In Coppa d'Africa c'è la guerra ma nessuno lo sa
Nelle regioni occidentali del Camerun, dove è in corso la XXXIII edizione della Coppa delle nazioni africane, è in corso da anni una guerra civile di cui non si sa praticamente nulla. Il regime di Paul Biya ha deciso di mostrare i muscoli, facendo ospitare partite nelle capitali delle aree separatiste e reprimendo duramente ogni movimento - anche pacifico - di protesta.
Con due anni e mezzo di ritardo sulla tabella di marcia – l’edizione 2019 venne spostata in Egitto a causa di ritardi organizzativi e quella del 2021 prima spostata in inverno per calore eccessivo e poi rinviata al 2022 a causa della pandemia – il Camerun in queste settimane ospita finalmente la Coppa d’Africa. Oltre ai problemi già citati, l’assegnazione del torneo è stata al centro del dibattito panafricano per una guerra in corso nel paese, iniziato nel 2016 e praticamente sconosciuto all’opinione pubblica occidentale, che oppone la minoranza anglofona secessionista nelle regioni del Northwest e del Southwest al governo francofono di Yaoundé.
I camerunensi di lingua inglese costituiscono circa il 20 per cento della popolazione totale e da decenni protestano contro l’emarginazione di cui sono vittime. Il presidente Paul Biya, Primo ministro dal 1975 al 1982 e Presidente ininterrottamente dal 1982 a oggi, in pubblico parla esclusivamente francese e il suo quarantennale governo ha sostanzialmente ignorato il vasto movimento (sempre pacifico) guidato da avvocati e insegnanti che nel 2016 è sceso in piazza per molti mesi chiedendo l’applicazione del bilinguismo francese-inglese in scuole e tribunali come previsto dalla costituzione.
Da allora la situazione si è rapidamente inasprita: le manifestazioni pacifiche si sono trasformate in proteste violente e le proteste violente in un vero e proprio conflitto armato. Lo strappo definitivo avvenne nell’ottobre del 2017, quando i separatisti della Repubblica di Ambazonia (da Ambas Bay, la baia alla foce del Mungo, il fiume che durante il colonialismo segnava il confine tra le aree a dominazione inglese e francese) hanno proclamato in modo unilaterale la propria indipendenza dal Camerun. Una scelta drastica che, come sempre, oltre alla questione identitaria e culturale ha chiare motivazioni economiche: quest’area infatti è una delle più ricche di risorse di tutto il paese. Parallelamente all’autoproclamazione, i secessionisti hanno annunciato l’inizio della guerra contro il Governo di Yaoundè, che ha risposto con una dura repressione.
Considerato a torto un conflitto a bassa intensità, in oltre quattro anni questa guerra ha provocato circa quindicimila morti, cinquecentomila rifugiati, cinquemila detenuti, due milioni di sfollati interni, quattrocento villaggi incendiati e, secondo Human Rights Watch, più di settecentomila bambini privati del loro diritto all’istruzione.
Sebbene i ribelli abbiano lanciato diversi attacchi contro Buea e Limbe, due capoluoghi situati nel sud ovest del Camerun, il governo ha deciso di dare una dimostrazione di forza inserendole comunque tra le città ospitanti. L'esercito afferma con un certo orgoglio che i separatisti non sono stati in grado – e non lo saranno – di interrompere il torneo, ma la situazione rimane tesa e diverse federazioni hanno espresso preoccupazione in merito. Lo scorso 12 gennaio le autorità di Yaoundè hanno accusato i separatisti dell'uccisione di un importante senatore dell’opposizione di un soldato che lo accompagnava e hanno condiviso sui canali social ufficiali un video in cui si vedono uomini armati che ordinano a quindici bambini in uniforme scolastica di spogliarsi nudi. In tutta risposta, i combattenti hanno promesso che le operazioni militari non si sarebbero fermate per la Coppa d’Africa e che, anzi, sarebbero state intensificate. Finora non sono stati segnalati gravi incidenti, ma la paura di un attacco terroristico persiste.
Nel frattempo, più di 6 milioni di camerunesi hanno bisogno di aiuti umanitari, ma gran parte della copertura mediatica si è concentrata sul caotico arbitraggio di Tunisia-Mali o sulla minaccia delle squadre europee di impedire ai propri calciatori africani di partecipare alla Coppa: lo scorso 10 dicembre, la European Club Association ha scritto una lettera ufficiale alla Confederation of African Football (CAF) annunciando di voler trattenere i giocatori africani con la scusa della diffusione della variante omicron in Sud Africa. Questa decisione, che qualora fosse stata messa in atto a livello di federazione sarebbe stata in aperto contrasto con le regole della FIFA, è stata chiesta in primis dai club inglesi, che temevano di perdere alcune delle loro stelle più luminose: basti pensare a Salah (Egitto) e Mané (Senegal) nel Liverpool, Riyad Mahrez (Algeria) nel Manchester City.
Nonostante le trattative, Senegal e Nigeria hanno dovuto giocare rispettivamente senza Ismaïla Sarr ed Emmanuel Dennis, che il Watford della famiglia Pozzo non ha voluto liberare. «È mai esistito un torneo meno rispettato della Coppa d'Africa?» ha scritto l'ex attaccante dell'Inghilterra e dell'Arsenal Ian Wright tramite Instagram. A noi sembra di no, a nessuno è mai passato per la testa di bloccare i propri tesserati per un Europeo o una Coppa America.
Essendo il secondo torneo continentale più antico del mondo, organizzato in un continente attraversato ininterrottamente da conflitti, trasformazioni e rivolgimenti per tutto l’ultimo secolo, la Coppa d’Africa è sempre stata in un modo o nell’altro terreno di confronto – e scontro – politico. Il primo torneo si svolse nel 1957, non appena i paesi africani iniziarono a ottenere l'indipendenza dal dominio coloniale belga, francese e britannico, come dimostrazione della capacità di organizzare e mantenere istituzioni sportive e, più in generale, come strumento di promozione del panafricanismo. Le nazioni fondatrici furono Egitto, Sudan, Etiopia e Sudafrica, anche se quest'ultimo fu successivamente espulso dalla Confederazione Africana per aver impedito ai giocatori non bianchi di giocare in nazionale.
Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana ed eroe della lotta anticoloniale in tutto il continente, sosteneva che il calcio avrebbe dovuto essere un mezzo con cui l'Africa poteva ottenere rilevanza e rispetto sullo scenario internazionale. Le Black Stars del Ghana vinsero la loro prima Coppa nel 1963, sei anni dopo l'indipendenza. Nel 1996, il torneo fu vinto dal Sudafrica, paese ospitante, con la sua prima squadra “multietnica” post-apartheid. La CAF, inoltre, combatté per anni contro l’assegnazione di un solo slot condiviso tra Africa e Asia ai mondiali, contro i sette dell’America e i dieci dell’Europa. Fu solo nel 1970, dopo che i paesi africani boicottarono la Coppa del Mondo del 1966, che all'Africa e all'Asia furono concessi quantomeno due slot separati.
Nonostante le speranze di Nkrumah per un Africa libera, pacifica, unita e sviluppata non si siano ancora realizzate tanto in ambito politico-economico quanto in ambito sportivo, almeno in alcuni paesi il calcio sembra comunque funzionare per riunire le persone intorno all’identità nazionale. Quando la Nigeria ha vinto sorprendentemente 1-0 contro l'Egitto nella prima giornata della fase a gironi, decine e decine di milioni di persone di lingue e culture diverse sono scese in strada a festeggiare per lo stesso motivo: «quell'unico gol ha unito una nazione con oltre 250 gruppi etnici in costante conflitto», ha scritto la giornalista nigeriano-britannica Aisha Rimi. In un momento di crescente insicurezza in Nigeria e in Camerun, Rimi ha dichiarato che «la Coppa d’Africa ci serve a ricordare che c'è qualcosa di buono in questi paesi, che è possibile cooperare tra popoli diversi per lingue e tradizioni» e costruire un’Africa più sviluppata, coesa e sicura di sé.
Questo articolo è uscito in anteprima su Catenaccio, la newsletter di Sportellate.it.
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