Non chiamatela "The last dance"
Quella del Napoli è stata una vittoria anche simbolica.
La sensazione, una volta che il pallone calciato da Milik si è depositato sul fondo della rete, è stata quella della chiusura di un cerchio: con una Coppa Italia, quella insanguinata del 2014 vinta contro la Fiorentina, era infatti iniziata l’avventura del blocco azzurro che ha sollevato, in uno scenario ancora più surreale (che la patetica grafica RAI ha se possibile reso ancora più insopportabile) una nuova Coppa Italia. In campo nel 2014 infatti c’erano già quelli che allora erano i nuovi acquisti del Napoli: Callejon, Mertens, anche Insigne (al netto dell’anno precedente, vissuto quasi da "stagista" con Mazzarri). Di lì a un anno o due sarebbero arrivati tutti gli altri: Allan, Hysaj, Koulibaly, Zielinski, Maksimovic, Milik.
Tutta gente che, la ricerca di questo trofeo, lo hanno vissuto come una chimera: è vero che le emozioni, i record di gol e di punti conquistati, la sensazione di onnipotenza di andare a Manchester e sapere di poter imporre il proprio spartito alla squadra di Guardiola, sono sensazioni impareggiabili che nessuno cancellerà mai, come i brividi lungo la schiena a rivedere quegli abbaglianti sprazzi di bellezza che sono stati creati sui campi di tutta Italia e non solo. Ma, come in molti dicono, l’immortalità arriva solo con il proprio nome iscritto nell’albo d’oro.
È quindi con una Coppa Italia, così come era cominciato, che è giusto che finisca questa meravigliosa storia: una storia fatta di tanti bei momenti di calcio, di titoli sfiorati e poi mancati per un nulla, e di tre titoli vinti (c’è anche una Supercoppa italiana conquistata a Doha, sempre contro la Juventus) che invece restano lì, alla memoria imperitura.
La voglia di etichettare tutto ciò che è successo ieri come la “Last dance” di un gruppo che, in un modo o nell’altro, ha scritto la storia del calcio a Napoli è tanta, e ci sarebbero tutti gli strumenti per farlo: una stagione iniziata con qualche acuto ma soprattutto con molti passi falsi, piccole tappe di avvicinamento verso un baratro che, alle pendici del Vesuvio, cambierà per sempre il significato del 5 novembre; le spaccature ormai insanabili, la guerra intestina fra squadra e società e nel mezzo un allenatore navigato che aveva però perso le redini del comando, e un Napoli sempre più nave senza nocchiero in gran tempesta.
E poi gennaio e la Coppa Italia, perché il calcio dà sempre un’altra chance, anche alle stagioni più disastrose, di trasformarsi e diventare memorabili. Un’ultima enorme opportunità per una squadra, in quel momento (dopo la catastrofica sconfitta casalinga contro la Fiorentina) lontanissima dalla zona UEFA e con un trend che, se non invertito, prometteva di proiettare il Napoli addirittura nella zona calda.
Pochi giorni dopo la gara con la Fiorentina, come un fulmine a ciel sereno, arriva la vittoria ai quarti contro la quotatissima Lazio, grazie a un lampo del capitano Insigne, divenuta a posteriori la chiave di volta della stagione partenopea.
Nel mezzo ovviamente Gennaro Gattuso, un allenatore che ha saputo guadagnarsi l’affetto di un po’ tutto il mondo del calcio ma anche non poche critiche per il suo stile di gioco. Critiche, teniamo bene a precisarlo, legittime, sotto taluni aspetti addirittura sacrosante: è oggettivamente un peccato vedere una squadra abituata a dominare campo e avversari, come visto negli ultimi anni, subire una metamorfosi così radicale che l'ha portata a diventare una squadra dal baricentro basso, che non disdegna cedere il pallone agli avversari, consegnare a loro le chiavi del match, aspettando il momento opportuno. Una metamorfosi che, attenzione, è involuzione solo a una visione miope del calcio: il calcio, nel suo insieme, infatti altro non è che giocare l’uno per l’altro, mascherando i punti deboli dei singoli e facendo emergere quelli forti.
E questa squadra, in quanto a lottare l'uno per l'altro, lo sa fare davvero bene, coinvolgendo in pieno anche quelli rimasti in panchina.
Gattuso ha soprattutto dato un’idea, uno scopo, una natura a questa squadra che, durante la gestione Ancelotti, aveva smarrito sé stessa, perso la sua identità in un tourbillon frenetico di formazioni, moduli e scelte tecnico-tattiche incomprensibili. È questo, più di ogni altro, il grande merito di Gattuso, che ha avuto l’umiltà di raccogliere una squadra che versava in una situazione tragica e ha saputo (con le buone ma anche con le cattive, quando si è reso necessario) cementarla attorno a sé e alla sua idea di gioco. Che sarà banale e rozza quanto si vuole, ma è stata ciò che serviva a questa squadra - composta da calciatori che negli anni hanno dimostrato ampiamente le loro qualità e che non potevano, razionalmente parlando, essersi "imbrocchiti" tutto d'un tratto e tutti insieme - per ritrovare sé stessa e l’armonia perduta all’interno del gruppo.
Un’armonia che ha reso tutti partecipi, anche quelli che in campo non ci andavano più, ma che una volta chiamati in causa hanno saputo dire presente: così hanno fatto Maksimovic, che da riserva sciagurata con Sarri è divenuto perno fondamentale del meccanismo difensivo degli azzurri sia al San Paolo contro l’Inter che durante la finalissima, ma anche Meret (troppo repentinamente scivolato dietro Ospina nelle gerarchie e chiamato in causa dalla squalifica di quest’ultimo proprio per la finale) e Milik, decisivi nell’atto conclusivo.
La tentazione di farlo è forte, come detto, ma non chiamatela “Last dance”: questa squadra, ieri lo ha dimostrato, ha ancora tanto da dire, e i suoi protagonisti non hanno alcuna intenzione di mettere la parola fine a questa storia.
Certo, qualcuno dovrà andare via, come vogliono le logiche della vita e del calcio: probabilmente toccherà a una bandiera come Callejon (le cui lacrime a fine gara hanno il sapore di un difficile addio da consumare), o a un simbolo degli ultimi anni come Allan; magari il rigore decisivo di Milik è stato il suo commiato dopo tanti momenti in cui non ha saputo sferrare la zampata decisiva; allo stato attuale probabilmente anche uno fra Koulibaly e Manolas è di troppo, vista la difficile compatibilità mostrata dai due difensori, apparsi finora troppo simili per essere complementari. Tuttavia, nel giorno della finale, è arrivato anche il rinnovo del nuovo top-scorer azzurro, Dries Mertens, pronto a caricarsi sulle spalle la fase offensiva degli azzurri per almeno altri due anni.
Il video con il quale Mertens e il Napoli hanno voluto comunicare ufficialmente il proseguimento del loro matrimonio
Mertens come base, insieme a un sempre più prezioso e responsabilizzato Insigne (l’uomo, al pari di Maksimovic, che più ha beneficiato dell’arrivo di Ringhio in panchina), su cui costruire i prossimi anni del Napoli: chiamato, insieme ovviamente al suo condottiero (non ci sono ormai dubbi sulla riconferma, in dubbio all’inizio della sua avventura partenopea ma strameritata sul campo) Gattuso, a capire cosa fare da grande e a maturare di conseguenza, dal punto di vista sia tecnico che tattico. Ciò che si è visto in questa ultima Coppa Italia, in cui il Napoli ha raccolto nel suo percorso fino alla vittoria gli scalpi delle prime tre di questo campionato, è necessario ma non sufficiente per restare costantemente ai livelli delle più accreditate Inter e Juventus, ma rappresenta sicuramente un ottimo punto di partenza su cui impostare i prossimi, sfrenati balli a cui gli azzurri parteciperanno, desiderosi di farsi trovare pronti.
A cominciare dalla prossima Supercoppa, alla quale il Napoli si è qualificato ieri in attesa che il campionato elegga l’altra sfidante, ma prima ancora da un clamoroso quarto posto, lontano sì dai 9 ai 12 punti (in attesa che l’Atalanta recuperi il match mancante) e quindi virtualmente irraggiungibile, ma che con le carte giocoforza rimescolate completamente diviene una piccolissima, flebile fiammella che gli azzurri possono e vogliono tenere in vita fin quando possibile. In attesa di altri, grandi balli cui questa squadra e il suo allenatore verranno chiamati. Perché il Napoli e Gattuso, a chiuderla qua, non ci pensano proprio.
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