
- di Raffaele Cirillo
Teoria e prassi, da Allegri a Sarri
La teoria risulta essenziale nella maggior parte delle attività umane. Essa non può essere considerata l’antitesi della prassi, al limite deve considerarsi il suo presupposto. La pratica non può prescindere da un’elaborazione teorica, che la organizzi, la motivi e la orienti. La teoria prevede mezzi e fini di un’attività pratica; in sintesi, stabilisce come e perché fare una cosa, e prima ancora permette di scegliere quale sia effettivamente la cosa da fare.
Essa serve pure nel calcio, eccome. Non serve più a niente e quindi non vale più nulla nemmeno nel calcio, tuttavia, nel preciso momento e nel determinato caso in cui comincia a essere talmente svincolata dall’atto pratico da rivelarsene addirittura avulsa.
Poniamo l’ipotetico caso di un allenatore di serie A, e facciamo finta che si chiami Massimiliano Allegri. Non attardiamoci a opinare sulle sue capacità professionali, sui risultati ottenuti, sulla qualità del suo lavoro. Men che meno impegoliamoci nei discorsi e nelle ipotesi sul decorso dei cicli, delle stagioni, di che durata devono e possono avere, di quando finiscono, se ci siano o davvero non ci siano più le mezze stagioni. Consideriamo solo il fatto, rigorosamente ipotetico, che l'allenatore in questione, trovandosi sotto a una tempesta impazzita di analisti, teorici, opinionisti vari e gente del Twitter, sia arrivato a convincersi che i suoi accaniti detrattori facciano “troppa teoria”. E abbia buttato anche lì un sarcastico (come suo costume): “chi sa, fa. Chi non sa, spiega.” Ma cosa avrà mai voluto dire? Con chi mai ce l’avrà avuta?
"Chi sa fa. Chi non sa, spiega"
A poco più di un anno di distanza dal suo siluramento, è il suo successore a trovarsi sotto un altro fuoco di fila. Come mai? Tra gli ormai sempre più imprescindibili commentatori, ci sono quelli che ci tengono a figurare tra i moderati, magari perché segretamente aspirano un giorno a diventare editorialisti del Corriere della Sera (o magari a essere assoldati in un programma di Bonan oppure di Caressa, dipende dai gusti). Essi ora potrebbero dire: “risultava peraltro evidente che le cause e le problematiche che conducevano progressivamente e inesorabilmente verso la fine di un ciclo, per quanto glorioso esso possa essere stato, dovevano ricercarsi in condizioni e assetti strutturali; la scelta di individuare nel solo allenatore il capro espiatorio è stata sia il frutto di una visione semplicistica, sia il segno di una strategia che poi si è rivelata controproducente.” E Stockhausen, verrebbe da dire. Messa giù così, più che da Caressa posso effettivamente immaginarli meglio da Bonan, magari affianco a Bucciantini.
Proseguiamo, però, ad addentrarci nelle tipologie di commentatori. Ci sono poi, invece, quelli che in questi contesti usano adoperare la parolina brand, ma quelli intendo risparmiarveli. Per pura scelta editoriale, diciamo. Intendo giungere a bomba proprio a coloro che erano stati gli animatori e i sostenitori della tempesta di cui sopra. Quelli che solevano dire che vincere il campionato di Serie A per la Juve rappresentava una passeggiata di salute, e dicevano anche di ben peggio. Non vincerlo, secondo loro, avrebbe rappresentato un’eventualità remotissima; perché accadesse, secondo loro bisognava davvero rendersi protagonisti di un capolavoro al contrario. Gli stessi erano poi immancabilmente quelli che: “ma neanche con Cristiano Ronaldo questo è riuscito a vincere la Champions!”. Quelli per cui il fatto di non vincere la Champions, per colui che era riuscito comunque a raggiungere per due volte la finale, rappresentava una macchia vergognosa. Quelli per cui i risultati in Europa non arrivavano perché con un gioco e una mentalità siffatte, ma dove vuoi andare? Il gioco, soprattutto il gioco era il loro cruccio. Tanto più che, sempre secondo loro, nella parte del diretto concorrente in Italia c’era un allenatore che con un potenziale umano inferiore anni luce era riuscito a far esprimere alla propria squadra un livello di gioco scandalosamente superiore, ed era arrivato pure ad un passo dal trionfo. E se non aveva poi effettivamente trionfato, era stato solo per le avversità del fato o, magari, per il mancato secondo giallo a Pjanic.
Vien da pensare che esista davvero quella figura che riesce contemporaneamente a realizzare sia le pentole che i coperchi, alcuni la individuano nel diavolo, ma io non ne sarei tanto sicuro. Ebbene, questa mitologica figura, più o meno un anno fa, ha messo al posto di Massimiliano Allegri proprio quel Maurizio Sarri, eletto a sua antitesi, a cui si riconosceva il potere di realizzare sui campi di calcio il trionfo della bellezza. Ora, per pure esigenze legali dovute al rispetto della par condicio, anche rispetto a Sarri e alla sua peraltro ancora incompiuta esperienza juventina ci esimiamo dal compito di opinare sulle sue capacità professionali, sui suoi risultati, sulla qualità del suo lavoro e del gioco espresso dalla sua squadra. Specie in una situazione così anomala, dopo due partite molto ravvicinate che hanno seguito tre mesi di pausa e soprattutto di incubo planetario. Risulta molto più funzionale al nostro discorso, invece, considerare ciò che dicono adesso, a distanza di un anno, coloro che si sarebbero immancabilmente spesi nella celebrazione della nuova primavera sarrista in grado di liberare finalmente la vecchia Signora dall’oppressione oscurantista, se soltanto i bianconeri queste due stesse partite le avessero vinte in scioltezza. La realtà, purtroppo, per certi opinionisti si rivela un avversario decisamente ostico, per affrontare il quale non puoi certo contare sulla prepotenza del fatturato.
E allora i tempi e i contesti mutano, solo gli stupidi non cambiano idea e ormai ne trovi a frotte che, frementi dal desiderio appunto di non passare per stupidi, hanno finito per far compiere alle proprie opinioni una rotazione di 180 gradi. Chi fa teoria completamente slegata dalla pratica può permettersi di sostenere una cosa e anche il suo contrario, a seconda delle circostanze e soprattutto delle convenienze. Ora, infatti, costoro sostengono che “la rosa della Juve è tremendamente sopravvalutata”. Che “con questo centrocampo improponibile, ma dove si vuole andare?”, che “le caratteristiche dei giocatori sono tali, così come la loro inemendabile tendenza all’individualismo, da impedire il naturale flusso e dispiegamento della bellezza sarrista”. Qualcuno addirittura, dopo aver sostenuto che “quell’incapace di Allegri era riuscito pure nell'incredibile impresa di anestetizzare la letalità di Cristiano Ronaldo, se non addirittura a normalizzarlo”, si spinge ad un ardito ribaltamento di prospettiva, adombrando che: “sì, CR7 è un campione, per carità, ma con le sue caratteristiche tecniche e di gioco finisce per condizionare troppo i compagni e, in qualche modo, persino per pregiudicare il funzionamento del collettivo.” Sconsacrando così pure le asserzioni e i teoremi del loro stesso protetto, allorquando già nella conferenza stampa di presentazione, si impegnò in un seducente sforzo teorico: “Bisogna partire dai talentuosi: Dybala, Cristiano Ronaldo, Douglas Costa, e poi vedere cosa costruire intorno… io organizzo la squadra in 70 metri, ma negli ultimi 30 metri si gioca sui principi, lasciando libertà a quelli che possono fare la differenza con le loro giocate. Bisogna metterli nelle condizioni di farlo.”
Quando lo disse, l’uditorio si trascinò immediatamente in estasi. Tanto più che certi discorsi riecheggiavano potentemente suggestioni catalane, e allora se una teoria appartiene pure a Guardiola, per i più si tratta automaticamente di una teoria su cui appiccicare il bollino blu. Poi però, all’atto pratico, succede che negli ultimi 30 metri vengono fatti giocare appunto Dybala, Cristiano Ronaldo e Douglas Costa e ne vien fuori uno 0 a 0 contro il Milan di questi bassi tempi, per giunta decisamente raffazzonato e per giunta ridotto in inferiorità numerica per tre quarti abbondanti di partita. E ne viene fuori quella partita con il Napoli, che è sotto gli occhi di tutti. Per cui, coloro che le rivoluzioni amano farle essenzialmente e rigorosamente di 180 gradi, magari provano a insinuare il dubbio che: “ma non è che alla fine sarà proprio colpa di Ronaldo?” Il problema è che come amasse e prediligesse giocare Ronaldo, di norma, avrebbe dapprima dovuto saperlo anche Sarri, e d’altronde lui stesso aveva teorizzato di voler costruire il collettivo proprio in osservanza e, direi quasi, in funzione delle caratteristiche del portoghese e dei suoi compagni di reparto. Quand'anche si accogliesse come plausibile questa tanto ardita ipotesi, insomma, potrebbe poi valere come esimente per l'allenatore solo fino ad un certo punto.
Il fatto è che viviamo un tempo in cui le teorie risultano maledettamente slegate dalla prassi, e figuriamoci se ciò riguardi solo il calcio. Anzi, nel calcio la questione è decisamente meno grave; anche perché in questo gioco ci sarà pur sempre un campo che potrà esprimere un verdetto e in qualche modo una verità, per quanto (sempre in questo gioco e sempre per fortuna) ogni verità risulterà comunque di per sé parziale e ancor di più provvisoria.
E allora lasciamo pure che alla prossima doppietta di Ronaldo, costoro torneranno a sostenere, come se niente fosse: “Ronaldo è il più forte calciatori di tutti i tempi, e poi le idee e i principi di gioco di Sarri sono in grado di esaltarlo alla massima potenza.” Sempre loro, se la Juve di Sarri dovesse vincere lo scudetto (epilogo che persiste a essere, tra l’altro, ampiamente pronosticabile) vedranno in questo risultato l’esaltazione assoluta del sarrismo; identificando l’impresa esattamente in ciò che fino a ieri decretavano irrilevante; e magari riconoscendo il sol dell’avvenire nei numerini che segnalano l’equivoco (calcisticamente parlando) concetto della supremazia territoriale o in quegli altri che evidenziano il parimenti ambiguo concetto del cosiddetto baricentro. In attesa, poi, di capire se ad agosto davvero si giocherà il ritorno degli ottavi di finale di Champions con il Lione, dopo la sconcertante gara d’andata, e chi ci sarà a quel punto l'allenatore dei bianconeri.
Su una cosa, però, c’è da essere pienamente fiduciosi, e cioè che qualsiasi risultato esca in quella partita così come nell’eventuale prosieguo della competizione, essi qualcosa riusciranno comunque a dirla. Con lo sprezzo del pudore che li contraddistingue. Chi sa, fa. Chi non sa, spiega. E per chi volesse una citazione più alta, a questi campioni di teorie che valgono intrinsecamente nulla, a causa del loro inconsolabile dissidio con la prassi, si potrebbe dire: “godetevi il successo, godete finché dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura” (Francesco Guccini in Cyrano).
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Raffaele Cirillo, classe 1981, di Paestum. Fantasista di piede mancino, ma solo fino a 17 anni, rigorosamente un passo prima del professionismo. Iniziato al calcio dal pirotecnico Ezio Capuano nel settore giovanile dell’Heraion, che poi gli ispirerà anche un libro, un romanzo sul calcio intitolato "Il mondo di Eziolino". Con la stessa disposizione d’animo e la medesima aspirazione creativa con cui si disimpegnava in campo, ora il calcio lo guarda, lo interpreta e ne scrive.
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