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cannabis
, 23 Settembre 2021

Cannabis e sport al tempo della legalizzazione


Con una nota ufficiale pubblicata martedì 14 settembre, la WADA ha annunciato di avere istituito una commissione che si occuperà di valutare la proposta di eliminare la cannabis dalla lista delle sostanze dopanti. Una decisione che non arriva dal nulla, ma che nasce dal dibattito estivo sull'estromissione dai Giochi di Tokyo della velocista di punta degli USA e soprattutto si incasella in quella che oramai sembra una tendenza globale verso la legalizzazione.


Nei primi giorni di luglio, a venti giorni circa dall’inizio dei Giochi Olimpici di Tokyo, l’agenzia antidoping americana (USADA) ha comunicato che la velocista statunitense Sha’Carri Richardson sarebbe stata sospesa per 30 giorni con effetto immediato dopo essere stata trovata positiva al tetraidrocannabinolo (THC), il principale principio attivo contenuto nella marijuana e nei suoi derivati insieme al cannabidiolo (CBD).

Richardson ha 21 anni e giusto due settimane prima, il 19 giugno, si era qualificata vincendo i trials disputati in Oregon dopo che ad aprile era addirittura diventata la sesta atleta più veloce della storia chiudendo con uno straordinario 10”72. Tuttavia, a causa del test positivo, i risultati della sua qualificazione sono stati automaticamente annullati e Richardson quindi non ha potuto partecipare alla gara dei 100 metri. Avrebbe potuto comunque partecipare alla staffetta 4×100, se fosse stata convocata, perché quella gara si è svolta il 6 agosto, a squalifica conclusa.

A differenza di molti atleti, i quali spesso tendono ad accampare scuse fantasiose che solitamente comprendono creme per la cute o altri parafarmaci e cosmetici, la giovane centometrista si è assunta la completa responsabilità dell’accaduto, dichiarando di aver fumato marijuana una settimana prima della gara, dopo aver scoperto da un giornalista che la sua madre biologica era morta. In un’intervista rilasciata nei giorni immediatamente successivi alla squalifica, ha semplicemente detto: «So cos’ho fatto. So quello che dovrei fare. E ho deciso comunque di fare così», aggiungendo di non voler cercare scuse né empatia per la sua situazione. 

Questo atteggiamento, certamente frutto di grande maturità e consapevolezza nella comunicazione pubblica, è senza ombra di dubbio legato al fatto che Richardson abbia fatto qualcosa di completamente legale – si trovava in Oregon, stato in cui la cannabis a scopo ricreativo è legale dal 1 luglio 2015 – ma soprattutto al fatto che abbia fatto qualcosa che per gran parte della popolazione statunitense è ormai del tutto normale.

La sua squalifica è diventata immediatamente terreno di un acceso dibattito negli USA.

Nel prendere questa decisione, l’Agenzia antidoping americana ha dichiarato che stava semplicemente applicando le regole di WADA – l’Agenzia mondiale – che classificava la marijuana e altri cannabinoidi come sostanze vietate in competizione. La WADA infatti vieta le sostanze che soddisfino almeno due di tre criteri: rappresentare un rischio per la salute degli atleti, migliorare anche potenzialmente le prestazioni o violare “lo spirito dello sport”. Il problema è che la netta maggioranza della comunità scientifica sostiene che i dati a sostegno di un miglioramento delle prestazioni sportive dovuti all’uso di marijuana sono scarsi se non inesistenti: alcuni studi sembrano indicare, anzi, che riduca certe capacità atletiche. 

Anche in relazione al pericolo per la salute degli atleti, vi sono pochi appigli: sebbene esista possibilità di danni causati da un consumo precoce, continuativo o a causa di predisposizione a particolari problemi psichiatrici, questi non sono certamente inferiori ai possibili danni causati dall’alcool, sostanza sulla quale vigono regole molto più lasche.

Anche se la marijuana non migliora le prestazioni e difficilmente possa essere un pericolo per la gli atleti, la WADA può comunque giustificare il divieto sulla base del fatto che violi lo spirito dello sport, punto molto interpretabile e che include una lunga lista di valori come l'onestà, la dedizione e il rispetto delle regole e delle leggi. Quest'ultimo aspetto ha effettivamente delle basi più solide rispetto ai due precedenti, perché l'uso di cannabis è ancora illegale nella maggior parte dei paesi che partecipano a eventi sportivi internazionali come le Olimpiadi.

Il dibattito su questo tema arriva in un momento in qualche modo unico nella storia della war on drugs.

L'atteggiamento nei confronti della marijuana è drasticamente cambiato negli ultimi anni, come è chiaramente dimostrato dalla recente legalizzazione della cannabis ricreativa in diversi stati degli USA, in Canada, Messico, Uruguay, Spagna, Sud Africa e Georgia e mentre in molte altre nazioni in tutto il mondo – tra cui l’Italia – si sta considerando di consentirne l'uso per scopo medico e, soprattutto, ricreativo. Non a caso, le cose potrebbero cambiare anche nel mondo dello sport, seppure con calma.

Infatti, dopo gli accesi dibattiti seguiti al caso Richardson, anche la World Anti Doping Agency potrebbe riconsiderare la propria posizione: nella giornata di martedì, infatti, l’Agenzia ha rilasciato una nota ufficiale nella quale comunica che un gruppo di consulenti dovrà esaminare se, di fronte a tali evidenze, abbia ancora senso che la cannabis rimanga una sostanza vietata. «A seguito della ricezione di richieste da parte di un certo numero di parti interessate, il comitato esecutivo ha approvato la decisione del List Expert Advisory Group di avviare nel 2022 una revisione scientifica dello stato della cannabis», aggiungendo che, in ogni caso, La cannabis è attualmente vietata in tutte le competizioni e continuerà ad esserlo per tutto il 2022».

Una possibile soluzione intermedia, potrebbe essere simile a quella adottata dalla Ultimate Fighting Championship (UFC), la più importante organizzazione di mixed martial arts a livello globale. Piuttosto che basarsi solo sui risultati di un test delle urine – che è quello che è stato usato per squalificare Richardson – l'UFC richiede prove più precise, ad esempio segni comportamentali che dimostrino di essere sotto l'influenza di THC il giorno del combattimento, dal momento che a causa delle proprietà chimiche del tetraidrocannabinolo livelli di sopra della soglia consentita possono apparire nelle urine per settimane dopo il consumo rendendo i controlli sostanzialmente inaffidabili. 

Un compromesso di questo tipo, probabilmente non necessario negli sport che basano la performance sulla prestazione fisica degli atleti, sarà certamente applicato in sport nei quali concentrazione e rilassatezza giocano un ruolo fondamentale, ad esempio tiro a segno e tiro con l’arco, in cui è dimostrato che la marijuana è potenzialmente in grado di produrre un vantaggio tra chi ne fa uso grazie alle sue proprietà sedative e ansiolitiche. Coerentemente, la Federazione Internazionale di Tiro con l’Arco vieta anche l’assunzione di alcol durante le competizioni.

Mentre in Italia si inizia a discutere di legalizzazione, da un lato con una raccolta firme record che ha ottenuto le 500’000 firme in meno di una settimana e dall’altro attraverso la discussione di un disegno di legge atteso da anni, il mondo dello sport potrebbe dare un segnale forte. A livello di immagine, l’uso di THC da parte di atleti professionisti potrebbe dare una grossa mano per l’eradicazione dello stigma sociale legato alla marijuana e la conseguente nascita di un dibattito laico e scientifico sull’argomento, in particolare tra gli sportivi che, inaspettatamente, si sono rivelati forti consumatori: secondo la rivista scientifica PLOS One, addirittura il 26% di 1161 atleti intervistati ha riferito di essere un consumatore abituale di cannabis.


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  • Genovese e sampdoriano dal 1992, nasce in ritardo per lo scudetto ma in tempo per la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni. Comincia a seguire il calcio nel 1998, puntuale per la retrocessione della propria squadra del cuore. Testardo, continua imperterrito a seguire il calcio e a frequentare Marassi su base settimanale. Oggi è interessato agli intrecci tra sport, cultura e società.

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