Mitologia dell’abbandono: una storia Laziale
"Chi vuole, resti. Chi non se la sente, può andar via subito"
(Eugenio Fascetti, discorso alla squadra - 198
Nelle turbolenze emozionali vengono sempre meno punti di riferimento che sino a quel momento erano considerati come granitici e che garantiscono un quieto vivere manzoniano. Quanto accaduto nel tardo pomeriggio di ieri in casa Lazio è stato uno scossone che ha smosso le menti, i cuori e le coscienze.
Mitologia e religione svolgono un ruolo rassicurativo quando le certezze terrene vengono meno e ad esse ci si aggrappa nella speranza di non naufragare.
L’addio, improvviso, di Simone Inzaghi ha tradito quel sentimento popolare a cui tanti e tante erano legati perché chiaramente indicativo di una mitologia Laziale lunga 121 anni. Se si legge in giro per il web si noteranno riti collettivi volti ad invocare i Lari quali Maestrelli e Fascetti come anche esorcismi volti a malcelare un vuoto emotivo nel quale nessuno e nessuna pensava di ricaderci, specie dopo quel maledetto 31 Agosto del 2002 quando Alessandro Nesta si vide costretto ad abbandonare Roma direzione, caso vuole, Milano (benchè sponda rossonera).
Se si guarda a loro, in effetti, si noterà una differenza abissale con chi ha deciso oggi di abbandonare l’orchestra di un Titanic, quello della Serie A, che sta lentamente scivolando nelle torbide acque finanziarie svuotate di contante ed accumulanti debiti numericamente insostenibili in un quadro economico già di per sé stesso in profonda crisi ma che si bea sul mantra del “too big to fail”.
Ritornando ai Numi Tutelari il motivo per il quale ci si stringa ad essi è lapalissiano: Maestrelli rimase sulla panchina nonostante una malattia devastante pur di allontanare lo spettro di una B incombente su di una squadra che aveva incantato qualche anno prima, Fascetti compì l’impresa di salvare una squadra gravata da un -9 in un’epoca di due punti e meno squadre in competizione e Nesta, come poi si capì molti anni dopo (ma chi lo vide quello stesso giorno di fine Agosto sulla balconata a Milano capì che un ragazzo stava soffrendo), venne ceduto all'ultimo momento utile pur maledicendo quel momento ma fu il suo atto d'amore più grande perchè con essa permise alla sua squadra di poter ripianare parte dei debiti accumulati negli anni precedenti.
Sofferenze e patimenti, come si vede, hanno già provato ad intaccare lo spirito romantico del tifoso e della tifosa che, però, è rimasto intatto e fortificato. Da dove trae origine questo atterrimento? Provo a dare alcune risposte.
La delusione di un popolo non viene dal semplice abbandono di una figura seppur di spicco degli ultimi 5 anni, ma dal tradimento di un’aspettativa che lo stesso allenatore aveva alimentato non da ultimo durante un’intervista post Sassuolo-Lazio: “sono 16 mesi che aspetto il rinnovo”, si era udito nel tunnel del Mapei Stadium. Tutto ciò lasciava presagire una palese mancanza dal lato dirigenziale. Una sciatteria sulla programmazione che già avevamo osservato nel corso degli anni. Gli occhi erano puntati tutti su Claudio Lotito: toccava a lui, stante le parole di Simone, muovere le sue pedine.
Lo stolto, soprattutto chi scrive, aveva guardato il dito puntato dall’allenatore (“se fosse stata un’altra squadra avrei già abbandonato il club ma si tratta della Lazio e posso aspettare altri 3 giorni”) e non la luna nerazzurra che già, di per certo, rifletteva i suoi bagliori monetari nel cielo inzaghiano.
Scavare nella dietrologia servirebbe unicamente a gettare aceto negli squarci apertisi nell’ultima serata trascorsa, ma ad uno sguardo superficiale appare evidente che Inzaghi sapeva già pur celandosi silente dietro una maschera. Ognuno ed ognuna cerchi la propria declinazione emozionale, il proprio epiteto da affibbiare all’uomo Inzaghi.
L’ondata di sdegno e rabbia è chiaramente rivolta all’essere umano e non al professionista. Il primo ha dimostrato mancanza di umanità e di rispetto nei confronti di un sentimento romantico del tifoso, il secondo ha fatto il suo interesse. Legittimo, per carità. Ma allora: perché non palesarlo prima? Perché non dire dinanzi a tutti e tutte che il tempo trascorso era ormai al capolinea e che coltivava ambizioni di crescita, ripeto giustificate per il suo lavoro?
Avesse agito in questo modo di per certo lacrime avrebbero solcato i visi ma lo si sarebbe compreso e apprezzato per l’onestà intellettuale. Ma così non è stato e per questo il marchio dell’infamia avrà per sempre macchiato un percorso quinquennale meraviglioso, ricolmo di sogni che solo una pandemia ha potuto spezzare, non sempre lineare e con diversi intoppi ma che ha permesso di ricucire quel filo con i sogni di cui ogni tifoso tesse la trama ogni notte che con il brevissimo regno di Bielsa si era dilaniato. Come oggi.
Ma non solo questo. La paura per il futuro è grande. L’incertezza regna sovrana oggi sulla Roma biancoceleste. Alcuni nomi fatti per colmare il vuoto tecnico fanno gelare il sangue nelle vene in termini calcistici. All'abbandono, dunque, si somma una tempesta all’orizzonte il cui timore non è in essa stessa ma, bensì, nel timoniere che dovrebbe portare in salvo le aspirazioni, legittime, di un intero popolo.
Il tempo è galantuomo, mi veniva detto, ma ad oggi rabbia e paura attanagliano le menti, offuscano la vista. Aggrapparsi alla mitologia non serve.
Occorre, finalmente, un atto di ribellione, un moto di orgoglio che impedisca ai sogni dei tifosi e delle tifose biancocelesti di frantumarsi una volta per tutte conducendo al più abietto dei sentimenti qual è il disinteresse e la disillusione. Non si deve più sperare ma reagire, non più aggrapparsi a (ne)fasti passati ma riappropriarsi del proprio futuro. Il tempo dell’incertezza è finito e ogni tifoso e tifosa deve dimostrarlo oggi.
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