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, 14 Agosto 2020

Il secondo ballo del Papu


Traduciamo quest'intervista fatta da Sebastián Varela del Río al Papu Gomez pubblicata sulla rivista argentina Enganche.

Mentre i suoi compagni festeggiano, ancora increduli per aver battuto 0-3 lo Shakhtar Donetsk e aver raggiunto la vetta più alta nell'ultracentenaria storia dell'Atalanta, il Papu Gomez piange in un angolo del Metalist Stadium di Charkiv. E non è la prima volta che gli succede in questo stadio, in questa città. Nonostante abbia appena ottenuto il pass per gli ottavi di finale della Champions League per la prima volta nella sua carriera, la sua mente ritorna al 2014, quando giocava nel Metalist e dovette fuggire dall'Ucraina su un volo umanitario a causa della guerra. Se da quella primavera di sei anni fa in Ucraina è cambiato poco - il conflitto in Donbass prosegue, pur senza fare troppo rumore - la carriera di Alejandro ha preso una svolta inaspettata ma assai felice con la maglia nerazzurra.

A 32 anni e ad oltre un lustro da quella spaventosa fuga, Gómez è il faro della squadra più prolifica del Vecchio Continente e la guida da vero leader verso il firmamento del calcio internazionale. Nel bel mezzo di quest'anno dorato però, Bergamo, la sua casa, viene duramente colpita dal coronavirus che, oltre all'immane tragedia sanitaria, blocca anche il percorso della Dea in Champions League. Poi, ad inizio estate, mentre la Lombardia ricominciava a vedere il sole, si è ricominciato a giocare ed il calcio è tornato a fiorire dagli scarpini dell'ex Arsenal de Sarandí. Questo Papu, il Papu più maturo, è il manuale tattico di una terra umile che meritatamente si trova a fronteggiare il milioni della stratosfera calcistica del Paris Saint-Germain.

Stai vivendo una seconda giovinezza?

Mi incuriosisce molto il giro che ha preso la mia vita calcistica. Da ragazzo ho sempre giocato da enganche, però quando arrivai in prima divisione lo schieramento dell'Arsenal non prevedeva questo ruolo. Era un 4-4-2, sia con Gustavo Alfaro che con el Chaucha Bianco. Quindi mi dovetti adattare a giocare sull'esterno, come seconda punta, oppure come interno. Tornare improvvisamente in quella posizione, a 32 anni, in un torneo come il campionato italiano, è fantastico. Ovviamente il calcio è cambiato, ora ho altre responsabilità, si gioca in maniera molto diversa da 15 anni fa, quando l'enganche stava fermo con le mani appoggiate alla vita aspettando che gli arrivasse la palla sui piedi. Ora devo difendere, il cinque avversario, rientrare per cercare l'azione personale e arrivare dentro l'area. Però mi piace, perché sto molto a contatto con la palla.

La "prima giovinezza" del Papu. Nel 2007 vince da protagonista gli unici trofei della sua carriera, Mondiale U20 con l'albiceleste e Copa Sudamericana con l'Arsenal de Sarandí.

Questa squadra, che allarga il gioco sulle fasce come nessun'altra, ti favorisce.

Sì, noi allarghiamo molto il campo grazie agli esterni a tutta fascia. In più abbiamo due mediano, uno un po' più difensivo dell'altro, e io gioco davanti a loro. Così possiamo giocare con il 3-5-2 se scendo tra di loro o con il 3-4-1-2 se mi posiziono più vicino agli attaccanti. L'enganche è un filo che connette le linee. Fisicamente è molto faticoso, perché devi andare a cercarti la palla e allo stesso tempo devi arrivare fino in area.

Da questo punto di vista, devi essere sempre coinvolto. Non basta una funzione tattica, devi pensare e pensare.

Sì. Questo dipende molto dall'intelligenza tattica. Quando ho conosciuto Gian Piero [Gasperini], tre o quattro anni fa, giocavo da attaccante sinistro. Il ruolo che sto ricoprendo adesso era di Jasmin Kurtic, uno sloveno con caratteristiche più da centrocampista. È un interno, ma spiccava per la sua prestanza fisica oltre che per la capacità di unire i reparti. Quando il suo posto rimase vacante, l'allenatore mi disse "Guarda Papu, io ti vedo bene a fare quel ruolo. Dovrai correre di più, dovrai adattarti, però toccherai molto di più il pallone e unirai centrocampisti e attaccanti. Proviamo". Così sperimentammo in una partita contro il Chievo Verona, che divenne lo spartiacque. Vincemmo 5 a 1. Da quel momento in poi tutto andò molto bene e ci qualificammo per la Champions.

Ti sei adattato rapidamente?

All'inizio mi buttavo troppo alle spalle degli avversari e nelle partite chiuse avevo difficoltà a giocare tra le linee. Non c'era spazio. Poi mi spostai un po' più indietro e cominciai a inserirmi senza palla per rompere gli spazi e trovai la mia strada. In fase difensiva, so che il mio compito è di marcare il 5 avversario. Ci sono squadre che giocano a tre e mi basta fermarmi davanti al centrocampista centrale. Altri giocano con tocchi rapidi e in quel caso devo cambiare il chip e rendermi conto che anche io sono un centrocampista. A quel punto lo seguo a uomo.

Come racconta nell'intervista, il ruolo del Papu in fase difensiva è quello di stare davanti al "cinco" avversario. In questo caso "el cinco" indossa la 5 e si chiama Miralem Pjanić.

L'enganche sta tornando?

Può essere. L'enganche può essere la nuova vecchia rivoluzione. In fin dei conti ciò che sembra antico può sempre tornare a galla. Le caratteristiche [del enganche] si stanno un po' perdendo, perché è un ruolo poco utilizzato nelle categorie inferiori. Il giocatore piccolino, veloce e bravo con la palla, adesso viene schierato più da doble cinco [centrale in un centrocampo a due] o come esterno. Dipende tutto dalla filosofia degli allenatori. Noi [in Argentina] abbiamo avuto un'epoca in cui spuntavano enganches dappertutto. È una peculiarità del calcio argentino.

In questa seconda giovinezza, che valore ha l'esperienza?

Io penso di aver imparato moltissimo grazie all'allenatore. Se avessi avuto Gasperini a 24 o 25 anni, sarei cresciuto molto più velocemente, avrei avuto altre opportunità e un altro percorso. Però l'ho incontrato a 28 anni e la mia dose di fortuna è arrivata in quel momento. Nel calcio devi avere la fortuna di incrociare le persone giuste. Con il passare degli anni ti rendi conto di molte cose. Però occhio, ovviamente ci sono anche quelli che sono chiaramente dei fenomeni e quando hanno 23 anni se ne sono già accorti tutti. Paulo Dybala è uno di questi, ad esempio. Alla sua età è già padrone della sua squadra.

Come ti trovi con il ruolo che il giocatore di calcio occupa nella società?

Mi sento un po' diverso [dallo stereotipo]. Sono sempre stato spontaneo e ho cercato di seguire un mio percorso senza copiare gli altri e senza seguire le mode. Non mi è mai piaciuto copiare. È vero che noi calciatori siamo una mandria in cui ognuno imita l'altro. Abbiamo un cammino già scritto per cui dobbiamo puntare a certe squadre e a certi contratti. A me è successo di non avere l'opportunità di andare in un top club, nonostante ci sia andato molto vicino. Però la vita in questo sport ti offre seconde opportunità e quest'Atalanta è la mia seconda chance. E ne sto approfittando.

Pensi di voler essere qualcosa in più di un ex calciatore, quando smetterai di giocare?

Esattamente. Oggi, per fortuna, il calciatore sta migliorando sul lato intellettuale. Oggi vedo ragazzi che oltre a giocare si dedicano allo studio. Vedo calciatori più abili a fare un sacco di cose e, oltretutto, sono circondati da persone molto migliori rispetto ai vecchi tempi. Anche dal punto di vista economico ci sono molti più campionati che ti permettono di guadagnare bene. Personalmente, io sto facendo un podcast ("Libres de humo") con il giornalista Martín Reich e, sarò sincero, parlare con persone di altri ambienti, come Mario Pergolini o Augustín Pichot, mi sta aprendo la mente. Mi piace imparare cose diverse e penso che sia un dovere verso me stesso. Per il resto, vado avanti vedendo come mi sento e quello che sento. Ho ben chiaro che niente sarà mai come l'adrenalina che ti dà il giocare a calcio, ma penso comunque al domani.

Sottolinei spesso l'importanza della mente. Secondo te oggi, la mentalità è più importante del talento?

La testa è tutto. Davvero tutto. Per quanto talento tu possa avere, se non sei sufficientemente preparato per il momento in cui ti tocca scendere in campo, hai perso. Fisicamente, tutti possiamo correre. A questo livello, chiunque è in grado di passare la palla al compagno o fare un lancio di 40 o 50 metri. La differenza la fa la testa. La fa il carattere. La fa la personalità. La testa ha anche un ruolo fondamentale quando l'allenatore non ti fa giocare e tu pensi "Ma che se ne vada a cagare!". Ma non devi farlo, devi metterti in testa che combatterai e cambierai le cose. Questa ciò che fa la differenza per molti ragazzi [argentini, ndr] che arrivano in Europa e se vanno dopo pochissimo. Non hanno la forza mentale per vincere la sfida e cambiare le cose. Decidono di ritornare qua dove le cose sono più facili, oppure di accasarsi in contesti meno esigenti.

Anche l'accettare di passare dall'essere una figura di primo piano in una grande squadra Argentina all'essere un giocatore qualunque in una squadra di metà classifica in Europa comporta un grande sforzo mentale.

Tutto dipende da come ti poni davanti al cambio. Guarda Rodrigo Palacio. Era protagonista nel Boca e lì vinse tutto. Poi andò al Genoa, nel giro di poco tempo fu protagonista anche lì e passò all'Inter. Con il tempo divenne un giocatore rispettatissimo, e lo è ancora, proprio grazie alla sua maturità mentale. A volte c'è bisogno di tempo per adattarsi a un calcio diverso, certe volte sei mesi o certe volte anche un anno. Ma ciò che è sbagliato è farla facile, dire "non mi sono trovato bene" e tornare indietro di corsa.

Hai dei conti in sospeso?

Il mio conto in sospeso è la nazionale maggiore. Negli ultimi cinque anni, tenendo conto del mio livello, avrei dovuto giocare molte partite in più rispetto a quelle che ho fatto. Per quello che riguarda i club, nella maggior parte ho lasciato il segno, e questo è l'unica cosa che importa. Preferisco di gran lunga questo rispetto all'essere uno qualsiasi in un club più grande, uno che ha la bacheca piena di trofei ma nessuno si ricorda di lui.

Papu Gomez all'esordio con la maglia albiceleste in amichevole contro Singapore il 19 maggio 2017

Avere successo in una piccola squadra ha un altro sapore?

L'Atalanta ha un fortissimo legame con la sua città e ti senti parte di ciò. La gente te lo fa capire. Prima che arrivassi a Bergamo la squadra lottava per non retrocedere e i tifosi erano contenti allo stesso modo. Però ora abbiamo alzato il livello e la gente ti l'Europa. Esserci riusciti non ha prezzo. Appena arrivai, giocammo 14 partite senza una vittoria. Non ci fu mai una protesta, mai una contestazione. Gasperini dice che questa era "un'isola felice", però che allo stesso tempo questa "isola felice" ti portava a rilassarti troppo e vivere uguale vittoria e sconfitta. Noi, i giocatori, il tecnico e i dirigenti, abbiamo cambiato le cose. Ci promettemmo che non sarebbe mai accaduto, e non accadde. Migliorare, sempre.

Ora siete in Champions League a giocarvela con squadre che sventolano miliardi di dollari. Si sente la differenza?

Noi lo sappiamo e  non ci da fastidio. Lo abbiamo perfettamente chiaro. Sappiamo che siamo la squadra di una città di 150.000 abitanti. Non siamo la squadra di una grande capitale. Però sappiamo dove stiamo andando, cosa vogliamo e come abbiamo ottenuto tutto ciò che abbiamo durante questi anni. Siamo qua per un motivo, nessuno ci ha mai regalato nulla. Abbiamo imparato lungo il cammino, dalla prima partita di Champions nella quale abbiamo preso quattro pappine dalla Dinamo Zagabria. Per noi fu tutta esperienza. Poi abbiamo battuto lo Shakhtar in Ucraina, pareggiato con il City e abbiamo fatto otto gol in due partite al Valencia. Sappiamo da dove veniamo e dove vogliamo andare. Dal punto di vista economico, non arriveremo mai a quei livelli. L'Atalanta è un'altra cosa. Però il calcio è undici contro undici e può accadere di tutto.

Cosa è successo con la nazionale?

Negli ultimi cinque o sei anni, l'Argentina ha cambiato un sacco di allenatori e questo mi ha complicato le cose. Tra tutti quelli che si sono alternati, gli unici che mi vedevano erano Sampaoli e Scaloni. Non è colpa di nessuno, soltanto mi sarebbe piaciuto avere altre opportunità.

È troppo tardi?

No, per niente. Sono ancora giovane e ho le capacità per poterci arrivare. Finché continuerò a giocare a un buon livello, continuerò a sperarci.

Guardando indietro da questa tua seconda giovinezza, cosa diresti al Papu?

Gli farei i complimenti. Davvero, andare a Catania è stato coraggioso. Mi pento soltanto di essere andato in Ucraina, dove ho perso un anno di carriera e ho giusto guadagnato dei soldi. Sono l'unica cosa che mi sono portato indietro. Purtroppo non si sa mai ciò che può accadere... Poi però mi ha comprato l'Atalanta e la mia vita è cambiata. Sono davvero felice di quello che mi sta accadendo.

Ne è valsa la pena?

Certo che ne è valsa la pena.


  • Genovese e sampdoriano dal 1992, nasce in ritardo per lo scudetto ma in tempo per la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni. Comincia a seguire il calcio nel 1998, puntuale per la retrocessione della propria squadra del cuore. Testardo, continua imperterrito a seguire il calcio e a frequentare Marassi su base settimanale. Oggi è interessato agli intrecci tra sport, cultura e società.

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