Being Simone Inzaghi
“Sono così le storie del calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni.” O. Soriano
«Quando Charo scoppiò a piangere, Carvalho capì che erano passati sette anni e che probabilmente lei non era più la stessa persona. La Charo di prima avrebbe pianto a dirotto, quella d'ora recitava, sentiva le lacrime, ma recitava nella cornice di una drammaturgia previamente immaginata»
(Manuel Vázquez Montalbán, L'uomo della mia vita)
La storia narrata nella pellicola diretta da Spike Jonze “Being John Malkovich”, che consiglio di vedere, narra di un archivista che, attraverso uno strano passaggio presente nel suo ufficio riesce ad entrare nella testa del noto attore e da lì iniziano ad intrecciarsi storie delle più disparate. Come sarebbe entrare, in questo preciso periodo storico, nella testa di Simone Inzaghi e vedere cosa realmente accade con i suoi occhi? Interessante di per certo ma non vuole essere, in realtà, un esperimento d’immedesimazione nel tecnico piacentino ma una riflessione su quanto gli accade cercando di non perdere mai di vista ciò che è stato, è e sarà.
Sappiamo benissimo come in questo paese la damnatio memoriae sia quasi doverosa, altrimenti, appare del tutto evidente, non ci si troverebbe nello stato delle cose attuali sotto ogni punto di vista. Per questo, ritengo utile un brevissimo excursus dei primi 5 anni (si, cinque anni) del suo operato nella massima serie.
L’incipit della sua carriera fu degno di un romanzo di M. V. Montalbán, a cui si potrebbe dare il titolo “Pepe, El Loco y el banquillo”: ovvero una crescente suspance vissuta in un intreccio di uomini, pensieri e contratti. Il tutto inizia all'inizio di una calda primavera quando Simone si ritrovò sulla panchina della Lazio a sostituire l’ei fu Pioli ma, unicamente, per fare, si diceva, da traghettatore, viste le sue brillanti perfomances in primavera, in attesa del messia: Marcelo El Loco Bielsa.
El Loco sarebbe servito per risollevare un ambiente depresso e demotivato e per portare il più alto esempio di spettacolo fùtbolistico sul palcoscenico verde dell'Olimpico (cosa che sta avvenendo nel freddo e grigio nord Inghilterra).
Per chi ne fosse a digiuno, va premesso che l’ambiente romano, da qualunque lato del Tevere lo si guardi, è spesso incline a repentini cambi d’umore (esemplificativo come venga criticato l'operato di Fonseca) pregno di quella locura tutta sudamericana che gonfia di sentimenti e umori la sfera di cuoio.
Il “Bielsame Mucho” era divenuto un mantra. Avere un Maestro, il massimo esponente intellettuale del Calcio, ispiratore - non a caso - del guardiolismo (“Probabilmente è la persona che ammiro di più nel mondo del calcio, come allenatore e come persona" ha affermato recentemente il tecnico catalano), era davvero un toccasana visto che l’aria che si respirava era benefica per l’umore come quella della bianche dolomiti ma, nella coscienza di ognuno, era chiaro che Marcelo e Lotito sarebbero stati difficilmente compatibili. Ma Inzaghi? Salernitana, si disse. Col passare del tempo, però, “los pollos locos” sembravano sempre più distanti, mentre Inzaghi attendeva, pazientemente.
Il regno di Bielsa, infatti, durò un giorno e l’ambiente attorno divenne elettrico, ribollendo d’odio ma senza farsi mancare la consueta dose di tafazzismo militante con scene pantacrueliche prefiguranti imminenti catastrofi calcistiche con annesse processioni in stile morte del Caro Leader in Nord Corea. La successiva nomina di Inzaghi fu immediatamente presa come se fosse stato apposto un grave ad un nuotatore: cronaca di una morte annunciata perché, senza dubbio, non siamo un paese che può dare una benchè minima chance ad un giovane, nonostante le parole che si sentono in giro siano sempre per l’esatto contrario.
Eppure quel giovane, esordiente, “servo de Lotito” (ed altre amenità), nello spazio di cinque anni ha vinto due Supercoppe Italiane ed una Coppa Italia, ha ottenuto la qualificazione ai gironi di Champions League dopo circa una decina d’anni, il cui girone di quest’anno ha visto la Lazio imbattuta, ha lottato per metà stagione per lo scudetto contro una Juventus che in termini di finanze e roster non aveva confronti nel panorama peninsulare (fermato solo da una pandemia mondiale virale), ha fatto rifà l’occhi ad un intero popolo con un calcio per lunghissimi tratti meraviglioso (non da ultimo si riveda il derby d'andata di quest'anno e la partita contro il Borussia Dortmund).
Ma allora cos’è esattamente che non va? Perché dopo tre sconfitte, di cui due con Bayern Monaco e Juventus ed in cui il fato non ha avuto un occhio particolare, si parla di ciclo finito, di #Inzaghiout e di ferocissime critiche? Giovanni Lindo Ferretti cantava "invece di pensare, continua a salmodiare" (Punk Islam). Quanto, dunque, emerge nell'ambiente Lazio pare davvero una salmodia e sembra che qualcuno si sia dimenticato delle condizioni particolari in cui si sta disputando il campionato attuale, figlio di una pandemia che rende il tutto oggettivamente più complicato (soprattutto con una Champions di mezzo). Questo vale anche per squadre similari, vedasi l'Atalanta, eppure, al momento in cui si scrive, la squadra del Gasp è a - 1 dal quarto posto. Perfettamente in linea con le attese. Che siano proprio queste, lato tifoso, ad essere sbagliate o c'è una legittimazione nell'attesa di altri orizzonti? Galeano osservava che "l'utopia è là nell'orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino 10 passi e l'orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai. A che serve l'utopia? Serve per questo: perché io non smetta mai di camminare"
Fazione Galeano o Fazione Realismo?
Non tutto l’oro luccica, suggerisce un vecchio adagio. E nemmeno Inzaghino, come lo chiamano per via dell’anagrafica e numerica in termini di gol fatti e trofei vinti da giocatore differenza con il fratello Pippo, luccica: spesso in direzione ostinata e contraria nel non volersi muovere dal granitico modulo 3-5-2, comunicativamente non sempre impeccabile, mancanza, e ciò parrebbe un paradosso se si conosce il suo cursus honorum, di visione degli under 20, la sua insistenza nella non rotazione dei c.d. titolarissimi. Ma se si guarda fuori il proprio orticello si noterà come il tanto osannato Gasperini non cambia quasi mai modulo, Klopp ha appena stabilito, nonostante due anni di trionfi, il record negativo del Liverpool di sconfitte in casa etc.
Torno a chiedermi ed a chiedere, dunque, dov’è la vera colpa originaria di Inzaghi? Non aver battuto i pugni, forse, in sede di campagna acquisti? Perché davvero qualcuno in buona fede si aspettava l’arrivo di Van Dijk con una società che ha, giustamente, un salary cap di 2.5 milioni e mezzo?
Non sarà, di contro, che le aspettative create da quella meravigliosa squadra vista e sognata l’anno scorso abbiano ingenerato un malcontento eccessivo, non permettendo, a conti fatti, di valutare oggettivamente il cammino? Ma la passione, è noto, rende volubile la volontà e con essa la razionalità consentendo così di urlare istintivamente il proprio je accuse! verso chi, ad oggi, ha costantemente piazzato una squadra tra le prime cinque/sei in Italia.
Occorre, a questo punto della stagione, un vero processo di maturazione innanzitutto della tifoseria per ribaltare, una volta e per tutte, l’adagio riferito nei vangeli: “Nemo propheta acceptus est in patria sua” (nessun profeta è gradito in patria), pur nel presupposto che la critica debba essere sempre la prima regola di questo "fight club" che è il calcio moderno. Dunque, dov’è l’equilibrio? Dove la bolla per evitare storture? Trovarlo sarebbe opera sopraffina e per la quale occorre tempo, di maturazione e crescita di un intero ambiente, una strada da intraprendere davvero se si vuole ambire a traguardi prestigiosi.
Per quanto chi scrive è convinto che ogni rivoluzione necessiti di una successiva fase di stabilizzazione e di istituzionalizzazione di essa - leggasi Allegri - appare anche innegabile che il battersi il cilicio sul petto a nulla serva perché per quanto si possa aprire quella porta ed essere John Malkovich, in fondo non lo si sarà mai. E allora che si permetta ad Inzaghi di continuare il suo percorso di maturazione come allenatore e che lo si permetta sulla panchina della Lazio attuando, in primis, noi tifosi la buona pratica di essere un fattore di crescita e non di annichilimento e devastazione.
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