Per un pugno di yuán: la rapidissima parabola del calciomercato cinese
Sembrano passati secoli, ma è passato appena un lustro da quando le squadre cinesi compravano giocatori di medio e alto livello pagandoli a peso d'oro dai più ricchi e prestigiosi campionati europei. Tuttavia è "bastato" un cambio di direzione ordinato dal Partito Comunista per stravolgere le carte in tavola, far ritirare la marea di yuán verso oriente e addirittura portare al fallimento alcune delle società più ricche e importanti della Chinese Super League.
Quando pochi anni fa la Chinese Super League batté il record del trasferimento più costoso nella storia del calcio asiatico per ben cinque volte nello spazio di una sola sessione di calciomercato, tutti eravamo convinti che (finalmente) un nuovo grande concorrente, solido e con un mercato enorme alle spalle, stesse provando ad entrare a gamba tesa nel “gioco” del calcio mondiale. Gli acquisti a cui mi riferisco non erano i soliti trentasettenni bolliti desiderosi di un ultimo massiccio prelievo prima di ritirarsi dal calcio, ma si trattava di nomi di rilievo del calcio europeo all’apice – o quasi – della propria carriera: Ramires, Jackson Martinez, Alex Texeira, Hulk e soprattutto Oscar, trasferitosi dal Chelsea allo Shanghai SPIG per un’ottantina di milioni. All’epoca, ovvero poco più di quattro anni fa, il centrocampista dei bluesaveva venticinque anni e secondo le voci in circolazione era seguito da Inter, Juventus, Milan e Atletico Madrid. Ma preferì la Cina e, con un’onestà rara nel mondo dello sport professionistico, ammise di essersi trasferito alla foce del Fiume Azzurro per una mera questione economica. «Quando ho deciso di trasferirmi qui» dichiarò in un’intervista al The Guardian «l’ho fatto pensando più alla mia famiglia che alla mia carriera». E difficilmente si riferiva all’amore di sua moglie per la cucina dello Jiangsu. Antonio Conte, ai tempi manager del Chelsea, si disse molto sorpreso della scelta ma allo stesso tempo dichiarò di comprendere e come mai la Cina fosse diventata una meta appetibile e che, anzi, a suo avviso sempre più calciatori europei e sudamericani avrebbero seguito le orme di Oscar e questo lo preoccupava molto. A suo avviso, il mercato cinese sarebbe stato un grave pericolo per tutti.
Tuttavia, cinque anni dopo, Oscar è rimasto l’acquisto più costoso della Chinese Super League e del calcio asiatico in generale. Per qualche anno ci sono stati altri acquisti di spessore e altri contratti importanti, ma sempre al di sotto dei cinque big del 2016 e soprattutto in un palese trend discendente. Il mercato cinese che tanto spaventava il neo campione d’Italia è sparito dalla scena, collassato su se stesso, naufragato insieme ad alcune delle sue squadre principali. Una delle quali, come quantomeno tutti gli interisti sapranno, è la vincitrice del campionato 2020 ovvero il Jiangsu Suning, fallita pochi mesi fa. Come è potuto accadere? Cosa è successo in questi cinque anni? Nei prossimi anni ci sarà una ripresa?
I trasferimenti del 2016 furono interpretati come un chiaro segnale del fatto che il progetto governativo di trasformare la Cina in una potenza calcistica fosse già ben indirizzato. Effettivamente, il presidente calciofilo Xi Jinping aveva già introdotto una serie di iniziative volte ad accrescere la popolarità del calcio nel Regno di mezzo, prima tra tutte includerlo nei curriculum scolastici dal 2014. Nel 2015 il governo arrivò a pubblicare un piano in cinquanta punti per riformare l’organizzazione del calcio a tutti i livelli, dalle squadre di quartiere alla Super League. Il punto centrale del progetto era quello di professionalizzare la Chinese Football Association (CFA) e dare una nuova immagine ad una lega che, negli anni precedenti, era stata colpita da numerosi scandali di corruzione e non solo. L’obiettivo sul lungo periodo, comunque, non era tanto quello di creare un campionato attrattivo, ma quello di sviluppare giocatori locali e di conseguenza una selezione nazionale di valore che riuscisse se non a primeggiare quantomeno a competere per le qualificazioni mondiali con le migliori compagini asiatiche, dal momento che l’ultima (e unica) partecipazione risale all’edizione 2002. Quest’ultimo fu un aspetto fondamentale nel cambio di direzione degli ultimi anni, poiché l’acquisto di stelle dai campionati esteri cominciò ad essere vista come dannosa per lo sviluppo dei giovani calciatori locali. Infatti, dal 2017, le società vennero obbligate a schierare massimo tre giocatori stranieri e minimo un cinese under-23 in ogni partita. Le regole cambiarono ancora nel 2018, quando il governo impose un massimo di quattro stranieri in rosa. In ogni caso, se i cambi di regolamento hanno influito sulle scelte tecniche e di mercato, queste limitazioni non sono state il fattore decisivo del declino economico della CSL.
Ben più impattante fu l’introduzione nel 2018 di una nuova tassa sui trasferimenti dall’estero, a causa della quale per qualunque acquisto superiore ai 7 milioni di dollari, i club avrebbero dovuto pagare una somma equivalente alla CFA. Questo provvedimento venne motivato con l’idea che le società cinesi stessero spendendo cifre enormi per “fannulloni” disinteressati alla crescita del campionato locale e interessati soltanto a riempirsi il portafogli, come effettivamente aveva candidamente ammesso lo stesso Oscar o, ancora più sfacciatamente, Carlos Tevez, che definì la sua esperienza a Shanghai come «sette mesi di vacanza».
Se queste novità regolamentari, unite a un cambio di mentalità da parte degli alti dirigenti politici e sportivi, avevano preparato il terreno ad un ridimensionamento della CSL, la crisi economica causata dal Covid-19 ha dato il colpo finale, rendendo l’acquisto di campioni esteri sempre meno politicamente appetibile ed economicamente insostenibile. Molte squadre del campionato cinese sono in mano a grandi gruppi immobiliari o di vendita al dettaglio, che fino a qualche anno fa abbondavano di liquidità e per cui investire nel calcio era un modo per ingraziarsi il Partito Comunista e fare pubblicità alle proprie imprese, cosa resa molto più difficile da quest’anno a causa dell’introduzione del divieto di chiamare i club con il nome delle aziende proprietarie. L’esempio più tangibile, nonché il più interessante per noi italiani, è quello del Suning Jiangsu che, come accennato all’inizio, ha chiuso i battenti e quest’anno non difenderà il titolo vinto nella scorsa stagione. Ma non si tratta dell’unico caso: anche il Tianjin Tianhai si è trovato pochi mesi prima nella stessa situazione, così come Liaoning FC, che però è riuscito a confluire in una nuova società.
In pratica, la pandemia ha contribuito a cancellare gli ultimi flebili interessi che gli imprenditori cinesi avevano nell’investire nel mondo del calcio, ma si è trattato soltanto della famigerata goccia che fa traboccare il vaso e non della causa principale. Situazioni finanziarie precarie, all’interno di un sistema strutturalmente precario, sono diventate del tutto insostenibili alle prime difficoltà politiche ed economiche. Se cinque anni fa Antonio Conte temeva che la potenza di fuoco della Chinese Super League stesse diventando un pericolo per il mercato europeo, adesso la situazione si è mutata radicalmente, come lo stesso Conte ha scoperto sulla sua pelle. Ciò che fa veramente paura è che il modus operandi “tutto e subito” dei grandi imprenditori del calcio cinese, unitamente ai fallimenti in madrepatria, possa ripercuotersi sui club del Vecchio continente.
(articolo uscito nell’ultimo numero di “Catenaccio”, la nostra newsletter al cui interno trovate approfondimenti sulla settimana sportiva, consigli culturali, compilation di cose brutte, domande dal pubblico e tante altre cose interessanti. Se non ci sei ancora iscritto e vuoi riceverla ogni sabato mattina, questo il link dove registrarsi: https://mailchi.mp/bd0be5dfdb40/t5rrmyi31o)
Ti potrebbe interessare
Dallo stesso autore
Newsletter
Iscriviti e la riceverai ogni sabato mattina direttamente alla tua email.