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coppa d'africa
, 13 Gennaio 2022

Diario della Coppa d'Africa, settimana 1


Nessuno vuole la coppa d'Africa, evviva la coppa d'Africa.


La coppa delle bandiere della Coppa d'Africa

L’Africa. Terra che Stanis non riesce a sentire, continente di capitali che non sono mai riuscito a memorizzare. Forse nessun luogo al mondo conta la stessa varietà di climi e regioni ambientali: mari tropicali e ghiacciai, deserto e foresta, montagne e metropoli. Tutti elementi che hanno plasmato l’identità dei diversi popoli, secondo il più classico rapporto di influenza tra natura e cultura, e che oggi ritroviamo stilizzati sotto forma di fasce di colore, di stelle e simboli a comporre le bandiere nazionali di ciascun Paese.

D’altra parte una bandiera è molto di più di un drappo di stoffa, di un rettangolo generalmente di proporzione 2:3 con sopra disegnate delle cose. Secondo la Treccani una bandiera è il “simbolo di una nazione”, un’“insegna”. Insomma: dobbiamo considerare lungimiranti i nostri progenitori che hanno pensato di sintetizzare il brand di una Nazione in un’icona. Essi hanno individuato nell’immagine il mezzo privilegiato attraverso cui rappresentarsi, molti decenni prima di Instagram.

Da questo punto di vista la Coppa d’Africa è una sfilata incredibile: un carnevale di bandiere tra le più creative e astratte che la mente umana abbia mai concepito. In una sequenza di colori panafricani, stelle e simboli religiosi, ho ritenuto necessario far competere le bellissime bandiere della Coppa d’Africa in un torneo autonomo fino a eleggere la più bella: la bandiera Campione d’Africa delle bandiere della Coppa d’Africa 2021. Le regole sono le stesse della competizione calcistica gemella: si parte da 24 bandiere divise in sei gruppi; le due migliori di ciascun gruppo avanzano agli ottavi di finale insieme alle quattro migliori terze, poi via fino alla finalissima con scontri a eliminazione diretta. Mi sembra il modo migliore per celebrare il significato metaforico delle bandiere, il loro carico semantico, in un’epoca in cui siamo bombardati di informazioni iperrealistiche e abbiamo perso la capacità di leggere i segni astratti. Un'epoca in cui pure i cartoni li vogliamo solo in live action con attori in carne ed ossa. Iniziamo.

Girone A

Il primo girone, il più denso di bandiere verde-giallo-rosse, possiamo usarlo per stabilire alcuni criteri validi da qui in avanti. Il classico tricolore etiope – i colori panafricani per eccellenza – lo ritroveremo a ripetizione in questo concorso di bandiere africane, quindi come giurati dobbiamo essere bravi a riconoscerne le sfumature. D’altronde anche i vini sembrano tutti uguali a un palato disattento, ma uguali non sono.

- La bandiera verde-giallo-rossa è la pasta al pomodoro delle bandiere, come tutte le ricette semplici richiede la quantità perfetta di ciascun ingrediente, l’equilibrio giusto per non rovinare tutto. Benissimo quindi la bandiera del Camerun, che tocca davvero il punto giusto di ciascun colore.
- È ok mescolare le carte, andare di creatività, usare i tre colori in modo inatteso: promosso il Burkina Faso.
- Male invece fare gli alternativi a tutti i costi usando scorciatoie sciatte. Mettendo le sneakers sotto lo smoking, l’ananas sulla piazza. Quindi bocciata l’Etiopia, che sarà pure la madre del tricolore panafricano, ma d’altra parte anche Charlie Chaplin ha perso il concorso dedicato ai sosia di Charlie Chaplin, no?

Classifica: 1° Camerun, 2° Capo Verde, 3° Burkina Faso, 4° Etiopia

Girone B

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Il girone B è bello tosto. Il livello è equilibrato e a occhio almeno due bandiere faranno molta strada.

- la Guinea ha il rigore e la pulizia di alcuni film di Martin Scorsese;
- Malawi rappresenta un’Africa tetra, la palette di colori onirica e grottesca di film come Satyricon di Fellini, o Velluto Blu di Lynch.
- il Senegal ha uno stile autoriale e politico, un’immagine che già al primo sguardo ti parla di lotta di classe, diciamo come un film di Spike Lee.
- Zimbabwe è l’horror vacui fatto bandiera: sette strisce orizzontali, una forma triangolare, una stella, addirittura il disegno di un uccello, mille colori diversi. L’eccesso postmoderno di un film di Xavier Dolan.

È difficile scegliere chi passa il turno, quindi bisogna introdurre altri parametri di valutazione:

- un grosso sì per le bandiere che possiamo trovare attaccate a un motoscafo in un film di 007 in una scena di inseguimento in mare, quindi promosse Malawi e Zimbabwe.
- male le bandiere diventate brand universali come una ormai banalissima maglietta di Che Guevara, o un peluche di Bob Marley (quindi eliminato il Senegal, insieme alla stragrande maggioranza delle bandiere verde-giallo-rosse).

Classifica: 1° Malawi, 2° Zimbabwe, 3° Guinea, 4° Senegal

Girone C

Uno dei gironi dove c’è più squilibrio tra le due bandiere più belle e le due meno belle, quindi parliamo di quelle meno belle. La bandiera del Gabon ha oggettivamente dei colori allegri, ma insomma, fa un po’ telo mare; quella delle Comore invece ha lo stesso schema pazzo dello Zimbabwe, ma resta a metà del guado, non raggiunge lo stesso livello di pazzia stravagante.

Classifica: 1° Ghana, 2° Marocco, 3° Gabon, 4° Comore

Continua nei prossimi numeri del Diario…

La difficile vita della Coppa d'Africa

Quanti haters deve sopportare, la Coppa d’Africa. Gli dicono “torneo anacronistico, a giocarsi ogni due anni”; “ruba i nostri giocatori nel mezzo della stagione”. A parte che giocare ogni due anni mi sembra un segno di avanguardia (dopotutto la Fifa vorrebbe spingere il Mondiale in questa direzione, no?), ma comunque, mai come quest’anno la Coppa d’Africa è sul pezzo del qui e ora, in linea con l’incertezza dei tempi. I tempi pandemici, naturalmente, ma anche di crisi economica: una Coppa d’Africa così fragile che rischia di non arrivare alla fine del mese.

Così a poche settimane dall’inizio hanno cominciato a girare voci di un annullamento, con i giornali e i club, specie quelli di Premier, che lamentavano un rischio Covid troppo alto per i calciatori – anche se verrebbe da chiedersi perché la Coppa d’Africa dovrebbe fermarsi e le leghe europee no. Si chiedeva lo spostamento in estate, ma si ignorava che in Camerun, il Paese ospitante del torneo, l’estate è la stagione delle piogge. Insomma, tutte le argomentazioni sembravano sinceramente un po’ ipocrite e nascondere l’unica verità, una verità un filo razzista: la Coppa d’Africa è considerata superflua nell’universo calcistico bello eurocentrico, e non piace a nessuno. Ma come si poteva chiedere il rinvio mantenendo un equilibrio di facciata? Ecco tre argomenti più credibili della preoccupazione per la salute dei calciatori.

1) Le piogge le blocca Elon Musk

Il clima tropicale del Camerun impedisce lo svolgimento del torneo in estate? E che problema c’è. I club d’élite della Premier League, coordinati da Soros, potevano chiedere consulenza a Elon Musk, che avrebbe finanziato la costruzione di una enorme cupola di vetro a copertura dell’intero Camerun. Proprio come le cupole di quello zoo in Danimarca che simulano i diversi biomi terrestri. La Musk Dome, così si sarebbe chiamata, avrebbe innanzitutto bloccato la scocciatura delle piogge, ma il fine dei massoni della Premier era ancora più profondo: dimostrare che le stagioni climatiche, in ogni parte del mondo, possono finalmente allinearsi al ciclo del calcio europeo – quindi niente più mondiali in inverno o sbatti coi campionati sudamericani.

2) Rimandiamo la coppa in estate, così Osimhen e Spalletti si uniscono alla Nigeria

Per ottenere il rinvio bastava che la federcalcio nigeriana rivelasse i suoi piani: spostare la coppa in estate in modo da recuperare Victor Osimhen (oggi infortunato/positivo) e insediare il nuovo allenatore Luciano Spalletti. D’altronde l’amore di Spalletti per Osimhen è sotto gli occhi di tutti, così la Nigeria aveva deciso da tempo di affidare la nazionale al tecnico toscano, che, però, non poteva liberarsi dal Napoli prima di giugno. Solo allora, dopo aver raggiunto l’obiettivo del suo contratto con il Napoli, ovvero cedere Lorenzo Insigne, Spalletti si sarebbe unito alla Nigeria per la Coppa d’Africa. Spalletti aveva accettato l’incarico dicendo che il suo film preferito è Apocalypse Now, e che in Nigeria poteva finalmente essere come il colonnello Kurtz: un uomo massiccio dall’aura sacerdotale che si isola per vivere da semidio in mezzo alla foresta. Spalletti aveva anche deciso quale giocatore lo avrebbe sempre affiancato in conferenza stampa: il difensore Kenneth Omeruo, col suo nome che vibra di mitologia, sarebbe stato l’interprete perfetto per le sentenze mistiche di Spalletti.

3) La Coppa d’Africa a febbraio si sovrappone con Sanremo

È risaputo che la musichetta dell’eurovisione prima di Sanremo incolla alla TV tutta Europa (e anche di più), quindi la fase finale della Coppa d’Africa, che proprio come Sanremo si gioca dall’1 al 6 febbraio, semplicemente non la guarda nessuno. Quest’anno poi, dopo Ibra l’anno scorso, Amadeus ha invitato una leggenda della sua squadra del cuore: Samuel Eto’o, il suo eroe preferito del triplete dell’Inter. Nei corridoi di Saxa Rubra si mormora di un incontro previsto tra Eto’o e Mourinho, lì sul palco dell’Ariston. Il problema è che Eto’o è stato da poco eletto presidente della Federcalcio camerunense, dunque non è possibile che il massimo referente del Paese ospitante si assenti nella fase clou della Coppa. Ma Sanremo è Sanremo, quindi spostiamo la Coppa d’Africa.

Top e flop della prima giornata

Alla fine si è giocato, quindi. A ritmi bassissimi, in una immutabile condizione di stanca, ma si è giocato. Ci siamo divertiti? Non proprio. In una prima settimana di coppa oggettivamente deludente, filata via senza picchi di brillantezza, nemmeno le super big si sono distinte dal grigiore generale. Camerun e Senegal hanno svoltato le loro partite solo da calcio di rigore, l’Algeria ha fatto 0-0 nonostante i suoi attaccanti iper tecnici, l’Egitto ha prodotto pochissimo contro la Nigeria. In generale tutte le squadre hanno avuto grosse difficoltà a creare occasioni da gol di qualità.

Naturalmente non mancano le attenuanti: il Covid che ha decimato molte rose (a partire dal Senegal, che aveva addirittura 11 giocatori indisponibili contro lo Zimbabwe), e il fatto che molti giocatori provenienti dall’Europa hanno raggiunto le nazionali solo una settimana prima del torneo, rendendo impossibile quindi un lavoro tattico di gruppo approfondito. E così tra il caldo, i campi di gioco in brutte condizioni e partite con un’intensità pari a zero, a leggere i risultati della prima giornata pare di leggere un codice binario, con tutti quegli 1-0 0-1 1-0. Qui, comunque, abbiamo raccolto le cose che ci sono piaciute di più di questa settimana (e anche quelle che ci sono piaciute meno).

Top: Bouna Sarr (Senegal)

In un Senegal che ha approcciato la partita con lo Zimbabwe con troppa apatia, Bouna Sarr è stato l’unico che ha mostrato un po’ di voglia di giocare a pallone. Coi suoi dribbling nello stretto, le conduzioni col pallone incollato, passaggi raffinati ad alimentare il gioco. Il terzino del Bayern Monaco ha giocato – complice le numerose assenze nel Senegal – in una posizione ibrida di mezzala/trequartista destro, da qui però si spostava continuamente per accentrarsi e cucire il gioco nel mezzo. D’altronde lo avevamo conosciuto così ai tempi del Marsiglia: un terzino iper tecnico che si muove come il cavallo degli scacchi, che parte dalla fascia e poi conduce palla dentro il campo con un’agilità e una visione di gioco notevoli. Possiamo dire che Sarr è il Joao Cancelo della Coppa d’Africa? Più o meno.

Top: Armand Traoré (Burkina Faso)

Il capitano del Burkina Faso si è letteralmente caricato la sua squadra sulle spalle nel match contro il Camerun. Come Sisifo, il giocatore dell’Aston Villa ha fatto da primo regista nel cerchio di centrocampo, tirato i corner, dato una mano nei ripiegamenti difensivi, svariato da destra a sinistra cercando di alzare la qualità del gioco del Burkina Faso – l’unico che poteva farlo. Talvolta si è messo in proprio e ha provato a conquistare metri dribblando chiunque gli sbarrasse la strada (ha tentato 8 dribbling e gliene sono riusciti 4: il miglior valore della partita insieme a Tolo del Camerun). Suo è stato il cross per il gol del vantaggio di Sangaré, e suo anche il fallo che ha causato il primo rigore per il Camerun. Una buona fotografia delle molte responsabilità, forse troppe, che gravavano sulle spalle di Traoré.

Top: questo tackle di Ramy Bensebaini (Algeria)

So much Nainggolan vibeeeeees.

Top: la Nigeria

Senza esagerazione: questa settimana la Nigeria è stata l’unica squadra di calcio che possa chiamarsi tale. Contro l’Egitto ha messo in mostra un gioco collettivo, un sistema di pressing organizzato, un’intensità sconosciuta per le altre squadre. I lanci di Troost-Ekong dalla difesa trovavano Moses Simon sempre libero sulla fascia sinistra, che da lì con i suoi dribbling era una minaccia costante per la difesa; a centrocampo Wilfred Ndidi è stato un perno fondamentale sia nell’alimentare il possesso, sia nel fare da contrappunto al pressing degli attaccanti accorciando in avanti quando necessario. E pensare che la Nigeria aveva fatto di tutto per autosabotarsi prima del torneo, quando a metà dicembre aveva esonerato l’allenatore Gernot Rohr e affidato poi l’incarico ad interim al collaboratore Augustine Eguavoen. Difficile fare previsioni dopo una sola partita, ma la sensazione è che sentiremo parlare a lungo della Nigeria.

Flop: Zambo Anguissa (Camerun)

Anguissa quest’anno è atterrato in Serie A letteralmente come un alieno: un tipo di giocatore che non eravamo abituati ad avere in Italia, con un talento unico nel ripulire il possesso e uscire dalla pressione, maestro delle finte di corpo e dei dribbling difensivi. Un giocatore icatalogabile: non un regista, non un rifinitore, nemmeno un rubapalloni. In Camerun-Burkina Faso, però, l’assenza intorno ad Anguissa di un sistema ordinato di possesso ha messo a nudo il suo non essere un giocatore autosufficiente. Nei ritmi flemmatici della partita, coi compagni sostanzialmente fermi, Anguissa non era nel contesto adatto per esprimersi, è vero, ma se lo inseriamo tra i flop è perché la sua partita comunque è stata troppo imprecisa per i suoi standard. Zeppa di controlli sbagliati, passaggi fuori misura, giocate un po’ svogliate. Niente di grave per ora, però ecco, se seguiamo la Coppa d’Africa è anche un po’ per Anguissa. Quindi insomma, Frank ti aspettiamo.

Flop: Marocco-Ghana

Lo abbiamo detto, in questo primo giro di coppa d’Africa le peggio delusioni sono venute proprio dalle “big”. Ne abbiamo visti obbrobri che noi umani non potevamo immaginare: Riyad Mahrez mancare un controllo facile anche per me che scrivo, Yacine Brahimi sbagliare passaggi scemi di pochi metri, Salah giocare la partita peggiore della sua stagione. Il momento apicale di questo multiverso alla rovescia però si è toccato in Marocco-Ghana: doveva essere il primo big match della coppa d’Africa, una sfida tra due squadre che ambiscono alla vittoria finale (ok, non sono le superfavorite, ma insomma ci siamo capiti), e invece è trascorso nella piattezza più totale. Al fischio d’inizio poi il nostro hype era salito ulteriormente quando abbiamo visto Achraf Hakimi e Kamaldeen Sulemana – uno dei talenti più eccitanti del Ghana – occupare la stessa fascia, a giocare in pratica l’uno contro l’altro. E infatti tempo 4 minuti di partita e già Sulemana aveva fatto una serpentina delle sue dribblando proprio Hakimi. Pensavamo che era l’inizio di un grande duello, e invece era già la fine. Sulemana finirà la partita con quel solo dribbling riuscito (su 6 tentati), mentre Hakimi porterà in porto una prestazione anonima da terzino standard, come un Adam Masina qualsiasi.

Il pasticciaccio brutto dell’arbitro Sikazwe (senza ironia, ma con una considerazione)

La notizia ha fatto il giro del web nelle ultime 24 ore, quindi probabilmente la sapete già. Ieri, durante Tunisia-Mali, è successo che l’arbitro Janny Sikazwe della federazione dello Zambia ha fischiato la fine della partita in anticipo sul tempo, e per ben due volte. La prima volta è stato al minuto 85’07’’: l’arbitro ha fischiato tre volte e ha fatto per richiamare a sé la palla, e lì per lì non abbiamo capito bene cosa stesse succedendo – insomma: non pensavamo che l’arbitro avesse fischiato davvero la fine con cinque minuti d’anticipo.

La situazione era confusa, coi giocatori in campo che non sapevano bene come comportarsi e lo staff della Tunisia che è saltato dalla panchina indicando gli orologi ai polsi come in un meme di Walter Mazzarri (la Tunisia era in svantaggio 0-1). L’interruzione comunque è durata poco, qualcuno forse ha comunicato all’arbitro l’errore e la partita è ripresa regolarmente.

È stato qualche minuto più tardi, quando Sikazwe ha fischiato la fine di nuovo, e stavolta definitivamente, che abbiamo capito che il problema dell’arbitro nel tenere il tempo era serio. Al momento dell’interruzione il cronometro – il nostro, quello sullo schermo – segnava il minuto 89’43’’: troppo presto per fischiare la fine in ogni caso, ma ancor di più in una partita che aveva avuto molte interruzioni e che meritava oggettivamente un recupero corposo (per il telecronista di Eurosport «almeno sei o sette minuti di recupero»). La panchina della Tunisia impazzisce, e per lunghi momenti ho temuto sinceramente per l’incolumità dell’arbitro.

Quello che è successo dopo non so se è meglio o se è peggio. Trascorsi oltre venti minuti dalla fine, mentre il ct maliano era in conferenza stampa, l’organizzazione ha comunicato che la partita sarebbe ripresa per i tre minuti rimanenti. In campo però si presentano solo i giocatori del Mali, quindi il quarto uomo Rodrigues de Carvalho – che avrebbe arbitrato nell’appendice al posto di Sikazwe – non ha potuto fare altro che decretare la rinuncia della Tunisia e assegnare definitivamente la vittoria al Mali.

Naturalmente questa notizia è stata fatta girare (ed è stata recepita) con ironia, come l’ennesimo esotismo proveniente da una coppa disorganizzata, arretrata, buffa, dove l’incompetenza e l’assenza di professionalità sono la regola. E mi verrebbe da dire: abbiamo scoperto l’acqua calda! Stiamo parlando di una competizione, la Coppa d’Africa 2021, i cui ricavi derivanti dagli sponsor – quindi esclusi i diritti televisivi – si aggirano intorno ai 31 milioni di euro, contro il mezzo miliardo di Euro 2020. Alla nazionale vincitrice andranno circa 4,4 milioni di euro, meno della metà rispetto ai 10 milioni incassati dall’Italia dopo Euro 2020. Ma il dato che più restituisce la sproporzione tra i due movimenti calcistici è questo: nel 2017 tutte le squadre di calcio africane messe insieme hanno fatturato circa 400 milioni di dollari, meno di ciascuno dei dieci maggiori club europei presi singolarmente. Se la qualità del lavoro è legata alla qualità della remunerazione, quindi, non dovremmo meravigliarci troppo se il livello di professionismo di un torneo europeo e di uno africano differiscono così tanto. Di più: credo che ironizzare su questa differenza, dall’alto della nostra posizione privilegiata, sia una forma di abilismo.

Ma non è nemmeno di questo che volevo parlare. Nella faccenda dell’arbitro Sikazwe il momento che personalmente mi ha triggerato di più è stata l’immagine di lui, di Sikazwe, fermo in mezzo al campo con l’espressione dura e impassibile, dopo aver deciso la fine della partita, mentre tutti intorno a lui sbraitavano e chiedevano spiegazioni. Una maschera di totale incomunicabilità messa in mezzo a corpi che si contorcevano come in un dipinto di Caravaggio. Il dramma della vita contro l’assenza di vita. L’immagine mi ha fatto venire in mente un problema generale della classe arbitrale mondiale – e quindi anche della nostra: la presunzione da parte degli arbitri di agire come autorità morale e non soltanto sportiva.

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Nel caso di Sikazwe, anche accettando la possibilità di un problema tecnico (o di una negligenza) nell’attivare il cronometro al momento giusto, è inverosimile che nessuno degli altri collaboratori (circa 7 o 8, tra assistenti in campo e quelli in sala Var) si sia accorto dell’errore e glielo abbia fatto notare.

Stiamo parlando di un caso estremo e folle, ma la rigidità con cui Sikazwe si è rinchiuso nella sua ostinazione dopo aver preso la decisione, non ascoltando nemmeno – probabilmente – l’opinione dei suoi collaboratori, non è molto diversa dall’arroganza con cui gli arbitri di tutto il mondo esercitano a volte il loro lavoro: sventolando i cartellini in faccia ai giocatori con mimica teatrale, andandoli a imbruttire a volte muso a muso, rimproverandoli con aria di biasimo. Non come un giudice sportivo al servizio del gioco, ma come un’autorità superiore che guarda dentro alle anime dei giocatori e le giudica secondo un codice morale; un’autorità così perfetta e irremovibile al punto che negherebbe anche l’evidenza – come in quella scena di Una guida per l’uomo sposato in cui Joey Bishop nega il tradimento fatto davanti agli occhi della moglie.

Un doppio tackle che avevamo già visto

Direttamente dal Maifredi Team di Quelli che il calcio, i difensori del Burkina Faso Steeve Yago e Patrick Malo, insieme all’attaccante camerunese Vincent Aboubakar, hanno replicato una delle immagini più iconiche della storia del calcio. Ve la ricordate?

Qui se non ve la ricordate.

La prima Coppa non si scorda mai: Isole Comore

In principio fu terra di Francia, isolotti di sabbia dorata al largo del Mozambico battevano bandiera francese come una grigia Alsazia qualsiasi. Quali isole? Grande Comore, Anjouan, Mayotte e Mohéli, rigorosamente in ordine di grandezza, tutte incluse amministrativamente nella “Colonia di Madagascar e dipendenze”. Poi venne il 1960 e l’indipendenza del Madagascar: l’arcipelago delle Comore restò però territorio francese, anche se ora aveva un proprio governo autonomo. Quindi vennero gli anni ’70, l’indipendenza di molta Africa “europea” e anche delle Isole Comore. Ma non per Mayotte, che si separò dalle isole sorelle per rimanere sotto la Francia.

Seguono anni di tira e molla diplomatici, da una parte il governo delle Comore rivendica la quarta isola, dall’altra Mayotte non ne vuole sapere, e anzi nel 2011 vota l’annessione alla Francia in qualità di DOM (dipartimento d’oltre mare). Presidente delle Comore in quegli anni è Abdallah Sambi, uno che oltre a rivendicare febbrilmente Mayotte, userà una metafora che tornerà utile a scopi calcistici negli anni a venire: «le Comore sono cinque e la quinta isola è Marsiglia». E così dicendo Sambi alludeva alla grossa comunità di comoriani – circa cento-duecentomila persone – emigrata dall’isola negli anni e che oggi vive nell’area metropolitana marsigliese.

È qui che entra in gioco la federcalcio comoriana, che, per alzare il livello della Nazionale e dell’intero movimento calcistico, negli ultimi anni punta tutto sul «richiamare» gli emigrati di seconda generazione comoriani-marsigliesi. Una mossa che a vedere i risultati ha pagato. Nella partita contro il Togo dello scorso marzo, quella decisiva per staccare il pass per Camerun 2021 (la prima qualificazione in Coppa d’Africa nella storia delle Comore, ça va sans dire), dieci dei ventisei giocatori convocati erano nati a Marsiglia. Undici considerando anche Amir Abdou, il commissario tecnico, il vero demiurgo di questa operazione.

49 anni, portamento slanciato ed elegante, pelata lucidissima, Abdou guida le Comore da gennaio 2014 ed è il ct più longevo di questa Coppa d’Africa. Le Comore giocano nel gruppo C insieme a Marocco, Ghana e Gabon. Non un girone facile, e infatti hanno già perso la gara d’esordio col Gabon, ma l’organizzazione meticolosa di Abdou e del suo staff potrebbe ancora regalare sorprese.

La stella della squadra è El Fardou Ben. Trentadue anni, mancino, dal 2017 gioca nella Stella Rossa Belgrado dove è esploso segnando 73 gol in 160 partite. Gioca esterno destro a piede invertito o seconda punta, è bravo a smarcarsi in area e tutto ciò che fa ha sempre una patina grezza e impacciata. Ma quando i gol diventano così tanti (e anche gli assist: 37 con la Stella Rossa) evidentemente deve esserci anche della tecnica. L’anno scorso ha segnato a San Siro contro il Milan nei sedicesimi di Europa League: ha tagliato da destra a sinistra suggerendo un bel filtrante a Mirko Ivanic, controllato a seguire con il destro e poi trafitto Donnarumma con un diagonale mancino sul secondo palo. Nella stessa partita ha segnato un altro gol (poi annullato per un fallo di mano di un compagno) e preso una traversa su calcio di punizione.

Ben è nato sull’isola di Moyette (quindi è uno dei quattro “isolani” convocati da Abdou in Coppa) ma è cresciuto calcisticamente a Reunion, l’altro dipartimento d’oltremare francese al largo del Madagascar. Qui giocava nel club JS Saint-Pierroise, poi nel 2006 è volato in Francia per unirsi al settore giovanile del Le Havre. Lo stesso percorso spiccicato fatto da Dimitri Payet, nato proprio a Reunion. Ben ha debuttato in nazionale a marzo 2014 nella partita in cui ha esordito anche il ct Abdou, che in pratica ha scovato uno a uno questi ragazzi e li ha cresciuti come figli suoi.

Come la federcalcio comoriana ha ingaggiato Abdou è una storia: nel 2013, mentre allena in sesta divisione francese, Abdou elimina nel 5° turno di Coppa di Francia un club di terza divisione, quindi il delegato comoriano in Europa legge dell’impresa su La Dépêche du Midi, un giornale occitano, e contatta il tecnico per un colloquio. Non so, mi sembra anche una bella storia di giornalismo.

Il modulo avanguardistico del Burkina Faso

Ci diciamo che nel calcio per nazionali non c’è avanguardia tattica, che i commissari tecnici sono meri gestori, ma stavolta il ct del Burkina Faso ha messo a punto un visionario 2-4-4, dove il terzino destro gioca col numero 9. Più di qualcuno a casa avrà preso appunti.

https://twitter.com/StrawHatOwusu/status/1480212115420033024

Storia dei capelli di Aliou Cissé

Nel romanzo Storia dei capelli lo scrittore argentino Alan Pauls ha centrato in pieno il punto: ogni taglio di capelli è simbolo di un cambiamento nostro e della società che ci circonda; è qualcosa di personale – più personale, chessò, dei vestiti – e al contempo qualcosa che si declina a seconda delle mode. Nel romanzo il potere catartico di un taglio di capelli è rappresentato metaforicamente da Celso, un parrucchiere paraguayano che in qualche modo finisce per cambiare la vita delle persone con cui entra in contatto, proprio come le sue forbici cambiano i loro capelli.

È difficile capire il perché, ma nella storia sono innumerevoli i miti che collocano nei capelli la sede dello spirito, dell’energia, dell’identità di una persona. Tutt’oggi i monaci orientali rasano il cranio come simbolo di castità, nella Bibbia Sansone è un uomo fortissimo che diventa fragilissimo se solo gli tagliano i capelli. In Senza capelli Niccolò Fabi considera i capelli un’appendice tra “I miei pensieri e il cielo / sono la parte di me che mi assomiglia di più” e poi “Quando perdo il senso e non mi sento bene / io chiedo ai miei capelli di darmi la conferma che esisto”. Insomma, è evidente che i capelli contengono una parte importante di chi siamo. Ecco a voi quindi, attraverso una lettura dei suoi capelli, l’evoluzione del ct senegalese Aliou Cissé, l’allenatore con i capelli e il 4-4-2 più fichi del mondo.

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Cissé è nato nel 1976 in Senegal, ma già a nove anni si trasferisce in Francia, a Champigny-sur-Marne, 70mila abitanti alla periferia sud-est di Parigi. Firma il suo primo contratto da calciatore professionista a 18 anni, con il Lille. In tre stagioni gioca poco e nulla, è ancora molto giovane, quindi nel 1997 si trasferisce al Sedan in terza divisione. È qui che Cissé matura davvero: il suo tecnico è Bruno Metsu, colui che guiderà anche il Senegal al Mondiale 2002 e che fungerà un po’ da mentore per Cissé. Dopo un solo anno in terza serie Cissé passa al Paris Saint-Germain. Coi parigini diventa vice-campione di Francia nel 2000 e l’anno dopo gioca cinque partite nei gironi di Champions League. Nella stessa stagione debutta in nazionale.

In questo periodo Cissé ha un taglio di capelli rigoroso e quasi militare, forse una metafora della virilità e del senso di disciplina che doveva trasmettere in campo. Cissé era un mediano e come avevano i capelli i mediani di fine anni ’90? Roy Keane era rasato, Makelele rasato. Almeyda da ragazzo lo chiamavano “el pelado”. Il mediano degli anni ’90 era un ruolo rude e austero, e i suoi capelli non dovevano concedere nulla all’estetica.

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Il 2001-2002 è l'anno del passaggio di Cissé al Montpellier, ma soprattutto l'anno dei grandi traguardi con il Senegal, di cui nel frattempo è diventato capitano: secondo posto in Coppa d’Africa a febbraio (Cissé sbaglia il rigore decisivo nella finale con il Camerun), cavalcata fino ai quarti di finale al mondiale in estate. Un Senegal entrato nel nostro immaginario anche per i capelli: quelli del ct Bruno Metsu, voluminosi e sciolti come quelli di una rockstar; e quelli di Papa Bouba Diop, l’eroe della partita inaugurale contro la Francia campione in carica, al contrario completamente glabro. I capelli, o l’assenza di capelli.

Siamo nel prime della carriera di Cissé, e i suoi capelli seguono la crescita della sua leadership e aumentano di volume. Cissé è un mediano diligente e aggressivo  – guardando le sue partite al mondiale 2002 è molto aggressivo per quei tempi – e i suoi capelli sono lunghi il giusto, sparati all’indietro il giusto, per incoronare la sua testa come la corona di un sovrano. Esattamente i capelli che deve avere l’uomo più saggio e carismatico in campo.

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Dal 2002 al 2006 Cissé trascorre quattro stagioni in Premier League: due al Birmingham e due al Portsmouth. È qui che i capelli di Cissé, entrato ormai nella sua fase decadente come calciatore, deviano dalla sobrietà per abbracciare il manierismo. Diventano uno specchio della sua realtà professionale: il Portsmouth è una squadra indebitata e zeppa di giocatori freak, che nel giro di poche stagioni toccherà il vertice e poi pagherà il prezzo con il fallimento e la retrocessione. In questo clima di dissolutezza i capelli di Cissé diventano caricatura di se stessi: si allungano ammiccando alla sensualità, si raccolgono in acconciature sempre nuove, si colorano per essere più sgargianti. Forse le treccine hanno anche un significato citazionistico: magari come omaggio a Jay-Jay Okocha, che in quegli stessi anni sta insegnando il concetto di arte per l’arte in Inghilterra, al Bolton.

Quando Cissé torna in Francia per le ultime tre stagioni da calciatore, tra il Sedan e il Nimes, i suoi capelli sempre più lunghi sono diventati simbolo di sobrietà e di saggezza, come l’ultimo Roberto Baggio di Brescia. Capelli di chi sta già preparando il futuro che gli avi hanno stabilito per lui. Capelli lunghi e pesanti, come pesante è l’accumulo degli anni e delle responsabilità.

Nel 2015 Aliou Cissé viene nominato ct del Senegal, e a quel punto anche i suoi capelli hanno raggiunto la maturazione definitiva: una criniera leonina, elegante e bellissima. Per come gli ricade sul petto e sulle spalle somiglia al Nemes, l’antico copricapo dei faraoni egizi, e trasmette il senso di autorevolezza serena di un vero leader. Del vicino di casa perfetto che sa sempre qual è la farmacia di turno, e poi cucina il pesce divinamente.

Da ct Cissé ha guidato il Senegal ai quarti di finale nella Coppa d’Africa 2017 e al secondo posto nel 2019 (Cissé quindi ha partecipato a entrambe le finali giocate dal Senegal nella sua storia, una da giocatore e una da allenatore, perdendole entrambe). In mezzo, ai mondiali russi del 2018, il mondo si è accorto della sua figura solenne a bordocampo: è diventato “il sex symbol della coppa del mondo”, “l’allenatore col miglior hairstyle”. Dei 32 ct della competizione Cissé era l’unico con la pelle nera, e anche il meno pagato. Volete uno sguardo di Cissé che penetrerà a fondo nella vostra anima? Eccolo. (Qui invece se volete comprare una maglietta o una tazza con il suo profilo Wikipedia).

https://twitter.com/braineagles/status/1009112762247720960

Ovunque proteggi, Nuestra Señora Europa League

https://twitter.com/ThomascIdn/status/1480259171333382158

Durante Etiopia-Capo Verde un glitch dello spazio-tempo è comparso sui cartelloni a bordocampo, rivelandoci quello che in fondo già sospettavamo: la Coppa d’Africa è solo una finzione, un travestimento effimero dell’unica coppa immutabile ed eterna: l’Europa League. Essa è l’unica competizione che vede tutto e innerva tutto. Essa vivrà e regnerà nei secoli dei secoli.

Noi invece ci rivediamo la settimana prossima, ciao!


  • Salentino e studente di Architettura. È nato il 23 dicembre come Morgan, Carla Bruni e Vicente Del Bosque.

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