Dennis Bergkamp, un numero 10 fuori dal tempo
Allo stesso tempo troppo vecchio e troppo moderno per il calcio a cavallo del Secolo, Dennis Bergkamp è da sempre un'incognita. Poco apprezzato in Italia, dopo il passo falso all'Inter, ma subito rivalutato in Inghilterra, dove ha scritto pagine di storia dell'Arsenal. A quasi vent’anni di distanza dal suo iconico gol contro il Newcastle, dobbiamo ancora capire molto di uno dei più grandi numeri 10 della storia del calcio.
Il 2 Marzo del 2002 a St James’ Park si gioca una sfida non da poco per la conquista della Premier League. Il Newcastle di Alan Shearer, vera sorpresa del campionato, ospita l’Arsenal, al momento in testa al campionato. I ragazzi di Wenger sono tra i protagonisti di una splendida corsa a 4 per la conquista del titolo, assieme a Liverpool, Manchester United e, a sorpresa, proprio i Magpies. La partita è quindi fondamentale. Con una vittoria, l’Arsenal potrebbe staccare di 9 punti una diretta concorrente per la volata finale degli ultimi 2 mesi.
Il Newcastle però non è un avversario da poco. La squadra di Bobby Robson sbanda parecchio in difesa, ma davanti segna come e quando vuole. Alan Shearer chiuderà la stagione con 23 gol e Nolberto Solano è un ala da 20 assist in due stagioni. Se era lecito aspettarsi una partita combattuta dall’inizio alla fine, ci pensa quasi subito un olandese di 33 anni con il numero 10 sulle spalle, all’anagrafe Dennis Bergkamp, a cambiare le carte in tavola. Con una giocata fuori da ogni logica.
Se la bellezza estetica di un gol è sempre discutibile (vedi alla voce “Premio Puskas”) è innegabile come il gol di Bergkamp contro il Newcastle sia senza dubbio il gol meno intuitivo mai realizzato, almeno da 20 anni a questa parte. Non esiste calciatore al mondo a cui possa venire in mente una giocata del genere nel secondo e mezzo che passa dalla fucilata di Pirès al primo tocco di Bergkamp. Spalle alla porta e con un avversario come Nikos Dabizas subito dietro, qualsiasi altro calciatore avrebbe stoppato quel pallone, provando a giocare di sponda o cercando lo spazio per tirare. Bergkamp no. Bergkamp, un giocatore con una capacità cinestetica di controllo del proprio corpo, dell’avversario e dello spazio totalmente fuori dal comune, va per lo stop a seguire. Uno stop a seguire avendo le spalle rivolte alla porta avversaria. Ne esce una piroetta perfetta, che entrerà per direttissima nella storia della Premier League.
Elogio del controllo
Sono veramente pochi i calciatori in grado di fare proprio del tutto un gesto tecnico particolare. Giocatori in grado di elevare un fondamentale del gioco ad una forma d’arte, fino ad identificarcisi. Parliamo del tiro a giro “alla Del Piero”, delle punizioni di Beckham o Pirlo, del dribbling di Messi. Dal gol di Beckham alla Grecia, al gol di Del Piero contro il Borussia Dortmund, passando per Messi che dribbla come birilli i giocatori del Getafe, ognuno di loro ha poi realizzato una sorta di manifesto, quasi a suggellare la propria padronanza del gesto tecnico.
Così ha fatto anche Bergkamp. In un fondamentale molto più nascosto, ma non per questo meno fondamentale nel calcio, come il primo controllo. Nella marea di gol segnati da Bergkamp un po' in tutti i modi, quelli per lui più importanti e che sono poi rimasti impressi nella memoria comune, sono quelli dove la parte del protagonista la recita un semplice (si fa per dire) controllo. E non parlo solo del gol al Newcastle.
Ci mette appena 2 secondi e 11 centesimi a trasformare un pallone che sembra piovere direttamente dal cielo, nel gol che porterà l’Olanda in Semifinale ai Mondiali di Francia ‘98. 2 secondi e 11 che lo stesso Bergkamp definirà, in un intervista a FourFourTwo, come gli attimi più importanti della propria carriera. E il tutto con un controllo. Un tocco che manda fuori giri Ayala, un altro per saltare l’avversario e il terzo, d’esterno, per spingere la palla in rete. E per mandare l’Olanda in semifinale.
Soprattutto in Italia, per via del suo passaggio a vuoto all’Inter, abbiamo un idea molto distorta di Bergkamp. Ci è rimasta l’immagine di quella seconda punta indolente, con poco spirito di sacrifico e drammaticamente inadatta ai tatticismi del calcio italiano. La realtà è che l’"Olandese non volante" era un giocatore molto più completo di quanto ci ricordiamo. I 94 assist messi a referto con la maglia dell’Arsenal ci parlano di un giocatore fenomenale nell’ultimo passaggio, sopratutto quando Wenger decise di affiancargli un centravanti vero come Henry. I 201 gol spalmati sulle 550 partite ufficiali giocate in carriera sono però anche il marchio di fabbrica di un attaccante con un istinto del gol come pochi altri. All’Arsenal, nel punto culmine della propria carriera, a cavallo del secolo, segnava, e faceva segnare, letteralmente in tutti i modi.
Vedi sempre alla voce "stop a seguire"
Rimane il rimpianto di non averlo apprezzato così in Italia. In una sorta di Lost in Translation, Bergkamp si trova in una squadra dove gli altri 9 giocatori (eccezion fatta per Wim Jonk, arrivato con lui in contemporanea dall’Ajax), non parlano la sua stessa lingua calcistica. Bergkamp è un rifinitore associativo, che viene da un contesto, l’Ajax di Van Gaal dei primi anni ‘90, dove gli viene chiesto di associarsi il più possibile.
Il passaggio nell’Inter di Osvaldo Bagnoli della stagione 1993/1994 significa per l’olandese un completo cambio di sistema. Per Bagnoli l’ideale per arrivare in porta erano massimo 4 passaggi. Anche all’Inter gli viene lasciata la stessa libertà di movimento lasciatagli da Van Gaal, ma il contesto è opposto. Se in Olanda, giocando da vertice alto di centrocampo in un 3-4-3, aveva tutto lo spazio per giocare fronte alla porta, con soluzioni in ampiezza e in profondità, all’Inter gioca da seconda punta. L’unico riferimento, davanti a lui, è Schillaci.
Per le difese della Serie A diventa fin troppo facile fermare un Bergkamp isolato dai compagni e costretto a giocare spalle alla porta. Bergomi gli chiederà addirittura di impegnarsi di più, magari sacrificandosi e tornando di più in difesa per aiutare la squadra, mentre Sosa lo definirà un uomo “solitario e strano”. Diventerà in breve tempo il capro espiatorio per un delle più disastrose stagioni dell’Inter in Serie A. Forse la più disastrosa della sua storia. Chiusa al 13esimo posto, con 45 gol subiti e 13 sconfitte, nonostante la cavalcata trionfale in Coppa Uefa.
Immobilità e velocità
Stilness and Speed è il titolo dell’autobiografia di Bergkamp, uscita nel 2013 e scritta a quattro mani con David Winner. Non poteva davvero esserci titolo migliore. Due parole, traducibili con “immobilità e velocità”, in grado di racchiudere perfettamente, le numerosissime sfumature del Bergkamp calciatore. Quella del trequartista indolente, a tratti quasi pigro, desideroso solo di avere il pallone sui piedi. Del rifinitore isolato dai meccanismi della squadra che si è visto nei due anni a Milano. E quella del giocatore imprendibile in quei 5 secondi in cui riceve palla, a prescindere dalla zona di campo. E’ proprio questa ambiguità che lo ha reso un calciatore unico. In grado di galleggiare sulla tre-quarti campo per decine di minuti, salvo poi risolvere la partita con una singola giocata. Con un lampo di genialità. Come i 2 secondi e 11 contro l’Argentina. Come la piroetta al St. James’ Park.
Velocità nella giocata, ma sopratutto velocità di pensiero. Non sorprende che abbia raggiunto la consacrazione nell’Arsenal di Wenger. Un allenatore che viveva letteralmente con l’ossessione per il dinamismo. Inteso sia come pura e semplice corsa, ma anche come gioco di prima sempre e comunque. Un allenatore per cui, in una pura utopia, si sarebbe dovuto giocare esclusivamente a due tocchi.
Con Wenger, il ruolo di Bergkamp cambia, molto gradualmente, da quello degli esordi. Se con l’Ajax e con l’Inter (pur con risultati differenti), doveva essere il terminale offensivo della manovra, l’allenatore francese ha altri piani. Non lo cambia di posizione, ma gli chiede di diventare il fulcro del gioco della squadra. Quel fulcro che a Milano non era riuscito a diventare. Attorno gli costruisce, sempre gradualmente, un 11 incredibilmente dinamico, grazie alla corsa di gente come Freddie Ljungberg o Marc Overmars. Allo stesso tempo lo circonda di giocatori con cui può dialogare, elementi con un tasso tecnico decisamente superiore alla media. Su tutti Robert Pires, o un certo Thierry Henry.
Wenger riesce dove aveva fallito prima Bagnoli, e poi Ottavio Bianchi, nel secondo, sempre fallimentare, anno di Bergkamp a Milano. Riesce a completare Dennis Bergkamp dandogli quella centralità assoluta che gli mancava dai tempi dell’Ajax. Oltre alle capacità da finalizzatore, ne esalta le qualità come rifinitore, soprattutto nel gioco di prima. Nelle 8 stagioni da titolare con Wenger in panchina metterà a referto qualcosa come 68 assist (nella sola Premier League).
Non può sorprendere quindi come lo stesso Henry lo abbia definito, pochi giorni dopo il ritiro, come “il più forte con cui abbia mai giocato”. Se Henry è diventato il miglior marcatore della storia dell’Arsenal, in appena 8 anni, lo si deve senza dubbio anche a Bergkamp.
Fuori dal tempo
Riguardare oggi le partite di Bergkamp nell’Arsenal è fare un tuffo nel passato non da poco. Un immersione in un mondo del pallone fatto di maglie oversize, sponsor assurdi, stadi gremiti all’inverosimile e partite tecnicamente difficili da interpretare. Nel immobilismo tattico della Premier a cavallo del XXI Secolo, Bergkamp è una mosca bianca. Un giocatore già "vecchio" per il calcio aggressivo e intenso di fine anni '90.
Semplicemente però è una spanna sopra tutti gli altri. Non ha alcun interesse a correre dietro al pallone per 90 minuti, gli basta riceverlo al momento giusto, per appena qualche secondo. Bergkamp riesce a emergere in un contesto calcistico che lo avrebbe dovuto soffocare, con la sua aggressività e il suo culto dell’intensità. Grazie ad un talento fuori dal comune "l’Olandese non volante" supera tutto questo. Diventando un icona dell’Arsenal più vincente della storia. E il quarto miglior marcatore nella storia della Nazionale Oranje.
E’ molto facile diventare nostalgici con un giocatore come Bergkamp. Uno degli ultimi grandi numeri 10, esponente di un ruolo, il trequartista, da tempo sorpassato. Nel calcio del 2020, che esalta la fluidità fino all’inverosimile, un 10 puro, a tratti quasi monocorde, a là Bergkamp, verrebbe semplicemente fagocitato dal sistema. C’è chi si è saputo adattare, come Christian Eriksen (salvo poi soffrire il primo calo fisico della carriera), o chi, come la vera sorpresa dell’anno, Bruno Fernandes, è in un tale momento di forma da essere comunque, a tratti, ingiocabile.
Per costanza di rendimento e capacità tecniche, il 10 dell’Arsenal era però un giocatore unico nel suo genere, per cui rimane, soprattutto in Italia, il rimpianto di non averne apprezzato abbastanza l’enorme talento. Ad oggi rimane solo da porsi una semplice domanda. Vedremo mai un altro Dennis Bergkamp?
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