"The Rider", gli otto secondi più pericolosi dello sport
Tra infortuni e attori che interpretano sè stessi, The Rider racconta il lato intimo di uno degli sport più pericolosi al mondo.
Ho rivisto di recente The Rider, penultima opera di quella regista coraggiosa che è Chloé Zhao, vincitrice quest'anno a Venezia con Nomadland.
A metà tra il documentario e la finzione, visto che gli attori interpretano sè stessi, The Rider racconta una realtà sportiva estrema e poco frequentata, a meno di non trovarsi a soggiornare nelle praterie del South Dakota. Laggiù infatti il rodeo, l'arte di cavalcare tori e cavalli imbizzarriti, è sport ufficiale e, più di tutto, uno stile di vita.
Cavalcando il dolore
Con una placca di metallo infilata in testa, il protagonista Brady Jandreau (aka Brady Blackburn), stella nascente del rodeo, non può più partecipare alle gare, nè tantomeno rischiare un'altra caduta da cavallo. In seguito a un brutto episodio di gara infatti, Brady è costretto a operarsi alla testa e a sottoporsi a una lunga riabilitazione forzata. Tornare a cavalcare non è più un'opzione. Ma Brady deve fare i conti con la vita che si è scelto. In attesa di riprendersi sbarca il lunario come può, lavorando come scialbo commesso in un supermercato, dove l'umiliazione più grande è essere riconosciuto da un fan che si chiede, sorpreso, che cosa ci faccia Brady con indosso il camice da droghiere.
All'interno della cultura cowboy infatti l'equazione è spietata: essere uomini significa stare in sella. Ride through the pain (cavalca il dolore), that's the cowboy way. Glielo dicono gli amici, rudi e canzonatori, glielo ha detto per tutta la vita il padre, cowboy sul lastrico e con il vizio del gioco. L'orgoglioso Brady torna ad addestrare cavalli, ma nelle sue condizioni dura poco e si ritrova in ospedale. E proprio quando si decide a farla finita con quella vita, e a vendere la sella (l'harakiri per un cowboy), l'orgoglio ha ancora la meglio e Brady si ripresenta in lizza per un rodeo, in un finale paradossalmente poco ordinario che non sveliamo. Uniche figure a suggerire a Brady che esista un'alternativa sono i deboli: la sorella autistica, che proprio perchè vive in un'altra realtà, con i suoi discorsi ingenui e stralunati lo astrae da quel mondo duro. E l'amico Lane Scott, ex-campione nella monta dei tori ridotto quasi a un vegetale paralizzato, che Brady va a trovare in ospedale, quasi fosse lo specchio della sua paura.
All-In
The Rider è un film senza fronzoli ma che non calca mai la mano, perchè la storia vera che racconta è già abbastanza potente da innescare riflessioni sul dolore, sugli infortuni, sullo sport come unico modo di vivere. Quella di Brady è la scommessa dello sportivo professionista, un All-In su sè stesso, senza piano B. Una scelta estrema che, in questo caso, fa leva su una cultura altrettanto di frontiera: cavalcare non è un hobby, non è uno sport visto come attività extra. Cavalcare significa nascere cowboy ed essere cowboy per la vita, dentro e fuori dal recinto. Un modus vivendi supportato da una cultura senz'altro rozza, ignorante, anacronistica, ma non priva di una sua rettitudine, un suo codice morale, una maniera di stare al mondo. Scommettere tutto su sè stessi.
È questo che fa Brady, ed è questo che fanno gli sportivi professionisti, che sia rodeo, calcio, tennis o basket. Facile dimenticarsi del rischio intrapreso e della posta in gioco, quando si guarda un campione, magari di calcio, affermato, strapagato, idolatrato, la cui vita, a quel punto, sembra facile. Ma per uno che arriva, quanti falliscono? The Rider mostra questo.
Sportivi (o) Operai
In una scena Brady si presenta ad un'ufficio di collocamento. Senza istruzione, lauree, qualifiche, se non quella di cowboy su cui aveva puntato tutto, le sue possibilità lavorative sono al minimo. Vengono subito in mente le tante storie di campioni che facevano lavori comuni. Riccardo Zampagna tappezziere, Jamie Vardy metalmeccanico, Dennis Rodman elettricista all'aereoporto di Dallas, Carlos Bacca pescatore, Tatanka Hubner carpentiere. Gli è andata bene, dicono alcuni. In parte è vero. Leggenda vuole che l'allenatore di un giovanissimo David Ferrer, vedendo che il suo protetto non aveva voglia di allenarsi, lo mandò per una settimana a lavorare come muratore. Tanto bastò a far tornare David sul campo da tennis, a costruirsi una carriera da "muratore" della racchetta.
Ma la caduta dall'Olimpo e il sogno spezzato sono dietro l'angolo. Le storie non raccontate di tutti quelli che non ce l'hanno fatta, che dal sogno di diventare campioni tornano ai lavori comuni o restano nell'ambiente. Giocare ad alti livelli significa gestire un alto livello di pressione ogni volta che si scende in campo. Aspettative e performance sempre all'altezza. Significa gestire il proprio corpo e allenarlo al meglio possibile, pregando che non si rompa. Nello sport odierno, sempre più privo di un romanticismo superato dalla ricerca di efficienza assoluta, tanto più sono migliori i sistemi di allenamento, quanto più è fitto il calendario, alto il livello, il ritmo e la frequenza delle sollecitazioni. Un'infortunio e tutto può finire. La macchina si rompe e fine della corsa. Dagli infortuni si può recuperare, certo, ma con una grossa incognita sul ritorno a certi livelli.
The Rider estremizza il discorso, illuminandone così in modo più netto i confini. Racconta uno sport ad altissimo rischio, dove l'infortunio corrisponde spesso con la paralisi o la morte. Racconta una discesa, dall'Olimpo alla polvere. Va persino oltre. Sposta la questione sportiva fino a farla coincidere con il lato personale, dove un cowboy non può essere un uomo senza stare in sella, non importa il rischio, non importa il dolore. Quello è il tuo sogno, ma è anche la sola cosa che hai e che ti definisce come persona. Semplice, totalizzante, duro. Alla fine del film Brady fa la sua scelta in un mondo che gli ha insegnato che non c'è altra scelta, un mondo il cui cuore semantico è racchiuso forse tutto nella frase incisa a inchiostro sulla schiena dell'amico paralitico, Lane Scott, l'ex-campione di monta dei tori.
Say I Won't, and I Will.
Dì che non ce la farò, e ce la farò.
Titoli di coda
Il bull-riding, il rodeo dei tori, è stato definito "Gli 8 secondi più pericolosi nello sport". Nell'ultima immagine a nero, la regista Zhao, in un lampo da brividi di Simoncelliana memoria , dedica il film "A tutti i riders che vivono le loro vite 8 secondi alla volta".
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