Don't look back in Andy
Mentre gli occhi del mondo del tennis erano rivolti a Melbourne, il meno amato dei Fab Four è fuori dai primi 100 e vola a Biella, dall'altra parte del globo, a giocare un Challenger. Ma, anche se non tutti lo sappiamo, c'è ancora bisogno di lui.
Nel 1988, come secondo singolo dell'album Cloud Nine (che difficilmente ha lasciato il segno nei nostri cuori), George Harrison fa uscire un pezzo dal sapore nostalgico, un malinconico sguardo agli anni della Beatlemania, che porta l'evocativo titolo di When We Was Fab.
Andy Murray atterra a Biella durante la prima settimana di febbraio 2021, costretto dal Covid a perdersi l'Open d'Australia, e non fa davvero nulla per nascondere la sua comprensibile delusione. Lo scozzese vorrebbe essere esattamente dall'altra parte del mondo e lo dichiara sommessamente, mettendo nel mirino i prossimi Slam. Perché è quello il livello a cui vuole competere, e non si è mica rassegnato. E mentre il tabellone mette sulla sua strada tennisti dalla classifica a tre cifre (e la prima raramente è un 1) lui parla di Roland Garros e Wimbledon e fa tornare in mente proprio quel George Harrison che canta della Beatlemania 18 anni dopo la controversa fine dei Fab Four. Perché anche Andy era uno dei Fab Four, come Harrison. Era un Fab a tutti gli effetti, anche se forse ce lo siamo un po' dimenticato.
Sono passati ormai due anni da quello struggente primo turno dell'Australian Open, quella rimonta strozzata sul finale da Bautista Agut, dopo la quale Murray aveva salutato il pubblico e il pubblico aveva salutato lui, perché l'operazione all'anca poteva davvero far sì che quello con lo spagnolo fosse il suo ultimo ballo.
In questi due anni Muzza ha provato a rimettersi in piedi, mentre il tennis sembrava cominciare a proporre nuove giovani alternative alla dittatura dei soliti, lasciandolo un po' in disparte, a spasso per tornei minori, alle prese con un fisico delicato e una classifica ormai impietosa.
Murray ha veramente giocato a Biella
Ma come ci finisce Andy Murray a Biella? Le ferree regole australiane non lasciano scampo ad eccezioni e i piani dello scozzese di riscuotere la sua Wild Card all'Happy Slam vengono defenestrati da un tampone positivo, che gli impedisce di partire per tempo per la bolla australiana. "I needed to play matches" dice Murray, che non può fermarsi ancora, e il suo bisogno di tennis incontra il progetto di Cosimo Napolitano, padre del tennista Stefano, e di Tennis Lab Biella che organizzano nella città piemontese due Challenger indoor (e altri due ne seguiranno a marzo) per soddisfare le esigenze dell'ATP e degli stessi tennisti di limitare gli spostamenti e di giocare più tornei nella stessa sede. Andy decide di ripartire da lì.
Murray a Biella è una presenza metafisica, un'entità quasi astratta, decontestualizzata, chiede privacy e la ottiene, ma è comunque accolto come un eroe in una realtà che un ex numero uno al mondo non lo aveva mai visto. L'impressione è che non ci si renda conto che è davvero lui finché non scende in campo. E nemmeno subito, solo ad un certo punto. Il momento preciso è il terzo game del secondo set, nel match di primo turno contro il tedesco Marterer, dopo aver silenziosamente perso il primo set al tiebreak, lo scozzese si conquista due palle break e nel semivuoto PalaPajetta riecheggia il suo classico "Go!". Ecce homo.
Nel grido c'è tutto Murray, che è vivo, che ci tiene, che si scuote, ed eccolo che inizia a brontolare con l'angolo, a lamentarsi delle luci, dei raccattapalle, dei rumori in tribuna, delle righe dell'avversario, dei suoi errori. Quello lì è Andy Murray. Umano, troppo umano, da sempre il più umano dei Fab Four. Quello che fa la partita nella partita, che si tormenta, che perde contro sé stesso e che forse, proprio per la sua fallibilità umana, non è mai stato amato come gli altri tre "Beatles" dall'indiscussa natura divina.
Andy Murray che probabilmente si chiede chi sia questo Gian Marco Moroni, il suo avversario in ottavi.
Andy è un gruppo Britpop (più Blur che Oasis), popolarissimo in UK, un po' di nicchia per tutti gli altri, ma il quarto di finale con Blaz Rola (mancino sloveno senza alcuna rilevante qualità) è il malinconico manifesto di un giocatore a cui, un po' all'improvviso, senti di volere tutto il bene che non gli hai mai voluto. Un match ai limiti del surreale, che finisce per diventare addirittura godibile, di cui il britannico pare in pieno controllo prima di sintonizzare le frequenze su Radio Murray e far partire il solito tragicomico soliloquio, quella litania incessante che è una telecronaca della partita nella sua testa. Vittima di sé stesso, manda all'aria 12 palle break e 2 match point al servizio, per sublimare il suo metateatro in un tiebreak dai tratti drammatici.
Concentrato più sul (pessimo) giudice di sedia che sull'avversario, decide di ricominciare a giocare sull'1-5 quando la sua nervosa rimonta viene interrotta da una scellerata chiamata del malcapitato arbitro, che battezza dentro un dritto di Rola ampiamente in corridoio. E' il caos: Murray minaccia di andarsene, grida, litiga, si leva persino il cappello, sembra aver perso il controllo e il gioco si ferma per qualche minuto sotto lo sguardo tra l'incredulo e il basito dei pochi presenti.
Andy Murray ci manca
Eccolo lì, nella sua impietosa fotografia, a giocare in un palazzetto piccolo e semivuoto (che ha visto grandi partite di basket, ma anche pessimi incontri di calcetto) in un torneo da 80 punti e 6000 euro di premio per il vincitore, contro un tizio con cui l'unico precedente era un 6-1, 6-1, 6-0, a disperarsi per una chiamata sbagliata, che invece di farti tristezza ti scatena un inaspettato quanto travolgente senso di nostalgia. Perché quell'uomo lì, che la sua debolezza te la grida in faccia, quell'uomo che al posto che a Melbourne te lo trovi a far fatica al Challenger di Biella, quell'uomo che senza la pulizia stilistica di Federer, l'incrollabile solidità di Nadal, la robotica perfezione di Djokovic, da uomo si è seduto al loro tavolo.
Con tutti i suoi difetti, con le sue fragilità, oggi più che mai evidenti, quelle fragilità che quegli altri sembravano non avere mai (o almeno nascondere meglio di lui), ha parlato per anni la stessa lingua dei più grandi, perdendoci spesso, ma battendoli anche più di chiunque altro. E in quel quarto di finale con Rola, dopo l'assurda lite, rientra sotto 4-6 e fa vedere a Biella un barlume del miglior Murray: salva 4 set point e sul 9-9 tira fuori un passante di rovescio incrociato con annesso "COME ON!" di 15 secondi che fa rivivere le grandi sfide.
Se oggi guardiamo uno Slam e ascoltiamo il silenzio, il silenzio delle porte chiuse che ha colpito anche Melbourne, il silenzio di una Next Gen che non riesce ancora a proporre alternative stabili, il silenzio di un dominio sempre più polarizzato verso vincitori sempre un po' scontati, ecco che in quel silenzio tutti possiamo sentire il bisogno di sintonizzarci ancora sulle frequenze di Radio Murray, per sentire brontolare lo scozzese.
Perché se a Murray manca il grande tennis, al grande tennis manca Andy Murray.
Il torneo di Biella Murray nemmeno lo vince. In finale offre una delle peggiori versioni di sé, fiacco, stanco e rinunciatario, ma soprattutto silenzioso. L'ucraino Marchenko, fuori dai primi 200, lo seppellisce di vincenti, dominandolo come se fosse Djokovic e prolungando l'attesa di un titolo che manca da più di un anno (Anversa, ottobre 2019). Ma non importa, di finali Andy ne ha perse tante, forse troppe, e sicuramente più brucianti di questa, ma se è qui, in fondo, è perché non si è ancora arreso.
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