A lezione di umanità
Gli sport paralimpici hanno cambiato il mondo, facendoci comprendere meglio le nostre debolezze.
Qual è il significato che la società odierna attribuisce al concetto di disabilità? Guardiamo ancora, con occhi carichi di caritatevole e ipocrita compassione soggetti con problemi di diverso genere, che siano fisici, cognitivi o ambedue? Tipicamente, anche quando si hanno le migliori intenzioni, affiora tra la nuca e il cranio una sorta di retro-pensiero, un bisbiglio che ci fa pensare "per fortuna che non è successo a me". Giudichiamo le loro esistenze nei termini di incolpevoli condannati a una realtà di privazioni, oppure vogliamo cambiare punto di vista ed osservare che la vita di diverse persone con disabilità può essere comunque accettabile, se non ricca di soddisfazioni?
Con questo articolo non voglio entrare nel merito di ogni forma di disabilità, né di discernere o approfondire questioni tecniche legate allo sport paralimpico, ovviamente. Punto primo, perché non sono un esperto in materia e comunque esistono diverse tipologie di invalidità e non tutti i soggetti sono abbastanza fortunati da poter pensare di praticare uno sport o di essere autonomi; punto secondo, perché lo scopo di queste righe è mettere in risalto alcuni aspetti che ritengo fondamentali: innanzitutto come i Giochi Paralimpici abbiano cambiato la percezione del mondo nei confronti di questo tema e, poi, come gli atleti che vi gareggiano siano lì per vincere, per superare i propri limiti e battere gli avversaro, come ogni collega che si rispetti, con disabilità o meno. Sottolineare quest'ultimo punto è cruciale per spazzare via ogni rimasuglio di compassione, ogni pensiero che si avvicini pigramente al miserevole "poverino, non ha le gambe!" e affini.
Perché va ricordato ed evidenziato che quel "poverino" che non ha le gambe ha sviluppato un ulteriore forza di volontà e una resistenza fisica probabilmente superiore a qualsiasi altro essere che, in base agli standard di una società di massa poco attenta alla sensibilità, si potrebbe definire "normale".
Alex Zanardi, lo conoscete, è l'atleta italiano che, più di tutti e per diverse ragioni, ha portato, con le sue vittorie e la sua figura, una rivoluzione culturale nel nostro paese. Partendo da lontano, ricostruendo gradualmente la sua carriera di pilota automobilistico, sconfiggendo le ritrosie dirigenziali di chi non credeva che potesse tornare a guidare decentemente un' auto da corsa. Alex li ha distrutti. I suoi successi con l'handbike, quelle cavalcate ruota a ruota che hanno infiammato l'animo dello spettatore più neutrale che esista, però, sono spesso stati descritti come le leggendarie imprese dell'uomo che aveva visto la morte in faccia e che poi è tornato alla vita: tutto vero, certo, ma manca qualcosa. Lo stesso Zanardi ha sempre voluto umanizzare le sue vittorie. Il motivo è semplice: perché, alle volte, enfatizzare eccessivamente una grande conquista, potrebbe avere lo stesso effetto retroattivo di far sentire diverso l'atleta in questione.
Non occorre ricordare l'origine della sua condizione o esaltare il fatto che l'abbia "superata", perché quella persona è consapevole del proprio percorso e vorrebbe essere semplicemente presa in considerazione per quel che ha fatto, senza rimarcare nient'altro.
Questa è la grande lezione degli sport paralimpici: vanno trattati alla stessa maniera di quelli semplicemente "olimpici", con naturalezza, anche con la sana carica agonistica, perché questo è il sale dell'inclusione: applaudire, empatizzare, arrabbiarsi, contare fino a cinque per non pensare alla fatica, sudare per lottare, con lo scopo di andare oltre.
Prendete Bebe Vio, una grande schermitrice, criticata per aver usato toni distesi nei confronti della disabilità, dando uno schiaffo morale alle convenzioni e ai tabù della nostra società, grande dispensatrice di consigli, inutile e piccola piccola quando deve impegnarsi nella comprensione di temi decisamente importanti. Probabilmente perché discendiamo da una cultura, rigurgitata dal cristianesimo, che concepisce la vita come sofferenza e che non riesce ad andare oltre le apparenze fisiche, estetiche e pseudo morali.
Siamo gli stessi che incolpano persone come lei di essere privilegiate, rispetto alla maggior parte delle persone con disabilità che non possono permettersi una vita migliore, dimenticando che spesso gli edifici pubblici o di culto non sono provvisti neanche di una rampa per favorire l'ingresso in carrozzina, oppure che siamo gli stessi che affibbiano un deciso "handicappato", come fosse un reale insulto, al nostro scortese interlocutore, nello stesso modo in cui davamo con naturalezza del "frocio" ad una persona omosessuale, fino a non poco tempo fa. Siamo la stessa società che cerca di evolversi, di cambiare, ma che commette errori su errori. Siamo la società che non analizza, ma giudica.
Non è solo sport: è vita, e ognuno di noi dovrebbe viverla al meglio delle proprie possibilità, senza discriminazioni di sorta. A Londra 2012, nella serata di chiusura dei Giochi Paralimpici, si esibirono dal vivo Rihanna e i Coldplay, roba impensabile fino ad un decennio prima. L'interesse delle masse è cambiato, quasi quanto la loro sensibilità. Lo sport dovrebbe essere inclusione e spesso riesce in questo suo intento, ma ciò che frega maggiormente tutti noi è l'eccessivo carico di aspettative, di retorica. Zanardi, nel suo libro Volevo solo pedalare, scritto insieme a Gianluca Gasparini, si esprime così:
“Se sapessero che in realtà sono pigro, disorganizzato, che mi perdo nelle mie cose dimenticando il senso del tempo..."
Persone, atleti, esseri umani come tanti altri che devono gestire la tensione, i media, gli avversari, svuotati di ogni briciolo di energia, delusi dalla propria prestazione: lo sport è sport, non è una scampagnata tra amici in cui ridere o scherzare, per una gara ci si prepara attentamente e per molto tempo, impegnando se stessi ed altre persone, fino anche all'esasperazione.
Non può essere concepibile un'idea di società a senso unico, che non guardi all'individualità e che strizzi l'occhio al semplicistico collettivo. Le differenze non sono diseguaglianze. Non può esistere un mondo dove esistono solo persone normodotate, bianche, cattoliche ed etero. Se inglobate i successi di questi atleti in un girone a parte, nel senso di distinzione tra una Vio e una Valentina Vezzali, beh, non avete capito nulla.
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