
- di Simone Renza
Fútbol e depressione
Il fenomeno legato ad eventi depressivi è molto più esteso di quanto si pensi. Anche nel mondo del calcio.
“Qui tutto è finito e tutto può ricominciare in qualsiasi momento. In ogni fine c'è un principio come in ogni cosa, ma non sono ancora arrivato a un posto dal quale non voglia andare via, e temo tanto che tu abbia bisogno di me quanto io di te. Può darsi che cerchi una scusa per restare qui un po' più a lungo. Una scusa professionale. Trovare mio cugino. Incassare per il lavoro. Pagare i debiti. Seppellire definitivamente i morti”
(Manuel Vazquez Montalban, Quintetto di Buenos Aires)
Il fenomeno legato ad eventi depressivi è molto esteso, più di quanto si pensi. Per dare alcuni numeri: in Italia, pre-pandemia, stando ai dati Istat, sono 2.8 milioni le persone che soffrono di depressione cronica, ai quali si somma un altro milione di persone con manifestazioni minori. Il totale parla di 3.7 milioni, praticamente il 7% della popolazione italiana superiore ai 15 anni. Nell’ultimo anno, causa le restrizioni dovute all’evento pandemico, questi numeri sono aumentati a dismisura sia per chi ha contratto il virus, ma anche per chi per sua fortuna no e si trova costretto a vivere in uno scenario completamente mutato nelle proprie relazioni sociali.
Tale “male oscuro” arriva anche nel dorato mondo del calcio. Sappiamo che l’immaginario collettivo vuole e vede nel calciatore professionista - nello specifico nei calciatori che giocano nelle massime serie europee - un ragazzo ricco, spensierato, che ha trovato il modo di vivere il sogno che ciascuno di noi coltiva sin da quando si era bimbi: in una parola l’Eden. In moltissimi casi, in effetti, è così ed è facile notarlo dallo stile di vita, spesso ostentato sui social, che tutto lascia presagire tranne ad un lato oscuro che, però, in alcuni casi viene malcelato e che rischia di palesarsi in maniera brutale ed improvvisa, e che questo periodo sta facilitando.
Breve digressione: questa situazione colpisce anche il più ricco mondo NBA. Infatti, durante la bolla di Orlando della stagione scorsa, venne fuori il grido di allarme di Paul George, giocatore dei Clippers, che ebbe a dire "La bolla ha avuto la meglio su di me, era come se non fossi qui e mi trovassi in un posto oscuro, poi ne sono uscito grazie ai compagni e alla gente che mi sta intorno, purtroppo ho sottovalutato l’importanza della salute mentale". Ma anche Dwight Howard dei Lakers ha avuto problemi similari: “Ci sono stati momenti in cui ho sofferto di depressione", ha rivelato a NBC Sports, "a causa del fatto di essere obbligato a restare qui dentro, senza poter vedere i miei figli e la mia famiglia. Ho cercato di fuggire mentalmente leggendo molto, passeggiando a lungo fuori dall’hotel e condividendo la mia esperienza con altre persone dello staff NBA che stavano vivendo un disagio simile al mio”.
Stando ad un rapporto della FIFPro, a causa delle restrizioni imposte per il contenimento del contagio da Coronavirus, un numero crescente di calciatori e calciatrici ha riportato sintomi di ansia e depressione: su 1.602 calciatori professionisti intervistati (1.134 uomini e 468 donne) il 13% (calciatori) e il 22% (calciatrici) ha riportato sintomi di depressione, mentre il 18% e il 16% ha avuto problemi legati all’ansia. Il Dott. Vincent Gouttebarge, Chief Medical Officer di FIFPro, afferma: “queste cifre mostrano che c’è stato un forte aumento dei giocatori che soffrono di sintomi di ansia e depressione da quando il Coronavirus ha fermato il calcio professionistico, e temo che ciò avvenga anche per l’intera società che si trova ad affrontare un’emergenza senza precedenti. Nel calcio improvvisamente i giovani atleti devono affrontare l’isolamento sociale, una sospensione della loro vita lavorativa e dubbi sul loro futuro. Alcuni potrebbero non essere ben equipaggiati per affrontare questi cambiamenti e li incoraggiamo a cercare aiuto da una persona di cui si fidano o da un professionista”.
Quando il Dott. Gouttebarge fa riferimento al miglior equipaggiamento appare chiaro come parli di chi possa risentire anche di problemi economici come nel caso del calcio femminile dove sappiamo esserci un salary gap con quello maschile abnorme. Elena Linari, difensore della Nazionale Italiana e dell’Atletico Madrid, ha detto: “Con le mie compagne parliamo spesso: la nostra paura è il dopo, quando ci sarà il vuoto. Non abbiamo mai affrontato il mondo del lavoro, dobbiamo reinventarci. E per una donna che punta tutto sul calcio senza quei guadagni che ti garantiscono il futuro, quel vuoto può essere più pesante. Questa lunga e improvvisa assenza dal campo possa rappresentare un anticipo di quel vuoto che ci fa paura”.
In molti si ricordano di storie drammatiche come quella di Agostino Di Bartolomei o di Gary Speed (storica ala del Leeds degli anni 90 ed allenatore del Galles) o di quelle, più recenti e meno tragiche come quelle di Gascoigne, di Ilicic. Anche Prandelli, parlando di allenatori, di depressione ha sofferto e oggi sembra purtroppo nelle condizioni di dover sconfiggere quel "male oscuro" un'altra volta.
Ma ci sono state altre storie, non conosciute al grande pubblico, che meritano di essere raccontate.
La prima è quella di Paul Merson.
Giocatore simbolo dell’Arsenal anni ’90 con cui ha vinto 2 First Division, 1 FA Cup e 1 Coppa delle Coppe.
Merson, come altri suoi illustri colleghi quali Fowler o Gascoigne, non è stato immune da eccessi. Anzi. I tabloid spesso lo pizzicavano nei pub della capitale inglese vicino ad una o più pinte e ciò scatenò una reazione indignata dell’opinione pubblica alla quale il fantasista rispose con una iconica esultanza in cui mimava il gesto di bersi una birra. Ma ciò, come i suoi due colleghi sopraccitati, non era il suo solo vizio. Difatti, Merson divenne anche consumatore abituale di cocaina e, al termine della sua carriera, anche incallito giocatore d’azzardo.
In un’intervista al Mirror del 1994 Merson, dichiarò di aver intrapreso un percorso di terapia e rivelò di aver pensato anche al suicidio dopo che le nubi dell’incertezza economica dettata dai suoi eccessi si gli avevano pesantemente offuscato ogni orizzonte di sopravvivenza.
Va ricordata anche la vicenda di Clarke Carlisle raccontata nel libro autobiografico “A Footballer’s Life” e nel documentario “Football Suicide Problem”, entrambi del 2013. In essi si racconta come ad appena ventuno anni lo stesso provò a togliersi la vita dopo essersi seriamente infortunato al ginocchio ed a causa della dipendenza dal gioco d'azzardo e dall'alcol. Ma non solo. Al termine della carriera, a causa di problemi economici, provò nuovamente a togliersi la vita tentando di andare contro un camion. Ma credo che migliore descrizione sia quanto lui stesso racconta: "Non stavo fuggendo. Era la cosa giusta da fare per me. Avrebbe reso tutti felici. Ho fatto due passi in mezzo alla strada e poi sono saltato davanti al camion, l’ho caricato con una spallata. Bang. Poi si è spenta la luce". Prosegue lo stesso calciatore: "Sono finito sotto a un camion e mi sono fatto solo dei tagli. Dei tagli seri, d’accordo, la mia testa si era gonfiata del doppio e gli occhi erano usciti dalle orbite, avevo pezzi di parabrezza in faccia, ma ero ancora vivo [...] Mi vergognavo. Ma non per quello che avevo fatto, quanto per non esserci riuscito [...] Non riuscivo a parlare alla persona che amavo di più al mondo, mia moglie. Ero svuotato da ogni amore, un guscio vuoto".
Ma c’è un'altra storia che, ancor di più, è paradigmatica in tal senso: quella del portiere tedesco Robert Enke.
Giocatore di ottimo livello, passa la sua prima parte della carriera tra il Carl Zeiss Jena, squadra della sua città natale, e Borussia Mönchengladbach. Nonostante quest’ultima retrocesse (anno 98/99), le sue parate vennero notate dal Benfica di cui diventerà titolare e capitano fino al 2002, anno in cui arriva la chiamata del Barcellona che segnerà, ed appare strano a dirlo, l’inizio della sua fine.
L’incipit, difatti, non fu dei migliori. Come di prassi, prima dell’approdo in una squadra, tra il neo acquisto e l’allenatore ci sono contatti telefonici per parlarsi ed avere un primo scambio di impressioni reciproche. Ma Van Gaal, a seguito della telefonata del portiere, gli ebbe a dire “non so nemmeno chi sei”.
E questo fu solo l’inizio. Dopo una serie di panchine, debutta in Copa del Rey contro il Novelda, squadra di bassa classifica della serie B, dove, però, accade quello che in altri momenti viene definito un miracolo calcistico. Difatti, il Novelda sconfigge il Barcellona per 3-2 con Enke che non rivela una vera e propria saracinesca. Ma ciò che sarà inizio alla spirale drammatica dell’estremo difensore teutonico sono le affermazioni di Frank de Boer, allora capitano, che darà pubblicamente la colpa della sconfitta ad Enke ("Yo también soy culpable de la derrota, pero tuve la sensación de que el portero pudo haber hecho algo más"), infrangendo una legge sacra dello Pallone: non criticare mai un tuo compagno in pubblico. Quell’episodio è ancora ricordato dall’allora giovanissimo Victor Valdes che, nel libro dedicato alla tragica vicenda di Enke, disse: “Vieni dall'estero e devi giocare in un campo di patate come parte di una formazione piena di sostituti e non rodata, è logico che ti vengano dei dubbi".
Il giorno successivo, però, la vicenda ebbe pesanti strascichi: Patrik Andersson chiese spiegazioni a De Boer che si trincerò dietro al “Sono stato citato erroneamente, sai com'è la stampa”. Luis Enrique, il vero capitano di quel Barcelona, già a Novelda, ebbe modo di confrontarsi brutalmente con Frank e lo stesso Van Gaal gli gridò che non era un professionista e che non ci si comporta così. Lo stesso Enke disse “Nella mia vita non ho mai discusso di errori individuali con la stampa. Lui (De Boer) sì, ma io no”.
Ma, nonostante queste reazioni dei compagni, la già fragile psiche del portiere era stata definitivamente incrinata.
Enke, però, ritroverà stabilità nel 2004, dopo l’avventura catalana, all’Hannover. Ma il fato gli scoccò un altro dardo avvelenato quando nel 2006 la figlia Lara morì a causa di una malattia cardiaca: di lì la depressione si fece definitivamente padrona di lui fino a quel giorno di novembre del 2009 quando decise di gettarsi sotto ad un treno.
Come si vede, nonostante le molteplici storie che hanno afflitto il calcio più o meno tragicamente, c’è ancora parecchia reticenza nel palesare questo tipo di malessere perché, ritengo, erroneamente considerata come non reale perché non materialmente tangibile. Esistono, però, alcune associazioni che si stanno muovendo per abbattere questo tabù: la Fondazione Robert Enke, e soprattutto l'associazione Back OnSide, che durante la scorsa primavera si è offerta come centro di assistenza ai giocatori della Premier League.
C’è una nota assolutamente brillante, in questo senso, ed è stata data dalle Green Brigades, gli utlras del Celtic di Glasgow, che hanno recentemente esposto uno striscione per Leigh Griffiths, momentaneamente fuori dal calcio proprio per curare questa patologia, nel quale era scritto: “it’s ok not to be ok - You'll never walk alone Leigh”.
Per il mondo del calcio, è arrivato il momento di affrontare in maniera seria un problema che non può più essere ignorato.
TI POTREBBE INTERESSARE ANCHE...
Impuro, bordellatore insaziabile, beffeggiatore, crapulone, lesto de lengua e di spada, facile al gozzoviglio. Fuggo la verità e inseguo il vizio. Ma anche difensore centrale.
Cos’è sportellate.it
Dal 2012 Sportellate interviene a gamba tesa senza mai tirarsi indietro. Sport e cultura pop raccontati come piace a noi e come piace anche a te.
Newsletter
Iscriviti e la riceverai ogni sabato mattina direttamente alla tua email.
Canale YouTube
La famosa "A" di Franco Armani e molto altro.
Segui il nostro canale youtube per non perderti i nostri video.