker che ha scoperto un bug attraverso cui sabotare il sistema. Mourinho, a bordo campo, affonda le mani nel pesante cappotto grigio. Con tutta probabilità riuscirebbe a risolvere un cubo di Rubik tenendolo in tasca, senza guardare.
Un uomo solo per domarli tutti
A Ronaldinho invece finora non è riuscito niente. Al 20esimo tocca il primo pallone da oltre dieci minuti. Tre minuti dopo va vicinissimo a segnare con un colpo di testa su corner, un’azione poco da Ronaldinho ma significativa di come spetti a lui inventarsi qualcosa. Pochi secondi dopo è nella propria trequarti a difendere un pallone sulla linea laterale, guadagnandosi una rimessa con le mani che si batte da solo. Il Barcellona inizia a intercettare passaggi, vincere le seconde palle, valorizzare la tecnica dei suoi palleggiatori. La furia atletica del Chelsea, forse fisiologicamente, inizia a calare.
Il Barça guadagna metri. Gerard, Xavi ed Eto’o combinano sulla trequarti, il camerunese apre a destra per Belletti che mette un cross lento in area. Paulo Ferreira salta con Eto’o ma nel prendere posizione tocca ingenuamente il pallone con le braccia larghe. Rigore e ammonizione. Sul dischetto va Ronaldinho che calcia non angolatissimo, Cech sfiora ma la palla entra. 3-1 al 26esimo e qualificazione riaperta.
La partita ora è bellissima. I centrocampisti del Barça riescono a trasmettere palla con più efficacia. Quando la perdono accorciano in avanti e la recuperano subito. Dall’altra parte Kezman è sempre bravo a tenere bassi Oleguer e Puyol, ma lo spazio dietro di sé sta diventando troppo lungo da risalire per i centrocampisti. In un contesto competitivo ora riequilibrato, dove la qualità delle giocate comincia a toccare livelli alieni, Chelsea-Barcellona scivola in uno dei conflitti calcistici più archetipici: quello dell’organizzazione collettiva contro il talento puro. Lo spazio contro la tecnica. Una corrida ideale con da una parte il toro che aggredisce, corre, lacera, dall’altra il torero che riesce a ricomporsi dopo ogni colpo e a far volteggiare la muleta con arte. Il grande artista che prende il centro dell’arena, in questo momento, è naturalmente Ronaldinho.
Al 33esimo riceve nel centro sinistra, spalle alla porta, quindi apre a destra con un pallone carico di effetto che sta per finire a Duff, ma poi picchia per terra e piega verso Belletti, con Duff che barcolla ubriacato dall’effetto. Il controllo di Ronaldinho sul pallone continua anche dopo averlo calciato. Se ne meraviglia anche Stamford Bridge, che reagisce con un “whooah” di stupore. Belletti torna allora da Iniesta, che torna da Dinho venuto intanto verso destra per supervisionare l’azione, andando dietro alla palla come un genitore sta dietro al figlio che sta imparando la bicicletta. Ronaldinho resiste a una carica, poi supera Makelele danzando sul pallone con una ruleta e punta l’area, ma Carvalho è ovunque e lo chiude. La capacità di Ronaldinho di far succedere cose dal nulla si sta spargendo come un gas, e sta per esplodere.
Al 38esimo Oleguer rilancia lungo da dietro, la palla arriva a Iniesta che la controlla e la ripulisce nella lunetta, poi serve Ronaldinho che gli sta accanto. Il brasiliano è fermo e circondato su tutti i lati, non c’è spazio per fare niente, di certo non per tirare. Quindi appoggia il piede per terra e cerca una finta. Un attimo dopo il pallone è in rete alla destra di Cech.
Ci vogliono alcuni replay per capire cosa è successo. Ronaldinho era faccia a faccia con Carvalho quando, il pallone immobile e il piede destro puntato nell’erba, ha iniziato a muovere il corpo come stesse ballando un twist. Poi improvvisamente ha frustato la palla con la punta, da fermo, e l’ha spedita all’angolino basso lasciando Cech immobile. È stato un esercizio di ipnosi: il calciatore col tocco di palla migliore al mondo ha mandato tutti in tilt non toccando la palla; il genio dell’elastico, che ama fingere di andare in una direzione per poi prendere l’altra, ha cambiato direzione restando fermo. È il gioco delle tre carte. Ronaldinho ha sintetizzato il dribbling su Nesta e i trick degli spot della Nike e li ha riformulati in astratto. Ha invocato la loro presenza, però senza intervenire, lasciando che a dribblare Carvalho fosse la minaccia di quei dribbling, la loro fama. È un gol storico ma anche decisivo nel qui e ora, che riporta il Barça con un piede nei quarti per i gol in trasferta.
A questo punto della partita, la sera dell’8 marzo 2005, ero già saltato più volte dalla sedia per l’eccitazione. Avevo 12 anni, in campo non c’era la mia squadra del cuore e forse per la prima volta stavo sperimentando il calcio come puro intrattenimento. Era il periodo delle prime cotte, prima di scuola guardavo MTV e il pomeriggio giocavo a GTA San Andreas. Chelsea e Barcellona mi stavano trasmettendo la stessa freschezza adolescenziale. I giocatori erano belli, gli allenatori giovani e fichi. Giocavano un calcio veloce e aggressivo che non avevo mai visto prima. Rispetto agli altri accoppiamenti, dove si sfidavano Milan-Manchester Utd o Juventus-Real Madrid, giganti polverosi da ancién regime, Chelsea e Barcellona avevano meno blasone ma trasmettevano il senso di novità di un’astronave atterrata nell’antica Roma. Nel Chelsea perfino lo sponsor, Fly Emirates, era nuovo ed esotico nel 2005. Stavo guardando un calcio che veniva dal futuro.
Dal 3-2 fino all’intervallo il ritmo non rallenta più, anzi: diventa ancora più serrato, come gli spettacoli di fuochi d’artificio verso la fine. Al 43esimo sempre Ronaldinho inventa l’azione più bella del Barça. Riceve un pallone che sta rimbalzando nella sua metà campo, con il controllo orientato cambia direzione e lascia Ferreira nella porta girevole, con il secondo tocco avanza, col terzo serve un esterno morbido alle spalle di Carvalho sulla corsa di Eto’o. Quello controlla acrobatico di destro e incrocia un bel diagonale di sinistro. Alto di poco. Poco prima c’era stata un’altra giocata alla Ronaldinho: uno dei suoi passaggi con angolo strettissimo, col corpo che sembra orientato da un’altra parte e fatto di gomma. Non a caso il suo biglietto da visita è l’elastico: la flessibilità del corpo di Ronaldinho a piegarsi ricorda quei lunghi pupazzi gonfiabili che si contorcono nell’aria.
Al 44esimo c’è un’occasione enorme per il Chelsea, con Cole che prende il palo e Duff che non riesce a ribattere in rete. In 45 minuti sono successe così tante cose, si sono giocate partite così diverse, che quando Collina fischia l’intervallo Ronaldinho e Ferreira si scambiano la maglia come a fine partita.
Riprendere fiato
È impossibile che il secondo tempo ripeta gli stessi ritmi del primo. Infatti le squadre tornano in campo con una prudenza diversa, con la consapevolezza di essere state quasi morte e di essere ancora vive, sopravvissute al caos, certo con alcune ferite, ma anche con le coscienze più leggere, forse, con il sollievo di chi ha già dimostrato quanto doveva e può accettare ogni verdetto con serenità.
Il primo tentativo di affondo è del Chelsea, che è sotto nei gol in trasferta e deve rimontare. Nasce da una palla recuperata in difesa in tre contro uno, da Ferreira, Carvalho e Lampard contro Ronaldinho, la palla giunge a Gudjohnsen nel cerchio di centrocampo, veronica per girarsi e liberarsi di Gerard e lancio di mezzo esterno per la corsa di Duff, Cole e Kezman, schizzati tutti e tre come lanciati da una balestra. Valdes esce dall’area e anticipa tutti in fallo laterale.
La partita si è fatta più stanca ma non meno viva. Il gioco che nel primo tempo scorreva liscio da una porta all’altra come se si giocasse su un tavolo da biliardo ora si è fatto più faticoso, più raffazzonato, ma non più povero di occasioni da gol – anche se ora le occasioni sono meno pianificate e più legate all'improvvisazione dai singoli. Al minuto 56 Lampard gira di testa un corner di Duff, ma il tiro è centrale e Valdes blocca a terra. Sul ribaltamento Belletti raccoglie una palla sulla trequarti, sfruttando il vuoto dietro il centrocampo del Chelsea, carica il tiro da 30 metri e Cech devia in angolo. Il Chelsea appare sfilacciato: ha perso la coesione del pressing e la squadra ora è lunghissima, con la difesa che si mantiene più bassa e i tre attaccanti Duff, Kezman e Cole che faticano a tornare.
Da un po’ il Chelsea non lavora più di squadra ma si aggrappa all’iniziativa individuale, sia davanti sia dietro. Una situazione in cui viene fuori il meglio del repertorio difensivo di Carvalho. Al 55esimo e al 58esimo blocca per due volte Deco che lo punta e vorrebbe entrare in area, scippandogli il pallone con la punta dello scarpino; al 60esimo insegue Eto’o che è sfuggito alla pressione di Johnson (sostituto di Ferreira), Eto’o punta l’area piccola, Carvalho è lontano, poi quando Eto’o sembra averlo tagliato fuori definitivamente, spostandosi il pallone sul piede opposto, Carvalho in qualche modo arpiona la palla in scivolata. Eto’o è disperato, vuole il rigore, poi arriva il replay e l’intervento è pulitissimo, capolavoro di tempismo e tecnica di un difensore che sta dominando più registri difensivi, la difesa della posizione e quella su campo grande.
Sul corner seguente Puyol salta tutto solo, colpisce violentissimo, in tuffo, Cech scende in un lampo e blocca sulla linea. Il ritmo è di nuovo vertiginoso, in tv i replay delle azioni passate si accavallano alle nuove. Lampard trova Joe Cole con una palla alta lungolinea, sulla fascia sinistra, Cole è spalle alla porta e marcato, col primo controllo di piatto sterza e si libera di Puyol, destro violentissimo da 20 metri che Valdes respinge coi pugni, colto di sorpresa. La palla resta lì, la arpiona Kezman che sbaglia a porta vuota ma era in fuorigioco. Giocata di Cole terrificante per eleganza e rapidità tecnica.
La partita del Barcellona è un manifesto naif, si fonda sul rifiuto di qualsiasi approccio passivo al gioco. A tratti hanno un’aggressività maggiore del Chelsea e sembrano loro quelli in svantaggio. Con la difesa sempre alta, i centrocampisti che aggrediscono in avanti, l’idea di giocare sempre la palla dietro la pressione. Ronaldinho intanto si mette al centro con Eto’o a sinistra, e succedono due cose: il brasiliano si associa meglio nel corridoio centrale con Xavi Iniesta e Deco, che iniziano a giocare tra le linee avversarie; la seconda cosa, più problematica, è che il Barcellona non ha profondità. Un altro giocatore hipster, Oleguer, si associa bene con questo gruppo di centrocampisti che sembrano giocare per l’arte: se nel difendere lo spazio dietro di sé Oleguer appare sempre in affanno, i suoi cambi di gioco dalla difesa sono invece eleganti e precisi.
Un cambio campo da sinistra a destra, stavolta di Deco, fa ballare il Chelsea. Il lancio è bellissimo, Deco si aggiusta il pallone pettinandolo con la suola prima di calciare. Dall’altra parte Iniesta è altrettanto pulito nel controllo, punta Gallas, lo dribbla con un rimpallo fortunato, entra in area, elude anche il rientro di Duff sterzando sul sinistro, tiro secco e altro miracolo di Cech che devia sul palo, Eto’o raccoglie la respinta ma tira incredibilmente alto.
La regia inquadra le panchine e sono il perfetto opposto dell’elettricità che c’è in campo. Mourinho e Rijkaard hanno seguito la partita stranamente rilassati, sempre seduti, forse anche loro risucchiati dall’energia ipnotica del gioco, di certo soddisfatti dello sforzo dei propri giocatori al punto da non toccare quasi niente per non rovinare quell’equilibrio magnetico. Fino al 79esimo fanno solo due sostituzioni, una ciascuno. Una stasi che può sembrare strategica, l’imperturbabilità di due giocatori di poker nel mezzo del bluff decisivo. Oppure, forse, Mourinho e Rijkaard non intervengono perché alla volontà è subentrata l’impotenza. La consapevolezza che la contesa ha esaurito tutte le possibilità umane, saturato il concetto di libero arbitrio, raggiunto il limite di quanto era ottenibile con la razionalità. Come una tragedia greca che, consumata la forza creativa dei personaggi, aspetti di essere risolta dal Deus ex machina, dall’intervento divino. Chelsea-Barcellona sembra aderire a quella struttura: un andirivieni da una porta all’altra che va avanti per ostinazione, alimentato dall’inerzia, con nessuna possibilità di risoluzione che non passi dal guizzo fortuito, dall’evento insperato.
Il Deus ex machina interviene nella partita sotto le sembianze di John Terry. Il minuto è il 75esimo, Duff batte un corner col mancino a uscire e il capitano del Chelsea gira di testa nel cuore dell’area piazzando la palla sul secondo palo, sfruttando l’uscita incerta di Valdes e un mezzo blocco di Carvalho sul portiere. John Terry che ha i capelli rasati sulle tempie e folti dietro, l’unica deviazione punk in una persona dallo stile iper sobrio, che dimostra almeno dieci anni più dei 24 che ha.
Dopo il 4-2 che riporta avanti il Chelsea, non succede più niente. Le squadre sembrano accettare la rete di Terry come un golden gol e i quindici minuti rimanenti sono pura burocrazia. Al Chelsea non servirà nessun miracolo, nessun momento di resistenza eroica per difendere il risultato. L’unico brivido è una punizione di Deco da trenta metri, al 93esimo, in pratica l’ultimo pallone del match, che scivola a pelo d’erba un metro fuori dalla porta di Cech.
Al fischio finale Mourinho schizza in campo saltellando, il pugno destro che disegna dei grandi cerchi in aria simili al “windmill” di Pete Townshend. Il primo che incontra è Lampard, gli salta addosso, vengono soffocati dai compagni, finalmente possono festeggiare la fine di una partita fantastica, sofferta, pazza, prima preparata meticolosamente e poi alla fine vinta nel disordine, un po’ a caso, quasi di destino.
Come tutte le cose belle ma ancora acerbe, Chelsea e Barcellona dovranno aspettare ancora per affermarsi nell’élite europea. La Champions 2005 la vincerà il Liverpool, squadra underdog ma senza glamour, contro il Milan che con Ancelotti rappresenta l’ancien regime del calcio internazionale. Il Chelsea perderà la semifinale contro il Liverpool, ma si imporrà in Premier League con la brutalità di una rivoluzione, vincendo il primo campionato da cinquant’anni con i record di punti e di miglior difesa. In modo simile, il Barcellona vincerà la prima Liga dopo sei anni, il primo mattoncino su cui si costruirà la vittoria in Champions dell’anno dopo e poi la rivoluzione guardiolista.
Ai due allenatori, Mourinho e Rijkaard, va il merito di aver proposto un calcio del 2010 quando le big europee erano ancora ingessate in uno stile anni ’90. Di aver avviato insieme ai loro calciatori più iconici, Drogba e Ronaldinho, Robben ed Eto’o, e ai loro club l’era attuale del calcio europeo, in cui la Champions League ha superato per appeal qualunque lega nazionale. Noi dodicenni, comunque, in quel momento non potevamo vedere così lontano. Lo spettacolo di Chelsea-Barcellona ci aveva lasciato cose più piccole e tangibili. Un’altra serata pop su Italia 1, un argomento di cui parlare a scuola il giorno dopo, altri video virali di Ronaldinho da scambiarci sui videofonini.
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