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speravo de morì prima
, 25 Marzo 2021

"Speravo de morì prima" è una serie che lascia interdetti


Una serie con spunti interessanti, momenti cringe e ossessionata da Luciano Spalletti.

Sono usciti su Sky Atlantic i primi 4 episodi (su 6) di “Speravo de morì prima", la serie su Francesco Totti, diretta da Luca Ribuoli e basata sull’autobiografia “un Capitano”, scritta dallo stesso numero 10 con Paolo Condò 

La serie racconta l’ultima stagione e mezzo dell’ex capitano della Roma, incentrandosi sul suo lungo addio al calcio e sul tormentato rapporto con l’allora allenatore Luciano Spalletti. La critica si è da subito divisa, tra sperticati elogi e critiche piuttosto pesanti.  Devo ammettere che dopo le prime due puntate - un po' sottotono e caratterizzate da qualche trovata a cavallo tra il cringe e il cinepanettone - ero fortemente intenzionato a stroncare "Speravo de morì prima", ma fortunatamente ho aspettato gli episodi successivi, decisamente in crescendo e in grado di dare più profondità ai personaggi. 

In generale, la serie lascia un senso un po' straniante, ma ha sicuramente vari aspetti positivi: gli episodi tutto sommato scorrono via bene, i personaggi principali hanno tutti dei validi interpreti, i momenti in cui si vedono anche le fragilità di Totti sono apprezzabili, ci sono vari frangenti in cui si sorride e c’è una schiettezza di fondo che aggiunge un po' di pepe. 

La scrittura è piuttosto tradizionale, con una storyline principale arricchita dai flashback, mentre la struttura narrativa è quella del viaggio dell’eroe-Totti: l’avventura è quella di sconfiggere il tempo, l’antagonista è il suo allenatore Luciano Spalletti, gli aiutanti sono sua moglie Ilary e il fido Vito Scala. Ci sono anche gli eventi soprannaturali come le comparse in sogno di Cassano (sì, proprio lui).

E’ proprio la caratterizzazione dell’allenatore toscano, e l’insistenza quasi morbosa nel dedicargli l’ennesimo attacco frontale, uno dei principali punti di debolezza della serie. Come scrive Gabriele Romagnoli su La Repubblica, manca una didascalia sotto quest’ultimo, la cosiddetta clausola Jessica Rabbit: “non sono cattivo, è che mi hanno disegnato così”. Il racconto è di parte, lo sapevamo. Ma nel rapporto tra eroe e antagonista sembra che gli stessi sceneggiatori abbiano voluto prendere marcatamente le parti del primo, al punto di omettere e di negare alla loro stessa scrittura ogni tipo di sguardo critico. Così anche gli atteggiamenti più negativi -fingersi malato per saltare una trasferta, il totale disinteresse per le ripercussioni delle sue azioni sulla squadra- vengono normalizzati e fatti passare con nonchalance, senza la benché minima forma di autocritica.  Spogliandosi dai panni di tifosi risulta davvero difficile dare un giudizio positivo ad alcuni momenti, soprattutto per il tipo di narrazione scelto. 

Inoltre, di certo non è facilmente digeribile una serie basata su personaggi così conosciuti della nostra attualità, dei quali abbiamo tutti ben presente il volto, la voce e spesso anche la mimica. Trasporli sul piccolo schermo è dunque impresa ardua, perché se da un lato occorre rispettarne i tratti, dall’altro va evitato il rischio di cadere nel cadere nell’imitazione e sembrare una delle parodie di Maurizio Crozza o di Ubaldo Pantani. Con alcuni personaggi, su tutti la moglie Ilary interpretata dalla bravissima Greta Scarano, il gioco riesce. Anche mamma Fiorella e papà Enzo sono messi in scena in maniera molto apprezzabile, merito di due scelte decisamente azzeccate come Monica Guerritore e Giorgio Colangeli.

Con altri di ruoli contorno, vedi la versione discount di Nainggolan o Rudi Garcia che sembra una cera del Madame Tussaud, l’effetto tocca invece vette di comicità involontaria: sembrano caricature prese per realizzare un videoclip trash.

La scelta del protagonista, in questo senso, può anche essere apprezzabile perché Castellitto non prova nemmeno a scimmiottare esteticamente Totti (anche perché assomiglia più ad Antonio Mirante), ma desta comunque qualche dubbio, soprattutto anagrafico. Castellitto ha 29 anni e interpreta un 40enne. Il sottotesto è chiaro, ma sembra l’esatto opposto di quando in Boris 3 veniva chiamato l’ultra-cinquantenne Sergio Brio (“stoppeeeer”) per interpretare un calciatore in procinto di giocare la finale di Champions League. Ci restituisce comunque - a tratti sfiorando l'imitazione - un Totti credibile, con i suoi ottimi tempi comici, il suo malessere e una certa ingenuità di fondo. 

L’ossessione Spalletti

Come detto, i vari episodi cavalcano il facile tormentone di questi anni sul rapporto fra Spalletti e Totti, purtroppo alimentato spesso e volentieri in primis dall’ex capitano della Roma. Passano solo 18 minuti e l’allenatore toscano - ben interpretato nel timbro e nelle movenze da Gimbo Tognazzi - irrompe nella serie, prendendosi immediatamente i galloni da antagonista. Totti assiste alla conferenza stampa di insediamento del “pelato” (così viene chiamato nella maggior parte dei casi) e i suoi migliori amici lo mettono immediatamente in guardia perché hanno delle “sensazioni strane”.

Il fatto che ci venga mostrata, in un flashback di 2 minuti, l’empatia di Spalletti nella sua prima esperienza giallorossa, con tanto di visite quotidiane in clinica a Totti per supportarlo nella riabilitazione dopo il terribile infortunio del 2006 e per farlo sentire coinvolto nella Roma del futuro, ha il chiaro scopo di sbatterci davanti le differenze con lo Spalletti del presente (quindi quello del 2016). Dalla metà del primo episodio, infatti, il tecnico di Certaldo si prende la scena come "villain", un ex buono diventato repentinamente crudele, senza troppe spiegazioni sul perché come nelle storiche fiction poliziesche di Mediaset.

Assistiamo a un crescendo di scene e dialoghi dove Spalletti - con la faccia quasi sempre arrabbiata, per ricordarci che è cattivo - viene dipinto come un uomo con una missione: quella di far smettere Totti. Il perché, ovvero il movente, non è chiaro, ma il protagonista non ha dubbi: non lo ha difeso con la società terminò la sua prima esperienza da allenatore e se l’è legata al dito. 

Se non l'aveste capito, è cattivo

ei primi 3 episodi, il “pelato” quasi non parla con il capitano. Si limita a guardarlo in cagnesco e ogni tanto coglie l’occasione per urlargli un “mi hai rotto il ca***”, accompagnato da qualche frase tagliente sul suo essere a fine carriera o non più indispensabile.

La caratterizzazione di Spalletti è così sfacciatamente faziosa che la serie piega alla sua narrazione anche i fatti, producendo diversi falsi storici. Il più clamoroso arriva nel cliffhanger finale della prima puntata. Tornando alla prima esperienza di Spalletti a Roma, la voce pensiero di Totti afferma “quando l’avevamo mandato via la prima volta” e contemporaneamente appare scritto a caratteri cubitali “L’ESONERO”. Chiunque sia dotato di un po’ di memoria ricorderà che Spalletti in realtà si dimise, rinunciando peraltro a 2 anni di contratto. Due minuti dopo si senta in sottofondo un giornalista parlare più correttamente di “dimissioni”, ma è fin troppo evidente quale messaggio volesse mettere in risalto, e quindi veicolare, la serie.

Va comunque data una nota di merito all'enorme lavoro interpretativo di Gianmarco Tognazzi, che oltre a riprendere in maniera quasi maniacale il timbro, le movenze e persino il ritmo della parlata del tecnico toscano, riesce anche a renderlo effettivamente odioso come da copione. Non a caso, si è preso parecchi insulti sui social.

Come si sarà sentito Spalletti ad essere raffigurato in questo modo non è dato saperlo. Provando a metterci nei suoi panni, è intollerabile che un professionista con una carriera da allenatore ancora in corso venga trasposto televisivamente in questo modo, si corre il rischio che in sedi di lavoro future questo girato possa influenzare negativamente il giudizio delle società e (soprattutto) del pubblico su di lui. E' anche vero che l’accanimento nei suoi confronti potrebbe generare un effetto boomerang, e portare alcuni dei suoi detrattori a rivalutarlo. Anche perché nella storia, almeno all'inizio, sembra interessarsi alla Roma molto più di Totti (cosa in realtà evidente già ai tempi, per chi non era troppo offuscato).

Tra sprazzi di bellezza e scene imbarazzanti

Al netto dell'eccessiva ridondanza sul rapporto con l'allenatore, la serie ha i suoi lati positivi. Le scene con Antonio Cassano, soprattutto quelle sul suo soggiorno in casa-Totti (quando viene "adottato" da mamma Fiorella e papà Enzo), sono godibilissime e rispecchiano fedelmente sia il carattere generoso ma bizzoso di Fantantonio, che il forte legame del numero 10 con i suoi familiari. Notevole anche la chiusura malinconica, con il barese che abbandona il nido in seguito a una delle sue Cassanate.

Il cameo di Pirlo e Del Piero nei panni di loro stessi può confondere lo spettatore, dato che tutti gli altri personaggi sono interpretati da attori, ma è decisamente spassoso. I due provano a convincere Totti a tentare un'esperienza all'estero -Del Piero che tira in ballo anche la sua abilità nel cucinare il pollo al curry - ma con scarsi risultati. "Manco sapevo che se giocasse a pallone in India", risponde Totti all'ex capitano bianconero.

Del resto, Pirlo non sembra molto più a suo agio nei pub australiani che sulla panchina della Juve?

So di non incontrare il gradimento di tutti, ma ho apprezzato anche le scene sulla nascita del rapporto con Ilary. Totti non ci fa nemmeno un figurone, ma sembrano essere decisamente sincere.

Venendo alla cose brutte, meritano una menzione le transizioni con il pallone che va in orbita trascinandoci in un altro anno. Sembra di guardare “A spasso nel tempo”, ma forse era finito il budget per gli effetti. Anche di alcune scene per alleggerire la trama ne avremmo fatto volentieri a meno, vedi il momento “Cesaroni" con Antonello Fassari nei panni di un prete. Con l’autoironia di Totti e il buon supporto di altri membri del cast, non occorrevanbo tanti riempitivi per la già ampia linea comica.

Ci sono poi alcune citazioni che rasentano il cringe. Il momento “alla Scrubs” in cui il protagonista immagina i suoi due migliori amici cantargli una canzone la cui morale è che l’allenatore è tornato a Roma per farlo ritirare. La riedizione de "L'attimo fuggente", con tutti i giocatori della Roma che si mettono sopra le panchine degli spogliatoi e dedicano a Totti un "capitano, mio capitano", mentre Spalletti tenta invano di fermarli (anche questo avviene nell'immaginazione di Totti).

Il picco tra brutto e surreale si raggiunge però nel secondo episodio, dopo il litigio di Totti con Spalletti che culmina con l’esclusione del numero 10 dai convocati. Il Totti-Castellitto va al contrattacco gridando allo Spalletti furioso “vediamo da che parte sta Roma”, con tanto di immagini al rallentatore (abusate) che ci riportano ad atmosfere da B-movie. La frase però Totti l’ha pronunciata davvero (è anche nel libro), quello che lascia davvero interdetti è ciò che segue.

Abbiamo la voce narrante di Totti che afferma di essere il Re di Roma e di avere un suo esercito, il che al netto della metafora imperial-militaresca è vero, ma i dubbi sull’opportunità di rimarcarlo in maniera così pacchiana e autocelebrativa restano. Poi arrivano le “radio romane”, uno dei tormentoni per gli esegeti dell’ambiente romano. Vengono descritte come “uno sfogatoio, un confessionale pubblico aperto h24 ai tifosi”. Gli speaker radiofonici, rigorosamente da soli nello studio a parlare al microfono come da manuale della fiction, prima di partire con gli insulti a Spalletti ("a lazialee!"), paragonano l’esclusione del capitano dai convocati all’11 settembre, all’ingresso dei nazisti a Parigi (!) e all’esordio di Cicciolina in Parlamento.

Ovviamente nella realtà gli speakers radiofonici non parlano da soli al microfono (non siamo nei film di Moccia) e - per quanto alcuni di norma non siano pacatissimi - nessuno di loro ha veramente pronunciato queste frasi. Notevole anche il monologo che ne segue, che riporto per intero: "semo di fronte a un'apocalisse, a un armageddon. Prendete subito vostro fijo, guardatelo dentro l'occhi. Dateje 'no schiaffone, ma forte. Zitto, non devi piagne. 'Sto giorno lo devi ricordà, figlio bello". Tutto ciò conduce al punto seguente.

La romanità macchiettistica

Sulla romanità c’è già un’ampia letteratura televisiva e cinematografica. Da quelle parti, il personaggio “de Roma” ha sempre funzionato (fino quasi ad abusarne), vuoi per l’accento, per i modi di fare o per quel nichilismo di fondo. 

Raccontare la storia di una bandiera della Roma significa inevitabilmente raccontare anche uno spaccato di Roma e della romanità. Se quella degli interpreti principali sembra genuina, quella che ci viene restituita dai personaggi di contorno e dalle comparse a tratti rasenta il macchiettistico. Ci sono tifosi che rubano continuamente i tappeti del condominio dove viveva il capitano, “perché sanno de’ Totti”, un imbianchino che piange guardando in camera perché deve cancellare la scritta “Francesco 6 unico”, i già citati speaker radiofonici. L’esercito che Totti invoca è una massa un po' troppo informe di stereotipi sui romani. Sempre con la battuta pronta, la voce un po’ incazzata e un’atavica allergia al congiuntivo.

Qualche trovata è simpatica, come quella che apre lo sceneggiato, con la storia del ragazzo che chiede di restare altri 10 giorni in carcere per poter conoscere Totti. Il resto rimane vittima della necessità di rendere tutto semplice tipica della fiction.

Totti in chiaroscuro - ma era necessario fare questa serie?

Con un docufilm (l’emozionante “Mi chiamo Francesco Totti”) uscito solo qualche mese fa, sorge spontaneo chiedersi se tutta questa sovraesposizione fosse necessaria e se possa giovare allo stesso Totti.

Un’intera serie che racconta (anche se dal suo punto di vista) tante dinamiche interne e non risparmia attacchi ai suoi bersagli preferiti, sembra quasi in controtendenza con la sua dichiarata volontà di rimanere nel mondo del calcio. Non possiamo sapere se l’abbia ricercata lo stesso Totti per togliersi qualche altro sassolino dalla scarpa e per continuare ad alimentare la sua iconografia, o se si sia fatto trascinare da produttori desiderosi (comprensibilmente) di battere il ferro della sua incredibile popolarità finché è caldo.

Al contempo, è difficile stabilire se fosse la reale intenzione degli autori, ma dalla serie esce un Totti in chiaroscuro.

Il Totti che vediamo è il campione che non si arrende, che a 40 anni ha ancora voglia di mettersi in gioco anche a costo di sottoporsi a uno stile di vita militaresco per poter essere al top della forma. Ma è anche il capitano che accoglie il nuovo allenatore non volendo firmare il regolamento di squadra, che con una tranquillità disarmante si finge malato per saltare la trasferta a Carpi, litiga con il tecnico mentre la squadra macina vittorie consecutive e minaccia di mettergli contro la città

La Roma poi è presente nei loghi, nella formazione annunciata a inizio puntata, nelle immagini, ma sembra completamente assente dal Totti-pensiero, se non in funzione di sé stesso. Non c’è un accenno al momento difficile della squadra o alla quasi miracolosa ripresa sotto la guida di Spalletti. Lo stesso protagonista non riflette mai su quelle che potrebbero essere le conseguenze delle sue azioni sui suoi compagni.

Il personaggio Totti che emerge ha valori importanti, è legatissimo alla famiglia (alla quale ha sempre riconosciuto un ruolo fondamentale nel tenerlo ancorato alla realtà, e si vede nel confronto con Cassano), tenero con gli affetti più intimi e non cerca la vita da rockstar. Nel contempo appare spesso come ingenuo, a tratti infantile nelle sue reazioni, non in grado di accettare tempestivamente che sia arrivato il momento di smettere, nemmeno quando è la stessa moglie a cercare di farglielo capire.

Il giudizio sulla serie non può che essere contrastante, forse come quello sul Francesco Totti rappresentato. Un campione indiscutibile sul rettangolo di gioco, una persona con le sue umanissime fragilità al di fuori, che ne minano l’aurea da Re ma contribuiscono a renderlo tangibile, “della gente”, e per questo così amato. Dovrebbe però imparare ad accettare il tempo, come alla fine farà anche nella serie. Anche quello delle vendette (giuste o sbagliate che siano) è finito, altrimenti arriverà il giorno che le ossessioni offuscheranno la bandiera e la sua storia.


 

  • Giornalista classe 90', da sempre innamorato della radio, ho diretto per 3 anni RadioLuiss e collaborato con varie emittenti in qualità di conduttore. Attualmente mi occupo di comunicazione d'impresa e rapporti istituzionali. Pallavolista da una vita, calciofilo per amore, appassionato di politica e linguaggi radiotelevisivi, nella mia camera convivono i poster di Angela Merkel, Karch Kiraly e Luciano Spalletti.

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