Umirati u lepoti (Morire nella bellezza)
Il calcio in Jugoslavia ha sempre avuto un significaato diverso.
L’autore serbo-macedone Vladimir Dimitrijević, nel suo “La vita è un pallone rotondo”, descrive meravigliosamente la vocazione alla bellezza degli jugoslavi. Non solo di chi calcava i prati verdi ma anche, soprattutto, di chi vi assisteva: “Il pubblico di Belgrado è esperto ed esigente. Se in squadra non c’è un giocoliere, protesta: «Che storia è questa? Ridateci i soldi!»”. Riprova di quanto si dice viene data da O’Rey in persona. Pelé, infatti, volle giocare la sua partita d'addio, il 18 luglio del 1971, proprio contro la Jugoslavia perché riconosceva in quell’estetica quella brasiliana e, suppongo, che se avesse potuto scegliere dove nascere in Europa avrebbe, senza dubbio, vedere i suoi natali proprio su quel lato dei balcani.
Si potrebbe portati a pensare che, oltre di bellezza, il calcio jugoslavo sia stato serbatoio di trofei e vittorie. Mai considerazione più erronea si potrebbe fare perché il genio balcanico è sempre stato accompagnato da un’indolenza e discontinuità a tratti quasi irritante.
Nonostante, infatti, le diverse finali o semifinali raggiunte, sia dalla nazionale che dai club, l’unica squadra che riuscì a conquistare un trofeo fu la Stella Rossa di Belgrado nel 1991. Milojko Pantic, telecronista serbo, disse, in occasione dell’autogol del Bayern Monaco che consegnò la finale alla Stella Rossa (e che quindi pareva finalmente spalancare le porte della vittoria al calcio jugoslavo): «Nebo se otvorilooooo» (il cielo si è squarciato).
Gli dei del calcio volevano finalmente, diradando le nubi fitte che l’oscuravano, donare la vittoria alla bellezza (quella metafora, però, sembra anche anticipare ciò che di li a poco sarebbe accaduto perché il cielo si squarcerà di morte, però, su Belgrado, Sarajevo, Mostar etc.).
Sorprenderà ma quella Stella Rossa non fu la più forte nella storia del club. Tra le zvezdine zvezde (stelle della Stella) ci sono ben 2 dei soli 5 giocatori singoli presenti che hanno fatto parte della formazione del 1965-66: Dragoslav Šekularac, detto Šeki, e Dragan Džajić. Entrambi sintesi perfetta ed esempio lampante di genialità e indolenza jugoslava.
Šeki ce lo racconta molto bene Dimitrijević: “piccolo di statura, faccia rotonda dagli zigomi sporgenti, occhi alla cinese, capelli neri. Era di tre o quattro anni più giovane di noi. Nonostante l’età (14-15 anni – n.d.a), non esitò a gettarsi nel bel mezzo della partita che stavamo giocando […] la sua maggior soddisfazione era farsi beffe dell’avversario – su vieni un po' qua – per poi scartarlo senza sforzo, sistematicamente. Sapeva fare tutto: palleggiare, dribblare, fintare, controllare, stoppare […] noi l’abbiamo picchiato, gliene abbiamo date di santa ragione, perché ci prendeva in giro. Lui insisteva, e noi ancora giù botte”.
Si narra che per lui il pubblico interrompesse il tifo verso la squadra gridando “Šeki, Šeki”, segnale, non troppo velato, che lo volessero veder prendersi beffe dell’avversario di turno.
In un’intervista di qualche tempo fa, disse: “saltare l’uomo è stata la sensazione più bella mai ricevuta dal calcio. Mi piaceva stupire il pubblico, sentirlo vibrare. La prima volta mi esibii davanti a duemila persone. La settimana dopo erano cinquemila, diecimila alla terza partita. Alla fine venne anche mio padre. Non voleva che giocassi a calcio, mi avrebbe voluto vedere studiare. Venne con alcuni suoi amici in una partita disputata con la Nazionale. Mi viene ancora da ridere, di calcio non sapeva nulla, gli dovettero spiegare ogni singola regola passo dopo passo. A fine partita, quando tornai a casa, mi aspettavo un suo giudizio, ma mi fece solamente una domanda: “Perché dribbli così tanto?” Non so se fosse un complimento, ma è stata la frase più bella che potesse dirmi”.
Non fu, però, solo un meraviglioso giocatore ma, come da tradizione della Stella Rossa, ne fu allenatore. La vittoria della Coppa Campioni è legata al nome di Petrovic, ma, forse in pochi, sanno che chi ha costruito quella squadra fu proprio Sekularac. Decise, infatti, di basare la campagna acquisti sui giovanti talenti jugoslavi vincendo Campionato e Coppa di Jugoslavia plasmando, di fatto, il gruppo vincente dell’anno successivo.
Al fianco di Šeki vi era un certo Dragan Džajić di cui O’Rey disse: “Džajić è il miracolo dei Balcani, un vero mago. Mi dispiace solo che non sia brasiliano perché non ho mai visto un calciatore così naturale”.
Impossibile non associare il suo nome agli Europei del 1968, che gli diedero la definitiva consacrazione quale migliore ala sinistra in circolazione. Memorabile la partita che la Jugoslavia giocò contro l’Inghilterra, Campione del Mondo in carica. Solcò la fascia sinistra saltando ripetutamente qualunque oggetto e persona gli si parasse dinanzi. Un minuto alla fine della partita. Il cross dal fondo di Musemic arriva in area; Moore non ci arriva, mentre Dzajic, appostato alle sue spalle, stoppa la sfera e in un attimo spedisce il pallone sotto la traversa, vanificando così l’uscita disperata di Banks.
Veloce, semplice, naturale per “il magico Dragan”, come lo definì la stampa inglese. Quell’anno arriverà terzo al Pallone d’oro dietro George Best e Bobby Charlton. Nonostante la caratura dei due, la scelta, il che fa capire molto sulla genialità del giocatore, venne aspramente criticata da molti addetti ai lavori. Addirittura il Kaiser, Franz Beckenbauer, definì la scelta: ”ingiusta, insolente e vergognosa”.
Queste due storie, questi due giocatori rappresentano perfettamente ciò che (non) è stato il calcio jugoslavo, sia per le stimmate che si è sempre portato addosso, sia a causa dell’appartenenza ad un tempo, forse, troppo lontano e costellato da giocatori maggiormente celebrati dai media di allora per motivazioni, evidentemente, di natura politica.
I nomi di Džajić e Šekularac, quando pronunciati, vengono accolti con stupore quando si parla di leggende di tutti i tempi del calcio quando, dovrebbero essere accolti con ogni onore del caso nell’olimpo del Gioco.
Del resto, però, il fascino del calcio jugoslavo è destinato a rimanere sospeso nel tempo, rimanendo immanente, immutabile, immobile in un limbo tra ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto divenire, morendo lentamente nella sua immensa bellezza.
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