Calcio, denaro e potere nell'Ungheria di Orbán
Come in Ungheria sport, retorica nazionalista, corruzione e consenso sono strettamente legati.
Il calcio ungherese non gode di buona reputazione da oltre mezzo secolo: ancora oggi, quando parlando di calcio si menziona l’Ungheria, la prima cosa che viene in mente è la Grande Ungheria, lo squadrone capace di umiliare l’Inghilterra per 7-1 nel 1953 e di sfiorare la vittoria della Coppa Rimet l’estate successiva. Dalla rivoluzione del 1956 che fece fuggire all’estero i suoi più grandi campioni – Ferenc Puskás in primis – fino a pochi anni fa, la nazionale magiara ha conosciuto un lento e costante declino. L’ultima apparizione in un mondiale risale a Messico ‘86, mentre le squadre di club ungheresi hanno partecipato soltanto in tre occasioni alla fase a gironi della Champions League (Ferencváros nel 1995-96 e nel 2020-21, Debrecen nel 2009-10) e cinque volte a quella dell’Europa League (Ferencváros 2004-05 e 2019-20, Videoton 2012-13 e 2018-19, Debrecen 2010-11).
Ciononostante, la passione degli ungheresi per il calcio non è mai scomparsa e anche se gli stadi spopolati potrebbero far pensare il contrario – la media spettatori della prima divisione, la Nemzeti Bajnokság I, è in crescita ma si assesta sulle 3000 persone a partita ovvero metà della nostra Serie B – il calcio resta tutt’ora lo sport nazionale a Budapest e dintorni. In questo contesto, il continuo rimando alle imprese degli anni Quaranta e Cinquanta si è trasformato dall’essere un felice ricordo di tempi migliori a una vera e propria ossessione, fotografia sbiadita di un’ormai età dell’oro di fronte alla quale confrontare impietosamente la triste realtà del presente. Questo frustrante senso di nostalgia ha giocato una parte importante nella creazione di un’identità nazionale ungherese post-comunista che vede nel ritorno a presunti valori etnico-religiosi di un passato mitico la strada da percorrere per trovare un posto nell’Europa del futuro.
In Ungheria, colui che ha saputo capitalizzare al meglio questo sentimento condiviso è senza ombra di dubbio Viktor Orbán, primo ministro dal 1998 al 2002 e dal 2010 ad oggi. Orbán da giovane è stato un discreto calciatore non professionista e ha giocato nelle serie minori fino al 2005. Si dice che sia a dir poco ossessionato dal calcio, che occupi praticamente tutto il suo tempo libero a giocare o guardare partite in televisione (si narra fino a sei in un solo giorno!) e infatti, fin dall’inizio della sua carriera politica, ha compreso l’importanza del calcio come strumento di consenso. Non a caso, ben undici delle dodici squadre che partecipano alla Nemzeti Bajnokság I sono in mano a suoi aperti sostenitori o a espliciti alleati del partito di governo. Un caso particolare è quello del Puskás Akademia, una società fondata nel 2005 con sede nel paese di Felcsút, poco più di mille abitanti, che non ha nulla a che fare con Ferenc Puskás ma che è il luogo di nascita proprio del presidente Orbán.
La storia del Puskás Akademia è paradigmatica: inizialmente fondata come squadra giovanile, dal ritorno di Orbán al governo nel 2009 si è affiliata al Fehérvár FC (che per ragioni di sponsor ha cambiato nome prima in Videoton e poi in MOL Vidi FC) e ha cominciato a tesserare sempre più giocatori giovani e di prospettiva usciti proprio dalla “primavera” del MOL Vidi. Poi, nel 2012, lo stato ungherese ha deciso di finanziare la costruzione della Pancho Arena, uno stadio all’avanguardia da 3500 posti (il doppio degli abitanti di Felcsút) progettato secondo i crismi dell’“architettura organica ungherese”, abilitato ad ospitare partite internazionali e soprattutto edificato su terreni che erano di proprietà dello stesso primo ministro.
Dal 2010, nove club di prima divisione hanno costruito nuovi modernissimi stadi in gran parte finanziati dallo Stato, tra i quali spicca il Ferenc Puskás Stadium di Budapest, ben 68’000 posti a sedere, inaugurato nell’aprile 2019 e che ha ospitato tre partite di Euro 2020. Secondo le stime, in dieci anni di governo, Orbán ha destinato più di un miliardo di fondi pubblici allo sviluppo del movimento calcistico ungherese, una cifra esorbitante se si pensa che il PIL annuale dell’Ungheria ammonta a poco più di 160 miliardi (per farsi un’idea, quello italiano è intorno ai 2000 miliardi). Gli investimenti del governo nel calcio, poi, non sono limitati ai confini nazionali: dal 2010 sono stati spesi più di 70 milioni di euro per la crescita delle academy in città con corpose minoranze ungheresi in Romania, Serbia, Slovacchia, Ucraina e Slovacchia.
Questa decisione è stata presa in parallelo alla nuova legge sulla cittadinanza, varata nel 2011, che offre la possibilità di ottenere la nazionalità a chiunque sia discendente di avi che avessero la cittadinanza ungherese prima del 1920 e tra il 1941 ed il 1945, quando le frontiere comprendevano gran parte della Croazia, della Slovacchia e della Transilvania. La decisione ha riscosso grande successo, al punto che secondo l’ultimo censimento (2015) oltre 750’000 persone (cifra enorme per un paese di poco meno di 10 milioni di abitanti) avevano ottenuto la nazionalità. Il che significa, al di là della retorica irredentista, la creazione di un'importante bacino di nuovi elettori grati a Orbán e al suo partito, Fidesz.
Inoltre, le academy all’estero dedicate alle minoranze ungheresi hanno permesso da un lato di ampliare il serbatoio da cui la nazionale può pescare nuovi talenti e dall’altro di creare una rete transnazionale legata al nazionalismo ungherese in varie aree dell’Europa centro-orientale. Tuttavia per Orbán il calcio non è stato soltanto un mezzo utile per accrescere il proprio consenso tra le masse elettorali, anzi è stato ed è prima di tutto uno strumento per cementificare il legame con i grandi oligarchi del paese. Non a caso, come già accennato, il 90% delle squadre di prima divisione è in mano a suoi alleati, sostenitori e finanziatori e le montagne di fiorini (spesso provenienti dai Fondi Europei per lo Sviluppo) spesi dallo stato per le grandi opere legate al calcio sono un ottimo metodo per guadagnarsi l’amicizia dei miliardari locali.
In parallelo agli appalti per la costruzione di stadi di nuova generazione, impianti sportivi all’avanguardia e scuole calcio di ultima generazione in patria e all’estero, nel 2011 è stato varato il TAO, un programma di contributi pubblici per chiunque investa nel mondo dello sport, enormemente contestato dall’opposizione e da parte della società civile perché i dati sui contributi pubblici a queste imprese (che sono stimati intorno ai 250 milioni di euro tra 2011 e 2015) sono inaccessibili in quanto “segreti fiscali”.
Secondo quanto ha rilevato l’ONG Transparency International Hungary, il 12% dei fondi è andato proprio al Puskás Akademia, la società della città natale di Orbán posseduta da Lorinc Meszaros, uno dei suoi più fedeli alleati. Il fatto curioso è che Meszaros nel 2007 era sull’orlo della bancarotta. Nell’arco di dodici anni - da quando è diventato proprietario della squadra di Felcsút - Meszaros si è trasformato nell’uomo più ricco di Ungheria nonché il megafono del partito di governo, a capo di una holding mediatica che controlla canali televisivi, il quotidiano sportivo più importante del paese, i quotidiani locali più venduti in dodici delle diciannove province e molto altro. Casualmente, l’80% delle sue ricchezze deriva dall’assegnazione di bandi finanziati dai fondi di sviluppo dell’UE. La storia di Meszaros non è un’eccezione, ma soltanto l’esempio più estremo delle opache relazioni economiche tra governo e imprenditori nel calcio magiaro. Per esempio, i nuovi proprietari dell’Honved Budapest hanno vinto l’appalto per la costruzione del “muro anti-migranti” al confine meridionale del paese.
Tutto questo è gravissimo di per sé, ma diventa inaccettabile se si guarda agli investimenti dello stato in altri settori ben più importanti rispetto al calcio. Per fare esempio, lo stato Ungherese dedica il 6,4% del PIL alla sanità, ben due punti sotto alla media europea, e il 2,5% allo sport, una percentuale esorbitante rispetto allo 0,7% della media UE ma anche in confronto al secondo paese più “spendaccione”, l’Estonia, che non arriva all’1,5%. Tutto questo in un paese in cui i medici ricevono gli stipendi più bassi tra i 34 paesi OCSE e in cui l’aspettativa di vita è di 76 anni, la più bassa in EU dopo Romania, Lettonia, Lituania e Bulgaria. Purtroppo però, a quanto sembra, lo sviluppo del welfare porta meno voti del calcio, in Ungheria come altrove.
Questo articolo è uscito in anteprima su Catenaccio, la newsletter di Sportellate.it.
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